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venerdì 31 dicembre 2021

venerdì 10 dicembre 2021

Il Fronte dell'Internamento: i dati quantitativi

 


Secondo studi recenti[1] l'Italia schierava, alla data dell'armistizio oltre  1 milione e mezzo di uomini; complessivamente ne sono stati disarmati 1006730, mentre i rimanenti 493.000 sono riuscite a sfuggire alla cattura tedesca, o a raggiungere la montagna, o le proprie case oppure, se all'estero, i movimenti di resistenza  già attivi contro la coalizione antihitleriana.

 

Secondo le stesse fonti i 10076780 militari italiani catturati dai tedesci, sono stati presi dai seguenti reparti germanici: Comando gruppo Armate B, Rommel, in Italia, 415.682, Comando 19° Armata, in  Francia, 58722, Comando Sud Italia, Kesserling, 102.342, Comdando gruppo Armate Est, Grecia ed Egeo, 265.000 e Comando  2a Armata Corazzata, Balcani, 164.986.

 

La stessa fonte offre il seguente quadro generale di situazione sui militari italiaani internati in  Geermania:

-         militari italiani alle armi, oltre 1.500.000

-         militari italiani sfuggiti alla cattura, 493.000

-         militari italiani catturati, 1006.780

-         militari italia sfuggiti ai tedeschi dopo la cattura, 190.000

-         militari italiani internati, 725.000

-         militari italiani che hanno aderito alla RSI dopo l'ingresso nei lager, 114.500

-         militari italianiconsiderati prigionieri ed inviatial fronte dell'est come ausiliari, 12000

-         militari italiani internati nei lagr del III Reich e territori occupato, 598.000

 

Da questo riepilogo emerge che il 19% ( 190.000) del totale di 1.006730 militari disarmati sono sfuggiti ai tedeschi o col loro consenso o per abilità personale, mentre circa il 20% hanno collaborato con i tedeschi sia la momento del disarmo (90.000) sia con le successive adesioni dall'ottobre 1943 al gennaio 1944 (114.500), cifra che rappresenta il 16% degli italiani internati nei campi di concentramento (725.000).

 

I dati che sono stati riuportati presentano discrepanze dell'ordine dell1% e quindi dovrebbero corrispondere o essere quanto meno piuttosto vicine alla relatà storica.

 


[1] Schreiber G., I Militari Italiani Internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943 -1945, Ministero della Difesa, Stato Maggiore dell'esercito, ufficio Storico, Roma, 1992

sabato 20 novembre 2021

mercoledì 10 novembre 2021

Ricerche sulla Brennero

 

Generale Coltrinari buonasera

domani è il mio compleanno, compio sessant’anni, e lei puoi farmi un regalo gradito.

Sono figlio di un militare appartenente alla 4a compagnia – IV Battaglione Mitraglieri – 232° Reggimento -  Divisione Brennero. Credo avrà già compreso che sto ricercando notizie che commemorino mio padre, che fortunatamente è ritornato dalla guerra, ma poco ha raccontato della sua odissea ed è poi morto, quando non avevo ancora dieci anni.

Ho letto su internet delle vicende da lei raccontate occorse alla divisione dopo l’8 settembre 1943 dove sostanzialmente afferma che tale unità è forse l’unica che “rientrò in Italia nel settembre 1943, in modo organico, dai Balcani”.

Su “11ª Divisione fanteria "Brennero" - Wikipedia “ leggo inoltre

“Nel febbraio del 1943 la divisione, alle dipendenze del IV Corpo della 9ª Armata, viene ritrasferita in Albania, presso Durazzo, dove muta nuovamente organico…. Consegnate le armi ai tedeschi, i suoi uomini riescono a reimbarcarsi per l'Italia, tranne il III Battaglione/231º Reggimento fanteria di

stanza a Porto Edda che si imbarca per Corfù, dove seguirà le sorti di quel presidio, ed il I Btg /231º Regg. (insieme ad altri elementi isolati della divisione) che si unisce ai partigiani albanesi.”

Ora mio padre, plausibilmente a Durazzo (PM49) dopo essere stato di presidio nell’isola di Zante per sedici mesi come da testimonianze di commilitoni, non era un persona che prendeva facilmente ed in modo autonomo decisioni di abbandonare il reparto, ritengo abbia seguito altri compagni. Dai pochi racconti che ha fatto a mia madre è stato sicuramente preso prigioniero dai tedeschi ma poi, dopo vari trasferimenti, si troverà a vivere alla macchia per altri 37 mesi sulle montagne albanesi.

Le chiedo per quanto è a sua conoscenza se conosce altri reparti organici della divisione che abbiano seguito i partigiani e soprattutto se abbia conoscenza specifica del IV Battaglione Mitraglieri, che sembra “figlio di nessuno” in quanto solo all’inizio del ’43 ritornava in subordine al 232° reggimento.

A tal proposito allego un organigramma che ho ricostruito su qualche documentazione in possesso di mamma, se le può essere di aiuto.

Le sarò infinitamente grato per gli aiuti che si sentirà e potrà darmi e

nel ringraziarla ancora in fiducia le porgo i miei più cordiali saluti.

Graziano Olivetto

goolivetto@gmail.com

 

 

 

domenica 31 ottobre 2021

Seconda Guerra Mondiale. Le Grandi Battaglie

 La battaglia di Iwo Jima

 

di Anastasia Latini

 

Mentre in Europa l’inizio del 1945 segnava il tramonto del Terzo Reich, la battaglia ancora infuriava nell’Oceano Pacifico e gli Stati Uniti stentavano a piegare la resistenza giapponese.

Una battaglia che per molti aspetti segnò il passo fu quella combattuta sull’isola di Iwo Jima, il cui esito fu immortalato dalla celebre foto Raising the Flag on Iwo Jima scattata da Joe Rosenthal che gli valse il Premio Pulitzer e che divenne una delle immagini più rappresentative della seconda guerra mondiale.

Iwo Jima è un’isola appartenente all’arcipelago Volcano, all’epoca abitata da circa 1.200 persone, tutte evacuate per renderla una roccaforte della difesa giapponese dopo l’arretramento del fronte, dovuto alla pressione degli americani sugli arcipelaghi occupati. 

