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domenica 17 gennaio 2010



La Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti.


Massimo Coltrinari



Nella foto il generale Umberto Utili nel 1949



La lotta che il popolo italiano intraprese, all'indomani dell'armistizio dell'8 settembre 1943, a fianco delle Nazioni Unite, può essere intesa come un tutto uno, ovvero una opposizione armata al nazifascismo ed adesione alla coalizione antihitleriana, in cui si possono individuare cinque fronti di combattimento. Tali fronti erano:

- Quello dell'Italia libera, ove gli Alleati tengono il fronte e permettono al Governo del Re d'Italia di esercitare le sue prerogative, seppure con limitazioni anche naturali per esigenze belliche. Il Governo del Re è il Governo legittimo d'Italia che gli Alleati, compresa l'URSS., riconoscono.
- Quello dell'Italia occupata dai tedeschi. Qui il fronte è clandestino e la lotta politica è condotta dal C.L.N., composti questi dai risorti partiti antifascisti. E' il grande movimento partigiano dei nord Italia.
- Quello della resistenza dei militari italiani all'estero. E' un fronte questo non conosciuto, dimenticato, caduto presto nell'oblio. E' la lotta dei nostri soldati che si sono inseriti nelle formazioni partigiane locali per condurre la lotta ai tedeschi (Jugoslavia, Grecia, Albania).
- Quello della Resistenza degli Internati Militari Italiani, che opposero un deciso rifiuto di aderire alla R.S.I., di fatto delegittimandola.
- Quello della Prigionia Militare Italiana della seconda guerra mondiale.


Naturalmente a questi cinque fronti occorre far mente locale e mettere in sistema, il fatto che esisteva una coalizione hitleriana, ovvero vi erano italiani che combattevano non solo in Italia, nelle fila della Repubblica Sociale Italiana, ma anche nell'Esercito Tedesco e nelle organizzazioni del III Reich a vario titolo in Italia e in Europa.
In un articolo apparso si “Il Secondo Risorgimento d’Italia”[1] si scriveva che "l'approccio adottato permette di poter sviluppare le ricerche in queste cinque direzioni al fine di vedere quanti e quali italiani portarono, come dice Luciano Bolis, il loro "granello di sabbia", oltre a quella che vide coinvolti quelli che rimasero fedeli alla vecchia Alleanza che ha permesso di riportare alla luce tanti episodi ormai avvolti nel buio, ma deve essere ulteriormente integrato"
Un filone di ricerca, soprattutto indirizzato all'utilizzo di giovani, sia studenti che ricercatori, è quello bibliografico.

La Campagna d’Italia.
Per gli Alleati le operazioni condotte dall'8 luglio 1943 al 2 maggio 1945 sono semplicemente la Campagna d'Italia, condotta per sconfiggere il nazismo e riportare la libertà e la democrazia in Europa. Per noi Italiani la Campagna d'Italia è la Guerra di Liberazione, i cui è insito il concetto di Resistenza, condotta dall'8 settembre 1945 al 25 aprile 1945. Su queste date vi è ancora oggi molta polemica, ma noi le adottiamo per avere dei punti di riferimento. Pertanto in questa bibliografia, in questo comparto, indichiamo, prevalentemente, quelle opere o che trattano della Campagna d'Italia oppure degli eventi che portarono noi italiani a concludere un armistizio con le Nazioni Unite e gli eventi susseguenti che diedero vita poi alla Guerra di Liberazione.

La Guerra di Liberazione. Il Primo Fronte: L'Italia del Sud
Qui ricomincia a funzionare il vecchio stato, ma accanto si sviluppa la dialettica dei partiti. Partecipano alla guerra prima il I Raggruppamento Motorizzato, poi il C.I.L., poi i Gruppi di Combattimento. Sono, in nuce, i soldati del futuro esercito italiano, che operano secondo le regole classiche della guerra. E' indubbio che combatto contro i liberazione di Roma e l'avanzata nell'Italia centrale la lotta al nazifascismo non è disgiunta da una appassionata discussione sul futuro politico dell'Italia e sulle prospettive di vero rinnovamento democratico. Le forze partigiane e dei partiti antifascisti coesistono, oltre che con l'organizzazione militare del Regno, anche con la Chiesa Cattolica, fattori entrambi che condizionano in senso moderato l'attività antifascista.

