Quando
un’idea resiste alla distruzione
Storia
del Battaglione “Antonio Gramsci” in Albania
Premessa
Alle
soglie di quel tragico momento di storica confusione che fu, per gli italiani,
l’8 settembre 1943, in Albania, alle dipendenze del Gruppo Armate Est comandate
dal Generale Ezio Rosi, era di stanza la 9^ Armata del generale Lorenzo
Dalmazzo che contava un complesso di forze pari a 120.000 uomini. Nelle zone
costiere dell’Albania operava il IV Corpo d’Armata (gen. Carlo Spatocco, sede
Durazzo) nei territori di Argirocastro (Divisione di Fanteria “Perugia”
capeggiata dal gen. Ernesto Chiminiello), Valona (Divisione di Fanteria “Parma”
comandata dal gen. Enrico Lugli) e, più a nord, Durazzo (Divisione di Fanteria
Motorizzata “Brennero” con a capo il gen. Aldo Princivalle). Nell’interno, il
XXV Corpo d’Armata (gen. Umberto Mondino, sede Elbasan) era suddiviso nelle zone
di Corcia e Dibra, dove operavano rispettivamente la Divisione di Fanteria “Arezzo”
del gen. Arturo Torriani e la Divisione di Fanteria “Firenze” del gen. Arnaldo Azzi.
Il settore di Scutari e la regione del Kosovo erano presidiati dal Settore Z
“Scutari Kosovo” con a capo il gen. Alessandro D’Arle e la Divisione di
Fanteria “Puglie” comandata dal gen. Luigi Clerico.
Quel “tragico momento di
storica confusione” colpì gli italiani in Albania forse più dei compagni
militanti sul suolo patrio, poiché più forte fu il senso di abbandono e
incertezza in cui vennero lasciati gli italiani in quella appendice del regno
che fu l’Albania dopo l’occupazione fascista. Quando un armistizio sembra
piombare dal cielo e un cambiamento improvviso di alleanze rompe qualcosa nelle
catene di comando militare, allora si manifestano inspiegabili, ma non troppo,
comportamenti divergenti da parte di chi, quel colpo di piombo, ha dovuto
accusarlo. Ed è così che 120.000 uomini si ritrovarono a percorrere strade
diverse: circa 75.000, rifiutandosi di aderire alle proposte di
collaborazionismo con i tedeschi, furono catturati dall’ex alleato e avviati ai
campi di internamento; tuttavia, per ogni 7/8 militari che opponevano il loro
rifiuto, 1 aderiva: così circa 8.000 uomini mostrarono la loro fede al credo
fascista terminando la guerra al fianco della “Alleanza”. In quei frenetici
giorni di settembre, furono circa 10.000 gli uomini che riuscirono a
raggiungere i porti albanesi più prossimi alla loro divisione e a imbarcarsi
per l’Italia, dove, tuttavia, non terminò per tutti il viaggio. Per quanti non
riuscirono a tornare a casa e, seppur ostili ai tedeschi, ma stanchi della
guerra, non avevano intenzione alcuna di combattere ancora, la possibilità fu una
sola: rifiutare qualsiasi proposta, gettare le armi e resistere dandosi alla
montagna, assuefarsi a costumi diversi e a condizioni di vita precarie cercando,
per quanto possibile, di sopravvivere lavorando per gli albanesi o, per i più
fortunati, in imprese italiane. Furono questi, approssimativamente, tra le 15 e
le 20.000 unità. Stando alle cifre, qui riportate per
eccesso, resterebbero tra le 10 e le 7.000 unità, che offrono lo spettro del
potenziale militare che gli italiani avrebbero potuto sfruttare a sostegno
della lotta armata contro il nazifascismo in Albania. Ma la totale mancanza di
supporto iniziale da parte del Comando Supremo Italiano e degli Alleati, fece
sì che, in un primo momento, soltanto 3.000 uomini riuscissero materialmente a
imbracciare le armi e a darsi una organizzazione strutturale e logistica per
affrontare la Resistenza armata. Questi a loro volta si suddivisero in due
categorie:
1)
quelli che si costituirono nel Comando
Italiano Truppe alla Montagna (C.I.T.a.M.), su iniziativa del Tenente
Colonnello Mario Barbi Cinti il 15 settembre 1943, entrato in piena attività
dal 28 settembre sotto la guida del Generale Azzi – la più alta autorità
militare italiana in Albania sino alla sua partenza nel giugno 1944 –, e del Tenente
Colonnello Goffredo Zignani, che già dalla metà di ottobre aveva alle
dipendenze 5.000 uomini, inquadrati in 13 battaglioni, situati nelle zone
militari di Peza, Dajti, Berat, Dibra, Elbasan, Valona, Mati, Corcia,
Argirocastro. Uomini che avevano fermamente deciso di combattere i tedeschi, di
restare fedeli al Re, alla Nazione e al Comando Italiano e che tentarono di
mantenersi saldamente organizzati e coordinati nella loro lotta finché,
abbandonati dall’Italia e dagli Alleati, ripetutamente colpiti dal nemico, si
sciolsero nel giugno 1944 per mancanza di aiuti e mezzi, continuando tuttavia a
gestire per quanto possibile i rapporti tra l’Italia e l’Albania, provvedendo al
rimpatrio loro e al sostegno dei militari italiani rimasti sul suolo schipetaro.