Iwo Jima era un obiettivo strategico fondamentale per gli Stati Uniti che si preparavano ad un’invasione del territorio nazionale giapponese: l’isola faceva parte della sottoprefettura di Ogasawara che a sua volta era parte dell’amministrazione metropolitana di Tokyo, e la sua occupazione avrebbe procurato uno shock psicologico notevole ai giapponesi.

Altre motivazioni risiedevano nella sua posizione: era ad una distanza dalla capitale che permetteva di inviarvi gli aerei bombardieri B-29 con la scorta dei caccia North American P-51 Mustang, una scelta necessaria visto che questi ultimi avevano bisogno di una base di rifornimento   in prossimità dell’obiettivo da raggiungere, e facendone a meno i caccia giapponesi a difesa del territorio nipponico avrebbero costretto i Superfortess a volare a quote molto elevate, rendendo impreciso il bombardamento.

Il problema del rifornimento è stato centrale nella scelta di occupare Iwo Jima, che poteva diventare una base intermedia perfetta per il rifornimento dei B-59 di stanza nelle isole Marianne, così che fossero in grado di caricare più del doppio delle bombe, alleggeriti da meno carburante e che in caso fossero stati colpiti potevano atterrarvi senza dover attraversare un tratto consistente di oceano.

I giapponesi avevano dotato infine l’isola di due aeroporti, Motoyama 1 e 2, mentre un terzo era in costruzione e venne in seguito completato proprio dalle forze statunitensi che così potevano contare di un’isola fortificata e dotata di uno snodo aereo in pieno territorio nemico.

Nel giugno del 1944 la difesa di Iwo Jima veniva affidata al generale Tadamichi Kuribayashi che doveva prepararsi a difenderla senza la possibilità di ricevere rinforzi in caso di attacco.

Da circa 5.000 uomini si arrivò ad una guarnigione di 22.000 soldati, supportati da un consistente numero di cannoni antiaerei e anticarro, carri armati 97/Chi Ha e 95/Ha Go e mortai di ogni tipo.

Il vero capolavoro della difesa dell’isola tuttavia era la rete di tunnel e postazioni sotterranee che il generale Kuribayashi fece costruire: 18 km di gallerie rese possibili dalla conformazione vulcanica del terreno, che ne rese d’altro canto difficoltosa la costruzione a causa dei vapori sulfurei che si sprigionavano durante gli scavi.

La struttura sotterranea collegava bunker, casematte, trincee coperte e artiglierie, il tutto protetto da cemento armato e porte blindate e reso pressoché invisibile alle forze di invasione.

Questo fu il motivo che spinse i giapponesi a difesa dell’isola a non contrattaccare al consueto bombardamento che precedeva lo sbarco, cosicché le postazioni degli artiglieri rimanessero celate fino all’inizio della battaglia.

L’esercito nipponico poteva contare sulla preparazione e la superiorità strategica contro un nemico che aveva dalla sua possibilità di rifornimento quasi infinite e un maggior numero di uomini e mezzi da usare per la conquista dell’avamposto.

Kuribayashi sfruttò le ridotte dimensioni dell’isola, che ha un’area di 20 km², una lunghezza di 8 km e una larghezza di soli 730 m, predisponendo la divisione in tre settori di difesa: l’estremità meridionale in cui si trova il monte Suribachi, dotato di postazioni fortificate, collegato alla parte settentrionale da uno stretto istmo affidato alla fanteria, e infine le colline al centro e al nord dove si concentrava il maggior numero di soldati, chiamato Meat Grinder (tritacarne).

La battaglia come previsto venne anticipata da un violento bombardamento americano iniziato l’8 dicembre 1944 che proseguì in crescendo fino al giorno dello sbarco, procurando comunque pochi danni all’organizzata rete di protezione giapponese benché sia stato il più intenso e lungo operato dalla U.S. Navy in tutta la guerra.

Il piano difensivo di Kuribayashi prevedeva di iniziare l’azione contro gli invasori non sulla spiaggia, ma lungo l’area dove si trovavano le principali opere di difesa, carri armati, casematte e postazioni di artiglieria.

Il 19 febbraio i marines della IV e V Divisione (con la III nelle retrovie) sbarcarono sull’isola, preceduti da intensi bombardamenti di sei corazzate e cinque incrociatori della Marina e 120 aerei Vought e Curtiss, che disseminarono l’isola di bombe per ore prima che venisse dato il via libera alle truppe di terra.

Un errore dei giapponesi fu nella tempistica, infatti si diede il tempo ai marines di portare sull’isola tutto il necessario per costruire una testa di ponte in grado di assicurare il rifornimento di uomini e mezzi; nonostante la perfetta coordinazione del fuoco incrociato giapponese, sarebbe stato impossibile cacciare indietro gli americani.

Il 23 febbraio il monte Suribachi e l’aeroporto Motoyama 1 erano caduti, grazie all’uso dei lanciafiamme e dei carri armati Sherman dotati di questa arma che neutralizzò gli attacchi delle artiglierie sotterranee dei giapponesi, provati già da pesanti perdite dei primi giorni della battaglia.

Dal quinto giorno l’offensiva statunitense si concentrò nella zona centrale, la cosiddetta Meat Grinder, una delle maggiormente difese e che non si prestavano ad un uso efficiente dei carri dato il terreno roccioso.

Dopo un avanzamento a colpi di bombe a mano e lanciafiamme per contrastare gli attacchi dalla rete sotterranea giapponese, i difensori uscirono allo scoperto lanciandosi in un corpo a corpo tra i più sanguinosi del conflitto che si prolungò fino al 10 marzo.

Costretti a ripiegare lungo la costa nord-orientale, i giapponesi sferrarono un attacco kamikaze a discapito del parere contrario del generale Kuribayashi, che causò ulteriori perdite alle poche forze nipponiche rimaste, le quali si disgregarono definitivamente nell’ultima fase della battaglia.

Il 26 marzo le truppe giapponesi avevano capitolato e Kuribayashi era morto insieme alla maggior parte dei suoi soldati, su circa 22.000 uomini posti a difesa di Iwo Jima i morti erano superiori ai 18.000, mentre dalla parte statunitense si attestavano intorno ai 6.000, più l’affondamento della portaerei Bismarck Sea ad opera di un attacco kamikaze.

L’Operation Detachment (Operazione Distacco) era durata 35 giorni, impegnando 70.000 soldati americani di cui 30.000 sul campo di battaglia, in uno scontro frontale senza tregua tipico più del primo conflitto mondiale che del secondo.