La Guerra di Liberazione.Il Secondo Fronte: L'Italia del Nord
Al momento dell'armistizio, l'Italia fu tagliata in due. Al nord i tedeschi impongono la Repubblica Sociale. Qui si ha la forma più compiuta di resistenza. Si hanno le formazioni partigiane organizzate dai partiti antifascisti in montagna, mentre nelle pianura e nelle città si organizzano i GAP e le SAP. Oltre a ciò la popolazione civile partecipa alla guerra collaborando con il movimento partigiano in mille forme, e subendo terribili e inumane rappresaglie; inoltre gli operai con i loro scioperi e la loro resistenza passiva contribuiscono a rallentare lo sforzo bellico dell'occupante e a minare anche la propria sicurezza. Si ha il coinvolgimento di ampi strati della popolazione nella guerra al nazifascismo, che si integra con il particolare profilo delle bande in montagna, che non sono solo gruppi di combattenti ma anche luoghi di dibattito e di formazione politica.
La Guerra di Liberazione. Il terzo Fronte: La Resistenza dei Militari Italiani all'Estero
Se nel nord Italia si sviluppò il movimento partigiano attraverso bande armate, all'estero, i militari italiani sorpresi dall'armistizio dell'8 settembre e sottrattisi alla cattura tedesca si opposero ai tedeschi in armi, inizialmente, poi dando vita, in armonia con i movimenti di resistenza locali a vere e proprie formazioni armate. Per la resistenza di formazioni organiche sono noti i fatti di Lero e di Cefalonia. Meno noti tanti altri fatti in cui unità militari italiane organiche resistettero ai tedeschi fino al limite della capacità operativa. Un esempio per tutte: La Divisione "Perugia", stanziata nel sud dell'Albania tenne in armi il porto di Santi Quaranta fino al 3 ottobre 1943, in attesa di un aiuto da parte italiana ed alleata. Una divisione di oltre 10.000 uomini, che dominava un area abbastanza vasta e che avrebbe potuto dare un forte aiuto ad un intervento alleato dall'altra parte dell'Adriatico. 10.000 militari italiani che rimasero compatti per tre settimane oltre l'armistizio, in armi e che pagarono duramente questa loro resistenza. Infatti tutti gli Ufficiali della Perugia furono fucilati, e gli uomini internati in Polonia.
Per le unità che passarono in montagna e si unirono ai movimenti partigiani locali, noti sono gli avvenimento della divisione "Venezia" e "Taurinenze", che diedero vita alla Divisione Partigiana Garibaldi; meno note le vicende della divisione "Firenze" ed "Arezzo" in Albania e delle divisioni italiane stanziate in Grecia. Militari Italiani diedero vita alla divisione "Italia" in Jugoslavia. Oltre che nei Balcani, militari italiani parteciparono ai fronti di resistenza locali. Così in Corsica, ove oltre 700 militari caddero per la liberazione di Aiaccio, cosi nella Provenza, in centro Europa la presenza di militari italiani è certa.

La Guerra di Liberazione. Il Quarto Fronte: L'Internamento
Nei mesi di settembre ed ottobre l'Esercito tedesco fa prigionieri ed interna in Germania oltre 600.000 militari italiani, dando origine al fenomeno dell'Internamento Militare Italiano nella seconda guerra mondiale. Questi militari non hanno lo status di prigionieri, ma di internati, ovvero nella scala del mondo concentrazionario tedesco, sono sullo stesso livello dei prigionieri sovietici ( La URSS non aveva firmato la convenzione di Ginevra del 1929) e poco al di sopra degli ebrei. Ovvero il loro trattamento era durissimo. In queste circostanze per uscire da questo inferno ci si sarebbe aspettato una adesione plebiscitaria alle proposte di collaborazione sia dei Nazisti sia degli esponenti della R.S.I. Invece la quasi totalità degli Internati oppose il rifiuto ad una qualsiasi forma di collaborazione, subendone le più terribili conseguenze. Fu un fronte di resistenza passivo, ma determinato, che nella realtà dei fatti delegittimò sul piano interno ma anche agli occhi dei germanici la Repubblica Sociale. Infatti una decisione in massa degli Internati ai fascisti di Salò avrebbe permesso alla R.S.I. di avvalorare le tesi della propaganda, che era l'unica rappresentate della vera Italia. In realtà questa non adesione, in sistema con la lotta partigiana, isolò Mussolini relegandolo a semplice rappresentate di se stesso e dei suoi accoliti.