2)
quelli che volontariamente si arruolarono
nelle file dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese (E.L.N.A.), il cui
commissario generale era Enver Hoxha e capo di Stato Maggiore Spiro Moisiu,
ideologicamente schierato e di orientamento comunista. Inferiore, per numero
delle forze in campo, rispetto al C.I.T.a.M. (inizialmente circa 800 contro
3.000, accresciuti man mano sino a raggiungere i 1.200 contro 5.000), collaborò
con quest’ultimo nella comune lotta al nazifascismo, maturando tuttavia nel
tempo un certo sentimento di diffidenza verso questa mole di italiani
organizzati, stanziati sulle loro montagne, pur sempre ex-occupatori.
Certamente meglio accolti i volontari partigiani italiani, ideologicamente più
vicini, che singolarmente o in gruppi, scelsero di combattere nel loro
esercito, importantissimi per il contributo dato in qualità, soprattutto, di
artiglieri. Agli italiani che qui confluirono venne concesso di creare un
quarto battaglione autonomo, aggiunto ai 3 già creati dai partigiani albanesi,
che ne seguisse la fisionomia ordinativa: squadre di 6 elementi ciascuna che a
gruppi di 3 o 4 convergevano in plotoni, ogni 4 plotoni si aveva una compagnia
e ogni 4 compagnie un battaglione. Il 10 ottobre 1943, al comando di Terzilio
Cardinali, si costituì il battaglione “Antonio Gramsci” – in onore e memoria
del fondatore del Partito Comunista d’Italia, vittima antifascista, di lontane
origini albanesi – su 3 compagnie di 3 plotoni ciascuna, per un totale di circa
170 uomini.
Gli uomini del “Gramsci”
La
I Brigata partigiana albanese, al cui interno era inquadrato il battaglione
“Gramsci”, era comandata da Mehmet Shehu. Una annotazione manoscritta da lui
firmata e datata 12 ottobre 1943, riporta le forze della brigata: a) partigiani
albanesi: 630, b) partigiani italiani: 166, c) artiglieri italiani: 200, d)
mulattieri italiani: 100, totale: 1096. I partigiani italiani
erano giunti al Comando armati di fucile e mitragliatrici leggere. In un
rapporto stilato tre giorni prima per lo Stato Maggiore dell’E.L.N.A., il
comandante della I Brigata – a seguito degli accordi presi con il gen. Azzi e dell’appello
letto a truppe e ufficiali del C.I.T.a.M. – aveva annunciato la formazione del
nucleo del battaglione “Antonio Gramsci” con 137 volontari italiani cui si
aggiungevano 20 radio-telegrafisti, un potenziale iniziale di 170 muli e
cavalli poi ridotto a 100, per esigenze di trasporto, accompagnati da 100
mulattieri e un veterinario, un’artiglieria con un’efficacia da 270 posti e 4
obici da 75/13.