Alla fine non bastò larte bellica e la volontà ferrea di morire per la difesa della propria patria ai giapponesi per battere un nemico in grado di schierare risorse materiali e supporto di navi e aerei enormemente maggiori in quella che è stata una delle battaglie

mercoledì 20 ottobre 2021

Le operazioni alleate nel giugno 1944

 


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Il 7 giugno 1944 il Maresciallo Alexander diramò un piano operativo che doveva accelerare l’inseguimento delle forze tedesche in ritirata verso nord. Unità della VIII Armata britannica dovevano raggiungere la zona di Firenze-Bibiena-Arezzo, utilizzando le direttrici rappresentate dalle strade statali n. 3 e n. 4. Unità della V Armata statunitense dovevano raggiungere la zona Pisa-Lucca–Pistoia, utilizzando le direttrici rappresentate dalle strade statali n. 1 e n. 2. Il V Corpo d’Armata britannico non doveva spingersi troppo avanti e non accelerare la ritirata tedesca, in modo da economizzare al massimo gli equipaggiamenti da ponte e, in generale, i mezzi da trasporto, che necessitavano in modo urgente alla V ed alla VIII Armata nel settore tirrenico. Il piano prevedeva anche, come ipotesi operativa, che se l’avanzata generale ad ovest degli Appennini non avesse persuaso i Tedeschi ad abbandonare Ancona volontariamente, il II Corpo d’Armata Polacco sarebbe stato portato avanti oltre le principali linee di avanzata della VIII Armata ad ovest degli Appennini ed avrebbe attaccato la piazzaforte dorica da ovest.

Fino al 15 giugno 1944 l’avanzata alleata fu veloce e promettente, poi la resistenza tedesca si irrigidì sempre più. Il 20 giugno le due Armate alleate erano di fronte alla principale linea di resistenza tedesca, la linea del Trasimeno, che nelle intenzioni germaniche doveva proteggere i porti di Ancona e di Livorno e fungere da antemurale alla linea posta sui crinali degli Appennini, che poi diverrà famosa con il nome di “Linea dei Goti” o “Linea Gotica”. Mentre queste operazioni erano in atto sul terreno, fra gli Stati Maggiori Statunitense e Britannico iniziò il dibattito su che cosa fare nell’immediato futuro, dibattito che vale la pena di vedere più da vicino in quanto direttamente incidente sulle vicende del Corpo Italiano di Liberazione e la sua azione nelle Marche.

 

domenica 10 ottobre 2021

Gli Alleati e la popolazione italiana

 

La popolazione  italiana ha sempre accolto, dal settembre 1943 alla fine della guerra, le truppe alleate, a prescindere dalla loro appartenenza, con ammirazione ed entusiasmo, vedendo il loro arrivo come la fine di un incubo e l’inizio di un periodo di vita materiale e morale, migliore.

La convinzione di tutti gli Italiani, a quel tempo, era che la alleanza delle Nazioni Uniti, gli Alleati come venivano chiamati,  era solida, granitica, potente, invincibile.

In realtà, al vertice della organizzazione militare alleata, sul piano strategico, dalla fine della conquista della Sicilia e per tutta la durata della Campagna d’Italia, esistettero tra Statunitensi e Britannici profonde divergenze in tema strategico, ovvero come condurre la guerra in Europa e, conseguentemente , in Italia.

Queste divergenze portarono a dolorose e significative sconfitte sul piano strettamente tattico, come l’arresto della offensiva sul Sangro, le prime tre battaglie per Cassino, e lo sbarco sul litoraneo pontino, solo per citare quelle dell’autunno 1943 – primavera 1944.[1]

Nel maggio-giugno 1944, superato l’ostacolo di Cassino e conquistata Roma, mentre le truppe alleate sbarcavano in Normandia, le divergenze strategiche in Italia fra Statunitensi e Britannici, molto gravi fino a quel momento, raggiunsero il massimo. Il pomo della discordia consisteva nella attuazione, o meno, della operazione “Anvil”, ovvero lo sbarco nel sud della Francia, in sostegno e supporto a quello che era già stato effettuato con successo in Normandia. Per “Anvil” i quesiti a cui si doveva rispondere erano:  deciso lo sbarco, quante forze vi si dovevano impiegare? Da dove si dovevano prendere queste forze? Chi avrebbe alimentato le successive operazioni di penetrazione in profondità? La risposta a questi interrogativi non facevano che acuire i contrasti fra i due Stati Maggiori, contrasti che erano la diretta conseguenza delle differenti vedute strategiche tra gli  Alleati.

Gli Statunitensi, un volta che l’Italia era stata sconfitta e costretta ad uscire dalla guerra, settembre 1943, e resisi gli Alleati padroni delle rotte del Mediterraneo, non ritenevano utile impegnare ulteriori forze nel scacchiere italiano. Essi rimanevano, in tema di strategia, fermi alla loro convinzione che, per conseguire la vittoria finale, ci si doveva concentrare sull’obiettivo principale, perseguirlo con il massimo della concentrazione degli sforzi nel momento e nel punto decisivo, limitando al massimo, se non per operazioni diversive, di inganno e sussidiarie, ogni operazione su obiettivi collaterali. Questa strategia era direttamente discendente dalla loro politica che voleva essere distante da quello che loro consideravano antiquati poteri politici europei e vedevano con diffidenza e circospezione il colonialismo britannico in tutte le sue forme. In più non volevano essere coinvolti in operazioni nel centro Europa né tantomeno nell’Europa Orientale, impegno che consideravano solo un sperpero di risorse e di vite umane. Il loro desiderio era quello di terminare il più velocemente possibile la guerra in Europa e concentrarsi totalmente contro il Giappone.