La Guerra di Liberazione. Il Quinto Fronte: La Prigionia
Vi erano, al momento dell’Armistizio, circa 600.000 prigionieri nelle mani delle Nazioni Unite. Soldati per lo più caduti nelle mani del nemico a seguito dell’offensiva in Nord Africa (1940-’41) alla resa in Tunisia ed al tracollo del luglio agosto 1943 in Sicilia. Per lo più, tranne i 10-12.000 soldati in mano all’URSS, erano in mano anglo-americana. Questi soldati, questi italiani all’annuncio dell’Armistizio dovettero, come tutti, fare delle scelte. La stragrande maggioranza scelse di cooperare con gli ex-nemici, contribuendo anche loro a costruire un futuro migliore. Una aliquota molto bassa non volle cooperare, non solo perché fedeli alla vecchia alleanza, ma per variegate motivazioni.
Ad esempio a Hereford (USA) vie erano circa 4.000 italiani che gli americani consideravano "tout court" fascisti. In realtà, fra questi non cooperatori vi erano sì fascisti, ed anche prigionieri delle Forze della R.S.I., ma anche monarchici, liberali, moderati, repubblicani, socialisti, comunisti o laici in senso stretto che avevano fatto una scelta personale.
I prigionieri in mano agli Angloamericani furono organizzati in ISU, Italiana Service Units, compagnie di 150 uomini addetti ad un particolare lavoro. Il loro contributo si esplicò negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con l'impegno nei grandi arsenali o nelle basi, oppure in Nord Africa e quindi in Italia, parte integrante della organizzazione logistica alleata. Anche loro, con il loro lavoro, portarono il contributo alla vittoria finale. Soprattutto i prigionieri che operarono in Italia nelc ampo delle comunicazioni, dei trasporti e frl grmio, confluirono poi nelle unità del nuovo esercito italiano, gestendo il materiale di guerra americano
Ovvero, anche il prigioniero che, in un contesto particolare, combatte.

La Coalizione Hitleriana. La Fedeltà alla vecchia Alleanza
Non si può non dare spazio a questo aspetto della Guerra di Liberazione, ovvero avere una idea di che cosa c'era dall'altra parte della barricata. I temi riguardarti l'ultimo fascimo, i motivi per cui esso giocò le sue ultime carte con la Repubblica Sociale Italiana, il rapporto con l'occupante, sono i principali aspetti che ci permettono di comprendere i motivi per cui degli italiani rimasero fedeli alla vecchia alleanza.

La Guerra di Liberazione, però, non può essere compresa se non inserita nel grande contesto dello scontro che vide le democrazie occidentali, alleate momentaneamente con l’Unione Sovietica, contrapporsi ai totalitarismi della prima metà del novecento, ovvero il fascismo ed il nazismo. Questo scontro vide coinvolto tutto il mondo, tanto che lo si chiama Guerra Mondiale, che iniziò nel 1939 ed ebbe termine nel 1945. Uno scontro che vide il tramonto dell’Europa come potenza dominate e la nascita delle due superpotenze, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Uno scontro che non generò una vera pace, ma un equilibrio basato sul terrore atomico.

L’Italia volle a tutti i costi entrare in questa guerra, che all’inizio sembrava una ennesima guerra per la supremazia in Europa. Dopo 39 mesi in cui le sconfitte e le umiliazioni si successero le une alle altre, si comprese che per evitare ulteriori danni, si doveva uscire dalla guerra. Questo obbiettivo fu raggiunto, ma ad un prezzo altissimo. L’Italia non solo come Potenza, ma anche come Paese e come Nazione, scomparve dal novero della Comunità Internazionale e per due anni fu davvero difficile essere Italiani. Fu per ogni Italiano il momento delle scelte, ovvero che cosa fare per garantirsi non un futuro migliore, ma un futuro. Inizia qui la Guerra di Liberazione, che è la matrice e la culla dell’essere Nazione dell’Italia nella seconda metà del novecento ed oltre.