Nessun ufficiale era entrato a far parte del battaglione, forse – si annota nel
Diario Storico Militare del “Gramsci” – perché il Comandante
della I Brigata aveva detto che nessuno avrebbe dovuto avvalersi dei gradi. Pertanto,
per volere dei componenti vennero nominati i comandanti e i commissari politici
delle tre compagnie in cui era suddiviso il battaglione: Gargnelutti Romeo e Cicerchia Romeo
per la 1^ compagnia, Monti Giuseppe e Bonacchi Francesco per la 2^ compagnia,
Cavallotto Giovanni Battista e Brunetti Bruno per la 3^. Contenti, promettevano
di fare il loro dovere fino alla fine.
Il morale era altissimo.
I diari riportano un generale clima di fermezza e determinazione tra gli
italiani e di affabilità degli albanesi nei loro confronti, malgrado ciò che
avevano dovuto subire durante l’occupazione. Ma le idee li accomunavano e tanta
era la volontà di combattere. Si cantava a gran voce l’Inno dei lavoratori e il
suo ritornello: “Sul cammin dell’avvenire / affrettiam compagni il pie’ / e
giuriamo di morire / pria che mai tradir la fe’.” Ma con il tempo il
battaglione si diede anche una sua marcia che incitava gli animi partigiani
alla lotta contro il fascismo per un’Italia libera. Una marcia che ricordava
loro costantemente di essere italiani e che stavano combattendo anche per la
loro libertà, seppur sull’altra sponda dell’Adriatico:
Noi del fascismo
conosciam le pene
L’onte subite da noi
lavorator
Alfin spezzate le catene
abbiam
Che
sfruttavano ogni dì il nostro lavor
Contro il nemico barbaro
e crudele
Tutta l’Italia un dì si
ribellò
Coi partigiani, le
camicie nere
Han
perduto nella guerra il suo valor
Proletario va
Verso il tuo destin
Il cammin
Della patria sorgerà
Dell’Italia la sorte
Abbiamo nelle man
Siamo
arditi partigian
Combatteremo fino alla
vittoria
La nostra terra libera
sarà
Noi dell’Italia storia si
farà
Degli
eroi il sangue vendichiam
Siam proletari della
nuova Italia
Che un dì sui colli ancor
risorgerà
L’Italia bella libera
sarà
Con
la pace il lavor ritornerà
Proletario va
Verso il tuo destin
Il cammin
Della patria sorgerà
Dell’Italia la sorte
Abbiamo nelle man
Ma
quando il nemico è unico e unica è l’idea, unica è la lotta. Parteciparono sin
da subito alle operazioni della I Brigata. A soli due giorni dalla loro
costituzione, i partigiani del “Gramsci” attaccarono un’autocolonna tedesca
sulla strada Elbasan-Pekin. “Il morale è altissimo” ricorre nel Diario come un
leitmotiv. Era così il giorno prima della sua distruzione quasi totale, a
Berat, il 15 novembre 1943, dopo aver sfilato per le strade della città,
acclamati dalla popolazione che inneggiava all’Esercito di Liberazione
Nazionale. Quel 15 novembre a difendere la città vi era anche il Battaglione
del Comando della Zona di Berat dipendente dal C.I.T.a.M. comandata dal ten. col.
Antonio Curti. Le batterie “Cotta” e “Menegazzi”, alle dirette dipendenze
dell’E.L.N.A., erano riuscite a sganciarsi prima dell’attacco. Il battaglione
“Gramsci” presidiava la città con il compito di eseguire lavori di sbarramento
sulla strada che conduceva al vicino aeroporto, in mano ai tedeschi. Unità
della 100^ divisione tedesca – aiutate da forze nazionaliste albanesi e dal
tradimento di Xhelal Staravecka (comandante del II battaglione della I Brigata
d’assalto albanese) che rivelò al nemico entità e posizione delle forze
partigiane – alle 5.30 del mattino, attaccarono a sorpresa tutto il fronte,
dapprima sulle colline dove era posizionato il “Gramsci”, poi in pianura, lungo
le strade, mitragliando e bombardando. Berat era perduta. Il Comando di Zona
del C.I.T.a.M e il battaglione “Gramsci” erano distrutti. Il morale non poteva
più essere alto. Trascorso appena un mese, con i reparti da poco costituiti e gli
elenchi degli effettivi ancora imprecisi, il battaglione era ridotto ai minimi
termini: di 170 partigiani ne erano rimasti solo 48, scampati alla morte grazie
alle acque del fiume Osum, in cui si erano gettati per trovare salvezza. Gli
altri compagni erano morti in battaglia o fatti prigionieri dal nemico. Il
rapporto del Comando della 100^ divisione tedesca riportava 117 nemici morti
(un colonnello, un maggiore, 3 capitani, 2 tenenti italiani, 65 uomini italiani
e 45 albanesi), 182 italiani prigionieri, 103 albanesi prigionieri. Anche il
ten. col. Curti contò i suoi morti, che ammontavano a 4 ufficiali e circa 50
sottufficiali e truppa. Il comandante Terzilio
Cardinali, con pochi compagni, raggiunse la regione della Malacastra, dove la I
Brigata d’assalto albanese era impegnata in operazioni contro forze
nazionaliste del Balli Kombetar e dopo quattro giorni di marcia ritrovarono il
comandante della 1^ compagnia Giuseppe Monti a Vargegia.