I Britannici, di contro, adottavano anche in questa guerra la loro tradizionale strategia indiretta e pragmatica, ovvero, per le operazioni terrestri, la strategia del Debole verso il Forte. Era una strategia che aveva dato, al momento in cui la Gran Bretagna era stata chiamata a combattere potenze continentali, copiosi frutti, primi fra tutti la vittoria su Napoleone un secolo mezzo prima. Partendo dal principio che la Gran Bretagna non aveva forze terrestri paragonabili a quelle della Germania, la Gran Bretagna riteneva necessario ed utile attaccare la periferia della potenza nemica, cioè tedesca, cercare di creare discordie fra la coalizione nemica (l’Asse italo-tedesco), porre il blocco navale[2] ed attenderne gli effetti; intensificare i bombardamenti aerei, minare il fronte interno nemico, evitare ogni scontro diretto di vaste proporzioni in cui si sarebbero arrischiate le relativamente poche forze terrestri; tutto in attesa di assestare, al momento e luogo opportuno, il colpo risolutivo finale, che avrebbe dato la vittoria. Questa strategia era anche in gran parte giustificata dal ricordo ancora vivissimo della carneficina della Prima Guerra Mondiale, il cui solo pensiero faceva abortire ogni progetto di attacco diretto.

Con l’uscita dell’Italia dalla guerra, e severamente impegnata dalla Unione Sovietica, la Germania stava iniziando a cedere; basta attendere il momento opportuno e la vittoria sarebbe stata conseguita. Non erano necessari sbarchi in Francia: tutte le forze dovevano essere tenute in Italia, da cui, crollata la Germania, sarebbero state indirizzate su Vienna ed il centro Europa a fermare e contrastare l’avanzata sovietica.

Lo scontro tra queste due opposte visioni strategiche era costante. Nel giugno 1944, quando conquistata e superata Roma, e le truppe Alleate entravano nelle Marche, si avvicinava sempre più il momento di decidere. I termini del problema strategico-operativo erano chiari: o proseguire speditamente verso Nord e, superati gli Appennini, arrivare alle Alpi, avendo conquistato la Pianura Padana, oppure destinare le migliore forze presenti in Italia alla operazione “Anvil”, cioè lo sbarco in Provenza, sottraendole naturalmente al fronte italiano. La disputa su questi termini, aggravata dal fatto che le forze sottratte al fronte italiano dovevano essere sostituite e si balenava quello che i Britannici non volevano nemmeno prendere in considerazione, ovvero armare ed equipaggiare forze italiane, alterava ed avvelenava tutti i rapporti fra Alleati. La disputa su questa questione e le decisioni conseguenti avrebbero condizionato le operazioni in Italia nell’estate 1944 ed anche dopo.[3]



[1] Questi temi sono stati dibattuti al convegno “Gli Alleati da Salerno ad Anzio” tenutosi il 24 gennaio 2004 alla sala delle Conchiglie di Villa Adele ad Anzio organizzato dalla Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione (A.N.R.P., coordinato e presieduto dal Prof. Enzo Orlanducci.)

[2] In campo marittimo la Gran Bretagna attuava la strategia del Forte verso il Debole, con l’obiettivo finale quello di “strangolare” la potenza continentale, privandola di ogni aiuto esterno. Questa strategia, nel 1943, stava per essere messa fortemente in crisi dall’azione dell’arma sottomarina tedesca, a un passo dal divenire vincitrice della Battaglia dell’Atlantico. La Gran Bretagna, senza gli aiuti statunitensi e quelli provenienti dal resto dell’Impero, aveva risorse per poco più di un mese di sopravvivenza.

[3] Il famoso e quanto mai discutibile messaggio del Comandante in Capo del XV Gruppo di Armate in Italia, Maresciallo Alexander al movimento di Resistenza nel Nord Italia nell’autunno 1944 con il quale si invitavano i “Partigiani”alla stasi invernale, ovvero a deporre le armi e ritornare a casa, ha le sue lontani e chiare origini da queste discussioni.

giovedì 30 settembre 2021

52°Reggimento Fanteria Garibaldi.

 Si riporta la Post fazione al Volume di Mario di Spirito dedicato al 52° Reggimento Fanteria "Garibaldi"

 


Postfazione

 

Stampare un volume scritto ed edito negli anni trenta del secolo scorso, in un clima totalmente diverso da quello di oggi può sembrare una attività inutile e nostalgica. In realtà riportare alla luce e presentare ai Soci dell’UNUCI e a quanti hanno interesse a questi argomenti può essere utile per comprendere lo spirito e il senso di identità che sono una struttura portante della architettura della nostra Nazione.

 

Il Reggimento “Obbedisco” era una entità anche nel 1934 al di sopra di tutto e di tutti. Ho sentito mille volte racconti come quello dell’amico Montagano, che finirà in un campo di concentramento tedesco, in un KZ quelli peggiori di tutti per la sua avversione al fascismo ed al nazismo, essere orgoglioso di portare quella cravatta rossa segno di italianità in un panorama fosco e nero. Come quello offerto dal regime mussoliniano.

 

Richiamare alla attenzione quei momenti significa anche viverli e partecipare a quella operazione di conoscenza della memoria che è uno degli scopi statuari dell’UNUCI, Unione Nazionale Ufficiali di Complemento in Congedo. Non solo storia risorgimentale, in cui il 52° Reggimento affonda le sue radici di tradizione storica, ma anche storia del novecento, in cui la tradizione garibaldina ha avuto un suo sviluppo ed un suo rinnovarsi.

 

La partecipazione alla Prima Guerra Mondiale, di cui in questi mesi si sta celebrando la data anniversaria intesa come momento di unione, di identità e di partecipazione collettiva, è una tappa fondamentale di questa tradizione. Aver deciso di accorre nel 1914, in Francia, per combattere il tedesco, con la Legione Garibaldina nel solco dell’interventismo, è stato un segno eclatante per influire nella scelta da che parte l’Italia doveva stare. L’Italia del primo novecento era incapsulata nella Triplice Alleanza ed appariva sempre più evidente che questa alleanza poteva essere accettata come strumento di equilibrio europeo. Quando Germania ed Austria oltrepassarono questo limite e vogliono ricorrere, in una visione prettamente ottocentesca dell’uso della guerra, l’Italia è chiamata a scegliere.

 

Germania ed Austria sono convinte, nel 1914, di vincere la guerra, supponendo che la Gran Bretagna rimanga neutrale; e sono convinte di riuscire a sconfiggere la Francia, prima, la Russia, poi, fidandosi ciecamente nella forza dei loro eserciti. L’Austria è convinta di avere ragione della Serbia in poche settimane. Troppo convinte della loro superiorità pensano di non avere bisogno dell’Italia e volutamente la vogliono lasciare fuori per non dividere con lei le conquiste territoriali che sono date per scontate.