La Guerra di Liberazione è un approccio che è difficile da definire. A tutti i fronti si accede perchè volontari. Si hanno diverse figure giuridiche, come, il soldato, il partigiano, il patriota, il prigioniero, l'internato, l'ostaggio, il deportato, e non giuridiche, come l’attendista, la spia, il profugo, lo sfollato, l’intrallazzatore, l’affamatore, ecc. Tutte figure che si delineano a seconda del fronte con cui si combatte. Un fronte che rimane unitario, nella volontà ferma di sconfiggere il nazifascismo. Emergeranno, poi, tante Italie dalla Guerra di Liberazione, a seconda di come si vuole interpretare questa guerra: sociale, con l’ideologia, con la politica.
E in nome di questa unità, ricordiamo in questa data unitaria chi, pur nella diversità di grado ma non di natura, diede il suo contributo, il suo granello di sabbia, su fronti diversi, affinché si realizzasse una Italia migliore.
Ed in un Italia migliore credevano anche coloro che credevano nel fascismo e nel nazismo. Anche in questa parte, che è l’al di là della barricata, non tutto è lineare. Vi è il residuo del fascismo-regime, vi è il fascismo della prima ora che poi sfocerà nel fascismo intransigente ed estremista, che si contrapporrà al fascismo moderato e tollerante, tutto sotto la spada di damocle delle decisioni dell’alleato tedesco. Un Italia che si nutre di Fedeltà e di Onore, ma che si incammina quasi incosciamente su strade, indicate dall’alleato tedesco, inaccettabili tanto che al termine della Guerra di Liberazione, anche per i fascisti italiani di questo periodo la coscienza non solo italiana ma europea difficilmente accorda perdono e comprensione per il vinto. Una Italia che è parte integrante della Guerra di Liberazione, perché occorre comprendere le loro motivazioni, e su questa via affermare con ulteriore convinzione che una Guerra di Liberazione, dopo 22 anni di Dittatura e 39 mesi di guerra, era proprio necessaria per sperare in qualcosa di diverso che non fosse autoritarismo, sopraffazione di pochi sui molti, guerre, lutti e misere e condizioni socio-economiche miserrime.

Questo il quadro generale di ricerca che si propone, in una visione storico-scientifica unitaria, al fine di consegnare alle nuove generazioni un approfondimento, oltre che una conoscenza, di fatti che generarono gli anni della vicenda repubblicana la cui matrice non si può non conoscere se si vogliono affrontare i problemi che abbiamo di fronte.


[1] Coltrinari M., Alle radici della nostra storia recente. Una guerra su cinque fronti, in “Il Secondo Risorgimento d’Italia, n. 2, anno XI, 2000. Inoltre vds. Coltrinari M., Una guerra su cinque fronti:1943-1945. Proposta per una bibliografia ragionata (I) in “Il Secondo Risorgimento d’Italia - Approfondimenti”, n.1, anno XI, 2001 e Coltrinari M., Una guerra su cinque fronti:1943-1945. Proposta per una bibliografia ragionata (II) in “Il Secondo Risorgimento d’Italia - Approfondimenti”, n.2, anno XII, 2002