Ripresero
subito la loro attività: operazioni contro i ballisti, perquisizioni,
combattimenti: Capinova, Bargulas, Dobregia, Novai, Libova. A Libova trascorsero
il Natale. Si erano, intanto, arruolati nuovi partigiani; non erano, dunque,
del tutto distrutti. A differenza degli altri battaglioni del C.I.T.a.M.,
ugualmente abbattuti dal nemico, il “Gramsci” era in fase di ricostruzione.
Questo, ovviamente, grazie all’aiuto albanese. Mehmet Shehu rivolse a Terzilio
Cardinali parole di supporto e incitamento affinché la loro comune lotta
continuasse, affinché continuassero insieme la “marcia verso la vittoria
finale”. Mai come in questo caso
è evidente la forza che può possedere un’idea. Ricostruire il “Gramsci”
significava ricostruire l’unica entità italiana comunista sul suolo albanese
che potesse sostenere le forze di liberazione, materialmente e ideologicamente.
Per quanto la volontà di combattere il nazifascismo fosse comune, i battaglioni
del C.I.T.a.M non vennero mai aiutati a ricostruirsi, poiché non
ideologicamente schierati dalla medesima parte e poiché avrebbero rappresentato
quell’aiuto italiano alla liberazione non gradito perché non interno alla causa
albanese. Avrebbe tolto ai partigiani albanesi la portata nazionale e comunista
della propria lotta per la liberazione da un nemico che era non solo tedesco,
ma anche italiano.
Fu
l’idea dunque a sopravvivere e ad essere ricostruita. Un’idea che tenne viva la ferrea volontà di
andare avanti nella lotta anche nei mesi più difficili, come quelli di gennaio,
febbraio e marzo 1944, dal clima estremamente rigido, vitto molto scarso e attacchi
del nemico costanti.
A
marzo il morale tornava alto dopo la cattura di 480 nemici; il 28 maggio a
Belsh, per vendicare la sconfitta di Berat, dopo aver tentato, invano, di
fronteggiare i tedeschi per liberare gli italiani prigionieri nei loro campi,
gli uomini del “Gramsci” mossero verso un presidio tedesco vicino e lo
eliminarono. Tornava l’energia e incalzavano le operazioni per costringere il
nemico alla ritirata. Dal mese di luglio il battaglione era impegnato nella
zona di Cerenez (Dibra), dove furono necessari ripetuti assalti per poter
snidare le forze nemiche, numerose, ben armate e ben posizionate. Durante
l’ultimo assalto, l’8 luglio, che permise di scardinare lo schieramento opposto
e liberare l’intera area, cadde, trapassato al cranio da una pallottola, il
comandante Terzilio Cardinali. Tra le perdite anche un comandante di plotone, Renato
Donnini, e un vice-commissario, Rocco Consiglio. La morte del carismatico comandante
Cardinali segnò profondamente i giorni a venire. Come nuovo comandante venne
nominato Giuseppe Marchi, vice-comandante Emilio Marconi.
L’attività
del “Gramsci” prevedeva per i mesi successivi operazioni di sbarramento e
distruzione delle vie di comunicazione per ostacolare le forze tedesche e collaborazioniste,
attaccandone presidi, colonne e camionabili.
Il 10 ottobre 1944, il
nuovo comandante di battaglione Giuseppe Monti e il commissario politico Bruno
Brunetti firmarono e inviarono un messaggio al comandante Mehmet Shehu:
I Divisione I Brigata
d’assalto
Btg.