 

Qui finisce nella sostanza la Triplice Alleanza. L’Italia non deve partecipare alla costruzione del nuovo ordine europeo scaturito dalla guerra. La Triplice Alleanza aveva terminato il suo compito: fin quando è una alleanza per mantenere gli equilibri europei va bene; quando questi equilibri devono essere alterati a favore di Germania ed Austria, l’Italia è messa da parte.

 

Mascheravano Germania ed Austria questa loro scelta con le solite parole di propaganda: parlarono di “tradimento” dell’Italia con cui marcarono di tradimento il nostro Paese al momento della dichiarazione di neutralità.

 

Davanti a tutto questo, al fallimento della politica della Triplice, di cui il capofila era il Marchese di San Giuliano, ministro degli Esteri, non vi era che la strada dell’Interventismo, della partecipazione alla guerra per avere quei vantaggi territoriali che mettesse in sicurezza il confine orientale, con la acquisizione di Trieste, concludendo il processo unitario Italiano.

 

In questo contesto lo spirito garibaldino fu essenziale. . L’esempio  ed il significato storico del 52° Reggimento fanteria “Obbedisco”, è eclatante.

In questa chiave la ristampa del volume, il voler aver dato spazio a nomi e cognomi di chi fu partecipe e protagonista, che è forse il segmento più importante del volume, rappresenta un omaggio ed un dovuto ricordo a chi fecero, con il loro dovere, l’Italia, prima come Stato, poi come Nazione.

 

Massimo Coltrinari

domenica 19 settembre 2021

Rivista QUADERNI n. 2 del 2021 Aprile - Giugno 2021

 


Nota redazionale

Come noto, questa rivista, espressione del sostegno ai master di primo livello attivati, per l’area forze armate, presso la Università degli Studi N. Cusano Telematica Roma, sui temi di storia militare e politica militare, è articolata, conseguentemente, su due versanti, il primo dedicato alla storia ed il secondo dedicato alla geografia, e, per estensione alla geografia politica economica e quindi alla geopolitica.

 

Questo numero, per la parte di storia, ospita contributi relativi alla data centenaria della traslazione del Milite Ignoto, sulla scia dei contributi pubblicati nei numeri precedenti. Da sottolineare la pubblicazione integrale del Calendario Azzurro del 2021 dedicato al Milite Ignoto, sintesi felice ed eccellente predisposta da Antonio Daniele. Seguono gli articoli di tre laureati al Master di Storia Militare, uno, di Augusto Angelini (epoca napoleonica) sulla ricostruzione della battaglia di Salamanca, l’altro di Sotorios E. Drokalos (seconda guerra mondiale) che ci dà la versione greca della nostra aggressione al suo paese nel 1940. Infine il terzo contributo di Romano Olevano dedicato ad un tema, il soldati del primo tricolore che la copertina del numero passato aveva preannunciato come tema di trattazione.

 

Per la parte geografica l’articolo Valentina Trogu che tratta del rapporto tra la sociologia e scienze strategiche, è rinviato al numero 4 del 2021 per ragioni di spazio, mentre in geopolitica delle prossime sfide si tratta dell’impatto del Governo Draghi nei rapporti internazionali dell’Italia. In Scenari una breve scheda della influenza che ancora oggi hanno i principi e dogmi dell’Impero romano e della sua eredità.

 

Nelle rubriche, quelle relative al CESVAM si riportano alcune peculiari attività del Centro, con la pubblicazione dei Bandi relativi alle due nuove iniziative, ovvero l’attivazione del Master dedicato al Terrorismo e all’Antiterrorismo Internazionale, e al Corso di Aggiornamento e Specializzazione sempre sullo stesso argomento riservato anche ai diplomati, mentre gli Indici della rivista QUADERNI ON LINE si riferiscono al I trimestre del 2021 Ulteriori notizie sulla attività del CESVA sono possibili trovarle sulla home page della piattaforma www.cesvam.org alla rubrica “Eventi” ed alla rubrica “Notizia CESVAM”, La rubrica di chiusura riporta la iconografia della Brigata “Caltanisetta”, della prima guerra mondiale, come tradizione di questa rivista.

Da ultimo, l’editoriale del Presidente Nazionale ed il Post editoriale del Direttore del Periodico anche per questo numero sono intonati al tema della celebrazione del Milite Ignoto, nel solco delle scelte sopra dette, e dei contenuti evidenziati nella pubblicazione consorella.

(massimo coltrinari)

Il prossimo numero 3 del 2021, 20° della Serie, sarà dedicato, come continuazione del n. 3 del 2019, 16° della Serie, al CESVAM Report. Settembre 2019- Agosto 2021 ove si illustreranno le attività e le realizzazioni dell’ultimo biennio.  (massimo Coltrinari)

 

In I di Copertina: Il Milite Ignoto Cerimonia del 4 Novembre 1921 all’Altare della Patria.

 

Il presente numero è stato chiuso in tipografia il 30 giugno 2021



 

martedì 31 agosto 2021

Il Servizio Informazioni Militari nella Guerra di LIberazione.

 


 Il Regio Esercito, nella sua ricostruzione dopo gli avvenimenti armistiziali a Brindisi riorganizzò tutto il suo vertice. Non poteva non ricostruire quello che fu una delle branche più efficienti di tutta la seconda guerra mondiale, il S.I.M., il Servizio Informazioni Militare. Nella nuova organizzazione a Brindisi il S.I.M. ebbe cinque sezioni, denominate, “Calderini” per le operazioni offensive o spionaggio; “Bonsignore”, per le operazioni difensive, o controspionaggio; situazione operativa; organizzativa; tecnica. Ognuna di queste sezioni operò con i corrispondenti organi sia britannici che statunitensi. Una delle attività iniziali fu quella di prendere contatto con le bande che si andavano a formare dietro le linee tedesche, nel centro nord dell’Italia. La “Calderini”, preso contatto con la Special Force N. 1 britannica, iniziò ad operare impiantando reti informative nel nord Italia ed attivare atti di sabotaggio mirati. Con i britannici le azioni furono: missioni di collegamento ed operative, missioni speciali, missioni di istruttori per il sabotaggio, predisposizione di campi per aviolanci, punti di sbarco, rifornimenti, finanziamento delle bande, propaganda. In totale le missioni di collegamento ed operative all’inizio tutte composte da personale italiano, poi da personale misto, furono 96 di cui 48 italiane 23 inglesi con l’impiego di 282 uomini, di cui 163 italiani e 119 britannici

Le missioni speciali furono quattro con l’impiego di 152 uomini, con aviolancio alla cieca. Vennero poi creati 498 campi per ricezioni di materiale, che dall’ottobre 1944 anche di armi pesanti.