mercoledì 6 gennaio 2010

Riceviamo in Redazione la seguente lettera che pubblichiamo

Egregio Dr. Coltrinari
Ritengo di esserci conosciuti a Caserta, in occasione di un incontro con l’Associazione Internati e Guerra di Liberazione, comunque mi presento:
sono Corvino Giovanni Battista, classe 1922 appartengo a quelli d’Aosta ’41sono stato promosso sottotenente il 15 febbraio 1942. Ho partecipato con il Battaglione “Val Cismon”del 9° Reggimento Alpini della Divisione “Julia”, come comandante di plotone fucilieri alla campagna di Russia, sono stato ferito in combattimento il 28 dicembre 1942 al famoso quadrivio insanguinato di Selenij-Yar. Nel 1952 mi è pervenuta una Medaglia di Bronzo al Valor Militare per il fatto d’armi del 28 dicembre. L’8 settembre, sempre con il “Val Cismon” ero nell’alta Val d’Isonzo, zona slava. Dopo i vari ripensamenti decisi di scendere al Sud. Ad Ancona fui catturato dai tedeschi e dopo 15 giorni di prigionia nella caserma Cialdini, paventando di essere internato, riuscii a fuggire, e dopo varie peripezie il 13 ottobre attraversai le linee tra Guglionesi e Montenero di Bisaccia (Termoli).
Ripresentatomi al Sud sono stato uno dei primi ufficiali ad appartenere,dopo l’8 settembre, ad un gruppo di Alpini denominato “Reparto Esplorante Alpini” poi divenuto Battaglione “Taurinense” ed infine “Battaglione Piemonte”. Con il Battaglione “Piemonte” sempre come comandante di plotone fucilieri, 3 Compagnia I Plotone ho partecipato alla Guerra di Liberazione. Il 29 maggio 1944 a Madonna del Canneto sono stato decorato di una Medaglia di Bronzo sul campo.
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Ebbene, leggo su “Il Secondo Risorgimento d’Italia” e le varie pubblicazioni sulla guerra di Liberazione, ma devo constatre che in realtà viene dato poco risalto ad avvenimenti di notevole importanza. E’ pur vero che l’8 dicembre 1843, solo dopo 3 mesi dalla resa incondizionata, vi è stato a Montelungo, con il I Raggruppamento Motorizzato, l’inizio ed il battesimo di fuoco della partecipazione italiana alla guerra di Liberazione, tra lo scetticismo degli Anglo-americani, pertanto rimane una data storica, anche se la volontà di riscatto degli italiani era stata dimostrata lo stesso 8 settembre a Porta San Paolo dai Granatieri di Sardegna. La battaglia di Montelungo, come Lei sa, meglio di me; non diede risultati eclatanti per vari motivi ( scarsa preparazione morale e materiale, scarso equipaggiamento, improvvisazione, condizioni atmosferiche proibitive) per cui gli Anglo-americani continuarono ad essere scettici. Dovettero trascorrere oltre 3 mesi perché venisse concessa un’altra prova. Ciò avvenne il 31 marzo 1944, con la conquista, da parte degli Alpini del Battaglione “Piemonte” di Monte Marrone, con azione frontale, ritenuta impossibile dagli Anglo-americani che dagli stessi avversari tedeschi, ma maggiormente stupì la difesa di Monte Marrone dall’attacco dei tedeschi il 9-10 aprile (notte di pasqua).Furono questi gli episodi che convinsero gli Anglo-americani sulla validità e necessità di avere gli Italiani al loro fianco. Infatti il I raggruppamento Motorizzato fu ampliato e denominato Corpo Italiano di Liberazione e dopo il comportamento nell’avanzata sul settore Adriatico fino alla linea Gotica. Il C.I.L. fu ampliato e trasformato in Gruppi da Combattimento, armato ed equipaggiato con materiale inglese ed inserito nella primavera del 1945 fino alla fine del Conflitto.
Io credo perché non mettere in risalto che l’Esercito Italiano, nato a Montelungo ha avutoi il suo consolidamento nelle terre dell’Alto Molise, sulle Mainarde perché le date del 31 marzo e 9 e 10 aprile 1944 non vengono mai citate.
La storia deve sapere tutta la verità, il vero con tributo alla Guerra di Liberazione dell’Italia è stato dato dalle truppe regolari italiane, inserite a Montelungo l’8 dicembre 1943 e consolidatesi nell’alto Molise sulle montagne delle Mainarde, a Mnte Marrone il 31 marzo ed il 9 e 10 aprile 1943. Ritengo che sarebbe doveroso ogni volta che si cita Montelungo 8 dicembre 1943, si affianchi Monte Marrone 31 marzo e 9 e 10 aprile 1944.
Mi scusi per quanto Le ho scritto, sperando di trovarLa d’accordo, nel mentre mi è gradita l’occasione per cordialmente salutarLa.
Foggia 12 luglio 2008.
Non si può non essere d’accordo con quanto scrive Covino. L’una nota che possiamo aggiungere è che la parola “rinato” riferita all’Esercito Italiano a Montelungo, non sembra, a nostro parere, appropriata. Rinascere significa nascere due volte. Per noi vi è una continuità, anche in presenza di una crisi armistiziale come quella dell’8 settembre, per le Forze Armate Italiane che rappresentano la continuità dello Stato. Questo concetto per noi si esplica nell’approccio che abbiamo adottato per la Guerra di Liberazione, una guerra su cinque fronti, a cui rimandiamo.
Nel solco di quanto detto e proposto da Corvino, possiamo dire che il calendario Associativo per il 2009 sarà dedicato alla epopea di Monte Marrone e al Battaglione Piemonte. (redazionale)

lunedì 4 gennaio 2010

La Prigionia in URSS.
Fu veramente così crudele?

Massimo Coltrinari

(info: massimo.coltrinari@uniroma1.it)

Attraverso l’analisi dei dati recentemente acquisti, nella considerazione delle peculiarità della guerra ad est, la prigionia in Urss può, con i dovuti presupposti, essere considerata come tutte le altre prigionie.