“Antonio Gramsci”
Zona
libera, li 10 ottobre 1944
Al compagno
Comandante della I
Divisione
MEHMET
SHEHU
Il
Battaglione “Antonio Gramsci” nella ricorrenza del primo annuale della sua
fondazione, con lo spirito combattivo della prima ora e nella certezza della
vittoria finale ti invia i più sentiti saluti rivoluzionari.
Con
lo spirito, ma non con i combattenti della prima ora. A un anno di distanza il
battaglione aveva subito numerosi cambiamenti: sconfitte, perdite di compagni,
riprese, nuove reclute. Mutava, si rigenerava, ma lo spirito combattivo,
assicurava Brunetti, era il medesimo, immutato.
Dopo
le operazioni del mese di ottobre, tutta la rotabile Tirana-Durazzo fino al
bivio per Scutari era sotto il controllo del battaglione; in novembre l’unica
città ancora occupata dalle forze tedesche era Tirana e, oramai, erano tutti lì
concentrati per l’atto finale di questa lotta per la libertà: i partigiani
albanesi e italiani inquadrati nelle file dell’E.L.N.A., il battaglione
“Gramsci”, le batterie di artiglieria al comando di Menegazzi e i militari
italiani dell’ormai sciolto C.I.T.a.M., ancora rimasti sul suolo albanese e
organizzati nel neonato Comitato Clandestino Italiano. Una parte del
battaglione “Gramsci” operava nella immediata periferia per impedire alle
formazioni nemiche di rientrare in città, i restanti si battevano sulle
barricate in pieno centro. I combattimenti coinvolsero tutti e si susseguirono
fino al 17 novembre, tra strategie, tattiche, assalti e violenze.
Il
19 novembre i partigiani del “Gramsci” poterono entrare in una Tirana
definitivamente libera dagli occupatori nazi-fascisti, accolti da entusiastiche
manifestazioni di simpatia da parte della popolazione.
Le
perdite del battaglione “Gramsci” al 20 novembre 1944 erano: 15 caduti, 24
feriti, 140 dispersi. Dopo la liberazione di Tirana, il battaglione come le
altre forze italiane combattenti inquadrate nell’E.L.N.A., furono impegnate ad
eliminare le residue formazioni “balliste” e collaborazioniste, ancora
variamente sparse sul suolo albanese, e, non meno importante, ad organizzare
organicamente la propria presenza lì, provvedendo alle successive operazioni di
rimpatrio. Essendo, nei fatti, il battaglione “Gramsci” l’unica formazione
autonoma ancora attiva, riconosciuta ed elogiata dall’E.L.N.A. per il
contributo dato – tanto che 92 partigiani italiani combattenti del “Gramsci”
ottennero la nomina a membri del Partito Comunista Albanese per meriti speciali – iniziarono ad affluire
quanti avevano combattuto nelle file degli altri reparti, sin quando, per
ordine del Comando Supremo dell’E.L.N.A., il 6 febbraio 1945, venne costituita
la Brigata “Antonio Gramsci”, (allo scopo originario
d’inviarla in Jugoslavia dove ancora si combatteva contro i tedeschi e dove,
già da qualche mese, combatteva inquadrato in una brigata albanese il
battaglione italiano “Palumbo” al comando di Ernesto Celestino) organizzata su 4
battaglioni, poi accresciuta a Divisione, comandata dal ten. col. Giuseppe
Monti, formata da due Brigate che presero il nome di Brigata Terzilio Cardinali
(comandata dal magg. G. Battista Cavallotto) e Brigata Giuseppe Pignataro (comandata
dal magg. Mario Fantacci), in memoria dei due capi partigiani morti in
battaglia, con un effettivo di 1.800 combattenti.