 Il S.I.M. organizzò il 1° Reparto speciale autonomo con elementi tratti dalla divisone Nembo in seguito chiamo Squadrone F,( con un allusione mal celata alla “Folgore”) o in terminologia alleata F. Recce. Il reparto però in varie missioni fino alla nota operazione “Herring” durante l’offensiva finale.

 

venerdì 20 agosto 2021

Guerra di Liberazione. Il Gruppo di Combattimento "Piceno"


 

Gruppo di Combattimento “Piceno”

 

Nasce dai reparti della divisone “Piceno” stanziata in Puglia, nella zona tra Francavilla Fontana  Villa Castelli Oria e Grottaglie, inserita nel IX Corpo d’Armata. Era al comando del generale Emanuele Beraudo di Pralormo, poi il gen. Enzo Vagni. Vicecomandante il gen. Enrico Mattioli e come capo di SM il col. Ludovico Malavasi. Fu costituito il 10 ottobre 1944 per trasformazione sulla base dei reparti della Divsione “Piceno”. Inquadrava il 235° e il 236° Reggimento fanteria, il 152° Reggimento artiglieria, il CLII battaglione misto genio, due sezioni di Carabinieri Reali, ed i servizi divisionali (amministrazione, sussistenza, sanitario, automobilistico, munizioni, carburanti ecc.).

 Mentre era stato avviato il programma di addestramento arrivò l’ordine per il “Piceno” di mettere a disposizione, tranne i Comandi, dei Carabinieri tutti i reparti dipendenti per servizi di ordine pubblico per la durata di circa tre mesi. A fine novembre 1944 giunse un nuovo ordine di mettere a disposizione per esigenze di ordine pubblico 2500 uomini divisi in 5 scaglioni. A fine dicembre il Gruppo fu incaricato di mettere a disposizione delle forze alleate 1400 uomini destinati alle unità salmieriste. Il Gruppo fu quindi orientato ad un impiego non operativo, ma sostanzialmente logistico fino a quando nel gennaio del 1945 gli fu affidato il compito dell’addestramento dei complementi. Il Gruppo avrebbe avuto la denominazione di Comando divisione “Piceno”, Centro addestramento complementi per forze italiane di combattimento. L’ordinamento fi completamente riordinato e si ebbe un Comando Centro, un reggimento raccolta e smistamento complementi, un reggimento complementi di fanteria, un reggimento complementi misto, scuole di addestramento. Per i restanti mesi il Centro assolse la sua funzione, fornendo ai Gruppi in linea personale motivato e preparato.  Il Centro era dislocato a Bracciano e Cesano di Roma in caserme ed aree addestrative che ancora oggi sono destinare agli usi e finalità assolta nel 1945 dal “Piceno”.

 

martedì 10 agosto 2021

Guerra di Liberazione. Il Gruppo di Combattimento Mantova

 


 

Nasce dai reparti della divisione “Mantova” stanziata in Calabria, alle dipendenze della VII Armata nel settembre 1943. Era al comando del generale Guido Bologna, che era al comando della “Mantova” in Calabria. Vice comandante il gen. Ettore Monacci, e come Capo di Stato Maggiore il ten. col. Antonio Gualano Inquadrava il 76° ed il 114° Reggimento fanteria, il 155° Reggimento artiglieria, il CIV battaglione misto genio, due sezioni di Carabinieri Reali, ed i servizi divisionali (amministrazione, sussistenza, sanitario, automobilistico, munizioni, carburanti ecc.). Era inserito nell’organico il 54° BLU, il nucleo di collegamento composto da ufficiali britannici

 

Dopo la costituzione e l’addestramento svolto in Calabria, a fine novembre ed inizio 1944 si trasferì nel Sannio, con baricentro San Giorgio del Sannio, dove intensificò la sua attività addestrativa. Qui fu visitato da varie personalità, tra cui il Luogotenente del Regno che assistette a importanti esercitazioni a fuoco, dal Ministro della Guerra Brosio e dal maresciallo Alexander comandante delle forze alleate in mediterraneo. Nella seconda metà di aprile 1944 si trasferì per via ordinaria nella zona del Chianti. Ricevette l’ordine di entrare in linea a partire dal 25 aprile 1945 alle dipendenze della VIII Armata Britannica, che avrebbe scelto il settore di impiego diretto. Il Gruppo di Combattimento non ebbe il tempo di essere operativo in quanto sono i giorni finali della guerra in Italia. L’insurrezione generale fu proclamata dal CNLAI il 25 aprile, mentre la resa delle truppe tedesche in Italia, firmata a Caserta il 29 aprile, fu comunicata il 2 maggio 1945. Il contributo del Gruppo di Combattimento “Mantova”, fu essenzialmente nel disimpegno di compiti di lavoro, di vigilanza, e di sicurezza, sia tenendosi a disposizione dei Comandi come forza di riserva, pronta ad intervenire secondo la necessità della battaglia finale che era in corso.

venerdì 30 luglio 2021

Il gruppo di Combattimento Legnano nella offensiva finale

 


Gruppo di Combattimento “Legnano”

E’ l’erede deli reparti del I Raggruppamento Motorizzato, nato dall’ordinamento della Divisione Legnano nel settembre 1943, poi ossatura del Corpo Italiano di Liberazione. Era al comando del generale Umberto Utili, già comandante del C.I.L., come vicecomandante il gen. Giovanni Imperiali e come capo di SM prima  il colonnello Lombardo, poi il col. Federico Garofali. Il “Legnano” inquadrava il 68° Reggimento fanteria, il IX Reparto d’Assalto, il Reggimento speciale su due battaglioni alpini e battaglione bersaglieri “Goito”, l’ 11° Reggimento artiglieria, il LI battaglione misto genio, due sezioni di Carabinieri Reali, ed i servizi divisionali (amministrazione, sussistenza, sanitario, automobilistico, munizioni, carburanti ecc.). Era inserito nell’organico il 52° BLU, il nucleo di collegamento composto da ufficiali britannici

               

“Il “Legnano” entrò in linea il 23 marzo 1945, nel settore dell’Idice, avendo alla sua destra la 10ª divisione indiana (8ª Armata) e alla sua sinistra la 91a Divisione statunitense (V Armata), quindi nel delicato punto di saldatura fra le due Grandi Unità alleate. Il tratto di fronte affidato al Gruppo italiano si estendeva per circa 9 chilometri in un terreno di limitato sviluppo altimetrico, ma dalle caratteristiche morfologiche della montagna: declivi scoscesi, avvallamenti e calanchi profondi, creste sottili, agglomerati rocciosi a pareti verticali. Il nemico, sistemato a difesa sulla linea Poggio Scanno-Monte Armato, dominava l'intera zona a cavallo dell'Idice.