La prigionia in mano alla Urss è intesa, sia dalla storiografia recente che dalla pubblica opinione, ed anche a livello di studiosi e amanti delle cose storiche, come una delle più crudeli ed efferate. Questo approccio è dovuto alle violente polemiche del dopoguerra, alimentate anche dallo scontro ideologico e dalla scarsa conoscenza dei dati e quindi della realtà in cui questa prigionia si esplicò.
Dire che oltre l’86% dei prigionieri italiani caduti in mano alla Urss nell’arco di tempo che va dal dicembre 1942 al gennaio 1946 trovò la morte in prigionia, avvalora l’approccio sopra riportato. Infatti questo dato è stato sempre messo in relazione alla mortalità avutasi nelle altre prigionie.
La tabella I riporta i dati quantitativi delle altre prigionie, con relativo grafico esplicativo, in cui si evince che la mortalità della prigionia italiana in mano alla Gran Bretagna è del 2%, quella in mano agli Stati Uniti dell1%, cosi come quella in mano alla Francia. In mano alla Jugoslavia ed alla Romania si raggiunge la cifra del 9%, che è di gran lunga superiore a quella in mano alla Germania, che si attesta, anche essa, sull’ordine del 2%. La mortalità in mano alla Urss, invece, assume un dato veramente abnorme, ovvero dell’86%.

Occorreva dare una spiegazione a questo dato, altrimenti inspiegabile. Sicuramente doveva essere intervenuto un evento o più eventi concomitanti che, in modo anomalo, hanno inciso sulla mortalità di questa prigionia. O meglio sul mancato ritorno di tanti soldati caduti in mano alla Armata Rossa.

I parenti ed i familiari dei dispersi, memori di quanto accaduto all’indomani della Prima Guerra Mondiale, quando numerosi trentini e giuliani, inviati, nelle fila dell’Esercito Austro Ungarico, a combattere sul fronte orientale, ritornarono dopo anni e molti con la famiglia al seguito. Quindi in queste famiglie di dispersi si diffuse la convinzione che molti soldati italiani, subito dopo la ritirata o nell’immediato dopoguerra si fossero creati una famiglia russa ed avessero coscientemente rinunciato a ritornare in Patria. Tale ipotesi era sostenuta in modo indiretto dalle correnti filosovietiche ed alimentate dai soliti sciacalli che nelle grandi come nelle piccole tragedie imperversano.
Molti si rendevano conto, però che la percentuale degli assenti era troppo alta per potere accettare sena riserve le “volontario non ritorno”. Vi dovevano essere sicuramente altre cause.

Le correnti antisovietiche e specialmente cattoliche, di contro, sostenevano che, al pari dei prigionieri germanici e giapponesi, i prigionieri italiani erano trattenuti dai sovietici come schiavi ed impiegati nelle miniere estrattive o nell’immenso arcipelago “Gulag”. Ed anche qui la malafede, mista al citato sciacallaggio, non difettò.

Queste due tesi furono da sempre respinte da coloro che furono rimpatriati, cioè dai reduci dalla Prigionia sovietica. Coloro che riuscirono a superare le prove della prigionia in mano alla Urss, sostenendo che date le condizioni della Urss di Stalin era praticamente impossibile per un prigioniero delle forze dell’Asse, arrivato in Urss come oppressore e invasore, essere, da prigioniero integrato nella società collettivista. La NKVD, la polizia politica, non l’avrebbe mai permesso e nulla sfuggiva, in quegli anni alla NKVD. Di contro che grandi masse fossero trattenute come schiavi era un'altra diceria insostenibile, date le condizioni in cui si viveva nei campi di prigionia.

I reduci, con queste loro affermazioni, si scontravano sia con le correnti prosovietiche che con quelle antisovietiche e quindi erano attaccati da tutti. Ben presto lo scontro fu più che altro portato sul terreno ideologico, radicalizzandosi oltre misura.
In questo clima incandescente, i dati oggettivi venivano intepretati con occhio di parte. Anche se le polemiche si sono attenuate, a cinquant’anni di distanza, le posizioni in pratica sono le stesse. Ed è facile prevedere che anche questo articolo riceverà i pro i contro e le stesse critiche confezionate nel dopoguerra, contribuendo a quella informazione distorta che ancora oggi persiste.