Di
ordine decisamente superiore, però, era il numero totale degli italiani,
militari e civili, presenti nel territorio schipetaro dopo la liberazione e a cui
bisognava rivolgere debita attenzione. Su questo fronte era da tempo attivo il
generale Gino Piccini – subentrato al generale Azzi a seguito del suo rimpatrio
a giugno 1944, comandante del Comando Truppe Italiane d’Albania – che aveva
fermamente espresso la volontà di restare in Albania per tutelare gli interessi
dei militati italiani presenti. Molti erano i militari ancora fermi sulle
montagne in stati di totale indigenza, molti i militari lavoratori presso altri
italiani o albanesi. Piccini tentò la non facile impresa di stabilire dei
collegamenti con il Comando Italiano e Alleato al fine di regolamentare e
tutelare la loro posizione e provvedere a dei rimpatri controllati; difficoltà
ampliata dalla diffidenza del Governo Provvisorio (insediatosi il 28 novembre
1944) e del Comando albanesi nei confronti di un ufficiale italiano che, per
quanto potesse aver dichiarato il suo antifascismo, restava pur sempre un
esponente di quel passato, sebbene compagno nella lotta partigiana. Di fatti i
Centri Assistenza istituiti nelle varie città albanesi vennero trasformati in
Sezioni del “Circolo Garibaldi”, Circolo Democratico Italiano costituito sin
dal mese di novembre prima a Berat e poi, a città liberata, a Tirana, su
iniziativa degli uomini del “Gramsci” con l’approvazione della polizia locale
albanese. L’azione del generale Piccini e del Circolo Garibaldi procedette,
dunque, parallelamente.
Il
Circolo era organizzato secondo i modelli dei Comitati di Liberazione Nazionale
italiani, presidente generale fu eletto il dr. Arnolfo Nizzola e segretario
generale il rag. Angelo Lombardi. Divenne questo il punto
di riferimento principale per l’assistenza degli italiani, soprattutto dei
militari, che, a partire dal mese di marzo, si diede anche una pubblicazione
periodica settimanale dal titolo “L’Unione”, cui parteciparono attivamente e
con entusiasmo gli italiani sino al giorno dell’ultimo rimpatrio. Nello stesso
mese importante fu, per gli umori e il destino dei suoi connazionali, la visita
del Sottosegretario alla Guerra, Senatore Mario Palermo, dal 9 al 17 marzo
1944. In quei giorni, l’on. Palermo incontrò i rappresentanti del Governo
Provvisorio e delle Forze Armate albanesi, il gen. Piccini e i campi di
raccolta dei militari italiani, i reparti della brigata “Gramsci” e il “Circolo
Garibaldi”; visite dense di emozioni e di orgoglio per il Sottosegretario nel
riconoscere, negli occhi di chi si era battuto per la libertà di quella terra,
la tenacia di militari antifascisti che avevano resistito sino all’ultimo nella
speranza, ora, di ritornare in patria. La realizzazione di quella speranza
dipendeva da lui e dalle trattative che avrebbe dovuto condurre, in
rappresentanza del Governo Italiano, con il Capo del Governo Albanese Enver
Hoxha. A seguito di ripetuti colloqui, venne firmato un verbale contente le
clausole degli accordi presi, che avrebbe rappresentato la base dei rapporti
tra l’Italia e l’Albania per tutto il 1945 e la regolamentazione delle prossime
attività di rimpatrio. Si stabilì che sarebbero stati rimpatriati prima gli
ammalati, i feriti, gli indigenti e i militari in armi, gli uomini della
“Gramsci” e le batterie di artiglieria (circa 2.000 combattenti), come premio e
riconoscimento per i sacrifici compiuti al fianco dell’E.L.N.A.; a seguire i soldati
disarmati che avevano lavorato presso gli albanesi (circa 10.000), poi i
prigionieri dei tedeschi e per ultimi i civili (circa 8.000) all’infuori di
alcune categorie di specialisti che avrebbero dovuto aiutare gli albanesi nella
ricostruzione del Paese.
Prima
della partenza dell’on. Palermo, si tenne una piccola cerimonia in cui, alla
presenza del Sottosegretario, del gen. Piccini, del comando della Divisione
“Gramsci”, del gen. Spiro Moisiu e del gen. Mehmet Shehu, vennero consegnate le
decorazioni al valore militare concesse dal Governo albanese ai partigiani
italiani che maggiormente si erano distinti nella guerra di liberazione.