All'alba del 10 aprile, in esecuzione di un piano inteso a disorientare l'avversario sui tempi e sulle direttrici della ormai imminente avanzata generale, una compagnia e un plotone del IX Reparto d'assalto investirono Parrocchia del Vignale e q. 459.

Il giorno 16 il "Legnano" mosse con obiettivo Bologna. Gli alpini del battaglione "Piemonte" conquistarono il caposaldo nemico di q. 363, i fanti del II/68° le posizioni dei roccioni di Pizzano. Il 20 aprile il battaglione bersaglieri "Goito" espugnò il sistema difensivo di Poggio Scanno e, mentre il battaglione alpino "L'Aquila", il IX reparto d'assalto e i fanti del 68° raggiungevano tutti i loro obiettivi, puntò su Bologna, facendovi il suo ingresso l'indomani alle 9.30.

L'impegno del Gruppo si protrasse ancora. Una colonna di formazione raggiunse Brescia il 29 e Bergamo l’indomani; reparti alpini il 2 maggio entravano a Torino. Lo stesso giorno una compagnia del I/68° fanteria ebbe la meglio su elementi tedeschi in Val di Sabbia.

Il ciclo operativo del "Legnano", pur esauritosi nel breve arco di quaranta giorni, era stato contrassegnato da significativi successi. Questo fu il bilancio delle perdite subite: 55 caduti, 279 feriti.”[1]

 



[1] Loi S. I Rapporti fra alleati e italiani nella cobelligeranza, cit., pag. 156

martedì 20 luglio 2021

Gruppo di Combattimento "Friuli". Impiego 1945


 

Gruppo di Combattimento “Friuli”

Anche questo Gruppo di Combattimento come il “Cremona” nasce dal reimpiego dei reparti che già costituivano la Divisione “Cremona” che nel settembre 1943 era stanziata in Corsica e, integra, era stata trasferita in Sardegna. Era al comando del generale Arturo Scattini, e come vicecomandante il generale Giancarlo Ticchioni, e coma capo di SM il ten. col. Guido Vedovato. Il “Cremona” inquadrava il 87° e 88° Reggimento fanteria, il 35° Reggimento artiglieria, il battaglione misto genio divisionale, due sezioni di Carabinieri Reali, un reparto trasporti e rifornimenti, ed i servizi divisionali (amministrazione, sussistenza, sanitario, automobilistico, munizioni, carburanti ecc.). Era inserito nell’organico il 50° BLU, il nucleo di collegamento composto da ufficiali britannici.

 

“L’impegno del Gruppo di Combattimento “Fiuli” fu all'inizio difensivo: si presentava piuttosto difficile perché nel tratto di fronte assegnatogli si profilava un saliente nemico dal quale avrebbe potuto prendere l'avvio una manovra di aggiramento delle Unità alleate schierate ai lati. I Tedeschi avevano concentrato nella zona truppe scelte.

Il 12 febbraio 1945 venne respinto un attacco avversario all'altezza di Casa Barbanfusa. Nei giorni successivi reparti dell'88° Reggimento fanteria occuparono q. 92, nei dintorni di Riolo Bagni. Quel caposaldo fu aspramente conteso: venne riconquistato dai Tedeschi il 14 marzo, e ripreso dai nostri quarantott’ore dopo.

Alla fine di marzo 1945 il generale Hawkesworth, comandante del X Corpo britannico, ordinò al "Friuli" di costituire una testa di ponte oltre il Senio fra Poggio (escluso) e Cuffiano (compreso). L'azione, fallita il 10 aprile per la violentissima reazione del nemico, venne ripetuta con successo l'indomani.

Il Gruppo avanzò quindi verso il Santerno, concorrendo indirettamente alla occupazione di Imola da parte di truppe polacche. Il 16 aprile i fanti del "Friuli", nonostante la ferma e tenace reazione avversaria, oltrepassarono il Sillaro, costituendo oltre quel corso d'acqua una testa di ponte che i Tedeschi tentarono vanamente di eliminare. Il 18 e il 19 furono investite le posizioni nemiche di Casalecchio dei Conti, mentre sulla sinistra operava, contro il capo saldo germanico di Grizzano, il Gruppo di combattimento "Folgore".

Varcato l'Idice, i reparti del "Friuli" puntarono su Bologna, raggiunta alle 8 del 21 aprile. 1945

Il 2 maggio si concludevano le operazioni di guerra sul territorio italiano.  La bella Unità aveva offerto un contributo di bravura e di sangue, testimoniato da queste cifre: feriti, 61 dispersi.”[1]

 



[1] Loi S. I Rapporti fra alleati e italiani nella cobelligeranza, cit., pag. 154

sabato 10 luglio 2021

Gruppo di Combattimento "Folgore". Impiego 1945

 


Gruppo di Combattimento “Folgore”

Il Gruppo di Combattimento “Folgore, che aveva assunto il nome della Divisione “Folgore che si era ben distinta in Africa settentrionale e soprattutto alla battaglia di El Alamein, era integralmente composto da elementi della Brigata “Nembo” del disciolto Corpo Italiano di Liberazione. Si era costituito il 24 settembre 1944 ed era al comando del generale Giorgio Morici, e come vicecomandante il col. Ezio de Michelis, e come capo di SM il ten. Col..Giovanni De Martino Il “Folgore” inquadrava il Reggimento fanteria paracadutisti “Nembo”, il Reggimento di marina 2San Marco” il Reggimento artiglieria “Folgore”, un  battaglione misto genio, due sezioni di Carabinieri Reali, un reparto trasporti e rifornimenti, ed i servizi divisionali (amministrazione, sussistenza, sanitario, automobilistico, munizioni, carburanti ecc.). Era inserito nell’organico il 53° BLU, il nucleo di collegamento composto da ufficiali britannici.