Dal
mese di aprile l’aeroporto di Tirana fu collegato con Bari per garantire il
primo rientro in Italia di feriti e ammalati; a maggio iniziò il rimpatrio
della Divisione “Gramsci”. A Durazzo, nelle vicinanze del porto, era stato
appositamente istituito un Ufficio Imbarchi, alle dipendenze del magg. Bruno
Brunetti, per gestire nel miglior modo possibile le operazioni. Il giorno prima
dell’imbarco la Divisione sfilò per le vie di Durazzo. I primi ad essere
rimpatriati furono i membri della Brigata Pignataro, comandata da Mario
Fantacci, in due scaglioni assieme al Comando della Divisione, al Comando della
Brigata Cardinali e alle due batterie di artiglieria (gli unici reparti ancora
regolari della 9^ Armata, rimasti con propri ufficiali, divise e stendardo sino
all’ultimo).
Era il mattino del 3 maggio, il mare era calmo e la partenza fu disciplinata e
ordinata, un esempio di dignità.
Tuttavia,
all’arrivo, l’accoglienza che certamente aspettavano e meritavano, non la ricevettero.
I battaglioni imbarcati per primi con il magg. Fantacci giunsero al porto di
Brindisi, in vista del quale si disposero in armi sul bordo della nave per
mostrare a tutti il loro valore, ma nessuno era lì ad attenderli. Dopo qualche
ora, vennero fatti incolonnare e, con le bandiere, sfilare per una strada
secondaria che conduceva ad un campo dove avrebbero dovuto sostare in
isolamento, in attesa di accertamenti medici, perché sospettati di essere
affetti da vaiolo. Più probabilmente l’intenzione dei Comandi italiani e
alleati era quella di evitare di dare eccessiva visibilità a una Divisione che
proveniva da un Paese che si era dato un provvisorio governo comunista, che
portava il nome di Antonio Gramsci e che quindi non poteva che essere formata
da elementi comunisti. Conclusione non aderente alla realtà, poiché nella
Divisione erano confluiti ufficiali, sottufficiali e soldati provenienti dalle
più diverse ideologie, accomunati dalla sola ferrea volontà di essere
antifascisti e di voler combattere per la libertà dell’Albania, come
dell’Italia. Vennero dunque tutti trasferiti al campo contumaciale di Sant’Andrea
a Taranto, dove erano intanto giunti anche i restanti battaglioni della Brigata
Pignataro e dove giungeranno successivamente anche tutti gli altri reparti
della Divisione. Cedettero tutti le armi per ordine del Comando Militare
Alleato e del Ministero della Guerra Italiano, restando fedeli al loro animo di
militari che devono ubbidire agli ordini dei superiori.
La
Divisione non venne inquadrata nel nuovo Esercito Italiano. Dopo la breve
permanenza a Taranto, ogni soldato partì per la propria regione di provenienza
dove, dopo una licenza di due mesi, avrebbero dovuto presentarsi ai Corpi di
appartenenza.
Terminava così,
nell’ombra, la storia degli uomini della “Gramsci” che tanta energia e tanto
valore avevano dimostrato tra le montagne albanesi, combattendo per la libertà.
Conclusione
Nel
maggio del 1945 erano ancora molti gli italiani che attendevano il rimpatrio.
Se l’odissea degli uomini del “Gramsci” poteva dirsi terminata, così non era
per tutti gli altri connazionali che dovettero trascorrere in Albania altri
quattro mesi prima di poter rivedere le coste italiane.
Il generale Piccini restò
a Tirana fino a quando, il 17 agosto 1945, giunse, su ordine del Ministero
degli Esteri, la Missione Civile presieduta dal console generale Ugo Turcato,
incaricata di mantenere rapporti diplomatici tra i due paesi in attesa di un
ristabilimento delle relazioni. Incarico non facile data l’imminente divisione
dei territori nelle due sfere di influenza che avrebbero caratterizzato la
Guerra fredda e l’inevitabile schieramento dell’Albania al fianco delle forze
sovietiche, in contrapposizione al blocco occidentale e dunque all’Italia
stessa.
Dinamiche, dunque,
complesse quelle interne all’Albania nella Seconda guerra mondiale, che
rispecchiano la complessità delle vicende che hanno sconvolto l’intera Europa
nel corso di pochi decenni. Un’occupazione italiana, un’invasione tedesca, una
guerra e una resistenza. Una resistenza fatta non solo da albanesi ma anche da
italiani e, soprattutto, non solo dagli uomini in armi del Battaglione Antonio
Gramsci – distrutto, ricostruito e ampliato – ma anche da tutti i militari
datisi alla montagna, dai civili e dagli internati che hanno opposto il loro
netto rifiuto al nazifascismo.