 

“Il "Folgore", posto alle dipendenze del XIII Corpo britannico, venne schierato sulle posizioni fra il Senio ed il Santerno nella notte del 1° marzo 1945. Gli vennero assegnati rinforzi britannici.

La linea affidata al Gruppo si estendeva per circa 14 chilometri, in un terreno molto accidentato, dal fondo in massima parte argilloso, reso ineguale da numerosi rilievi di altezza modesta ma inframezzati da speroni con dorsali molto ripide, e solcato da diversi corsi d'acqua a regime torrenziale; nel centro, all'altezza di Tossignano (punto di forza dello schieramento avversario) stavano le posizioni contrapposte di Vena del Gesso, aspro gradino roccioso. In parole brevi, un settore difficile per chi si proponeva di svolgervi azioni offensive, e favorevole invece a chi vi era sistemato a difesa.

Nel mese di marzo si ebbe una intensa attività di pattuglie da entrambe le parti. I paracadutisti, per saggiare la capacità di reazione del nemico, assalirono di sorpresa le posizioni "i boschi dell’Acqua Santa" e quelle di casa Colonna.

Il 10 aprile l'intero fronte alleato era in movimento. Nuclei esploranti del "Folgore" accertarono che il nemico si accingeva a sgomberare Tossignano. Fu impartito l'ordine di avanzare, e i reparti del Gruppo, attraversando campi minati, agganciarono le retroguardie nemiche. L'11 aprile venne occupata Tossignano. Il 14, dopo aspri combattimenti, furono conquistate le posizioni di Pieve Sant'Andrea, monte Bello, Casalpidio.

Il 19 aprile venne espugnato, dai paracadutisti, il caposaldo tedesco di Grizzano. L'indomani il reggimento Nembo raggiunse Matteuzza e Parrocchia di Cappella, mentre il battaglione Caorle, del reggimento San Marco occupava l'abitato di Poggio Ribano.

Bologna era ormai vicina, ma un ordine superiore indirizzò il Gruppo in altra zona, mentre le ostilità volgevano ormai al termine.

Il "Folgore", in due mesi di ininterrotto impiego, aveva subito queste perdite: 164 caduti, 244 feriti, 14 dispersi.”[1]



[1] Loi S. I Rapporti fra alleati e italiani nella cobelligeranza, cit., pag. 154

 

mercoledì 30 giugno 2021

La Guerra di Liberazione. Le Divisioni Ausiliarie

 


Uno dei contributi più sottovalutati è quello delle Divisione Ausiliarie nel quadro del contributo dell’Italia alla campagna degli Alleati. Fu un contributo massiccio che incise in modo massiccio nello svolgimento della campagna. Gli alleati avevano i materiali ed i mezzi, ma non avevano gli uomini. Lo stesso problema lo avevano i tedeschi; questi ricorsero all’arruolamento forzato e, tramite la Organizzazione Todt, anche con mezzi estremamente coercitivi. Gli Alleati, con molta più eleganza si avvalsero delle Divisioni Ausiliare e con questa soluzione si guadagnarono la simpatia ed il consenso della popolazione. La organizzazione logistica alleata prevedeva la Peninsular Base Section P.B.S. con porto principale a Napoli che sostenva la V Armata Statunitense. La VIII Armata era sostenuta dai distretti logistici britannici che avevano come porti principali prima Bari e poi Ancona. Gli alleati chiesero alle autorità militare italiani gli uomini necessari al funzionamento di tutti i servizi logistici.

 

“Già nel dicembre 1943 erano stati impiegati nelle attività dei servizi alleati circa 95.000 militari italiani. Nel 1944 il loro numero salì a 163.377, con questa ripartizione: 76.664 per lavori di manovalanza e rifornimento, 19.102 in reparti genio, 8.833 autieri, 2.023 meccanici di officina, 9.284 con compiti di difesa contraerea, 25.914 in servizi di guardia e di polizia militare, 6.963 in unità salmerie, 14.594 con mansioni diverse. Un ulteriore aumento si verificò nel 1945, allorché venne raggiunta la punta massima di 195.000 uomini impiegati nelle attività in argomento.

Diamo ora qualche breve dettaglio ordinativo.  Per corrispondere alle esigenze prospettate dagli Alleati, lo Stato Maggiore R. Esercito procedette alla costituzione di otto grandi Unità "amministrative": quattro mediante la trasformazione di altrettante costiere (205a, 209a, 210a, 229a) e quattro ex novo (228a, 230a, 231a e Comando italiano 212, quest'ultimo avente una forza che nel 1945 sfiorò i 60.000 uomini).

La composizione di quelle Unità era variamente articolata come organici. A cura dell'Ispettorato Truppe Ausiliarie, appositamente istituito dallo Stato Maggiore Regio Esercito, vennero complessivamente creati tredici reggimenti pionieri, cinque reggimenti lavoratori, quarantadue battaglioni servizi, ventisei battaglioni guardie, cinque battaglioni ferrovieri, sette battaglioni portuali, ottantatré compagnie del genio, ottantuno compagnie autieri, trentatré reparti salmerie e portatori, nonché numerose altre unità specialistiche, con non raro interscambio di uomini e di denominazione.

L'opera degli "ausiliari" fu oscura ma molto preziosa: usiamo quest'ultimo aggettivo senza eccezioni di sorta, perché si addice all'intero arco delle attività, dagli "umili" lavori di manovalanza e scarico svolti nei porti all'impegno rischiosissimo dei bravi genieri, che resero inoffensive oltre 500.000 mine, come il fronte si spostava verso nord.

Va aggiunto che consistenti nuclei di tre Unità ausiliarie – 210a, 228a e Comando 212 - offrirono in più occasioni un contributo anche operativo. Giunti infatti nelle prime linee mentre vi infuriavano combattimenti, i nostri militari non esitarono a parteciparvi distinguendosi per bravura. Sono significative, in proposito, le perdite subite: 744 caduti, 2.252 feriti, 109 dispersi.”[1]



[1] Loi S. I Rapporti fra alleati e italiani nella cobelligeranza, cit., pag. 119