Partendo da dati forniti da Governo Russo di recente (primi anni novanta) questi attestano che su 50.000 mila prigionieri dell’ARMIR in mano alla Urss, 40 mila sono morti in prigionia, ovvero dopo la cattura , intesa in tutte le sue fasi.[1]
Quindi su cento prigionieri, venti sopravvissero. Su questo dato si può riprendere, anche sulla scorta del Rapporto UNIRR che abbiamo posto a riferimento della nostra ricerca, la cifra dei mancanti al termine della ritirata, cifra che abbiamo individuato nello scorso numero e che ammonta a 95.000 uomini.

Dei 95.000 circa assenti alle bandiere al termine della ritirata, marzo 1943, risultano essere 25.000 sono morti nel corso della medesima, 70 mila sono stati catturati. Di questa massa di 70 mila, 10 mila sono sopravvissuti e sono stati rimpatriati entro il 1946. Dei mancanti 60 mila, sono morti tutti in prigionia ed in base alle fonti russe, 40 mila sono stati censiti come morti nei lager e 20 mila durante le varie fasi della cattura oppure non censiti nei primi mesi di prigionia.

La tabella II ci indica, sulla base dei dai forniti dai russi, l’andamento della mortalità dei nostri prigionieri in mano sovietica. Questa tabella è stata costruita traslitterando dal cirillico oltre 40 mila schede fornite dalle autorità di Mosca. La data del decesso presente in oltre il 90% delle schede, ha consentito di costruire la tabella stessa con sufficiente esattezza.
Il primo dato evidente è quello che tra il febbraio all’aprile del 1943 si ha oltre l’85% dei morti in prigionia. , con una punta massima nel mese di marzo, quando morirono circa 300 nostri militari al giorno.

Le cause di questa altissima mortalità si possono individuare, sommariamente, alla spossatezza dopo i combattimenti, alle condizioni climatiche pessime, alla metodica e sistematica azione russa a spogliare degli indumenti pesanti i nostri prigionieri al momento della cattura, ( elemento questo che si inserisce nella crudeltà tipica della guerra all’est) alla scarsezza di cibo, alle pesantissime marce a cui furono sottoposti i nostri soldati, alla quasi nulla assistenza che i sovietici diedero ai nostri prigionieri, al diffondersi di malattie infettive, come il tifo petecchiale ed altre, alla mancanza di cure e soccorso, al sistema di trasporto per ferrovia adottato ( in carri merci, senza riscaldamento e pigiati l’un contro l’altro) alle pessime condizioni igienico-sanitarie dei campi di smistamento ed infine alla perdurante mancanza di cibo anche nei lager definitivi.

Questo ha fatto si che la moralità fu altissima nei primi mesi del 1943, per poi rientrare nella norma da maggio 1943 fino al rimpatrio.

Su questo dato occorre ragionare.
E’ indubbio che esiste una precisa responsabilità sovietica di questo stato dato di cose. Secondo il nostro modo di pensare e di agire, chi in combattimento cattura un soldato nemico, ha l’obbligo morale di mantenere integra la sua vita, se ferito, curarlo. Una precisa convenzione era in atto dal 1929 sul trattamento dei prigionieri. Questa convenzione sfortunatamente non era stata sottoscritta dalla Unione Sovietica. Peraltro, all’inizio del conflitto, l’Unione Sovietica aveva dichiarato che, pur non essendo essa fra gli Stati che riconoscevano la Convenzione del 1929, vi si sarebbe attenuta a condizione di reciprocità, ovvero che i prigionieri sovietici in mano alla Germania avessero avuto lo stesso trattamento previsto dalla Convenzione.
Folgorati dalle loro vittorie e certi di aver vinto ed abbattuto l’Unione Sovietica, i Tedeschi, in virtù anche della loro ideologia e della volontà di sterminio dei popoli slavi espressa a più riprese da Hitler, già nel 1941 si abbandonarono ad una guerra di sterminio di rapina e di sfruttamento nei confronti delle popolazioni occupate per creare i presupposti di uno stanziamento tedesco all’est lo spazio vitale, ottenuto anche sterminando le popolazioni non tedesche.

Coerentemente, i prigionieri sovietici caduti nelle mani tedesche, e nei primi mesi di guerra furono centinaia di migliaia furono considerati solo un peso, elementi da eliminare, poco sopra, nella gerarchia dello sterminio delle razze cosiddette inferiori, agli ebrei.
L’Unione Sovietica, appreso ciò, si attenne a quanto dichiarato, ovvero si sentì svincolata dalla Convenzione di Ginevra del 1929, perché non attuata la dichiarata reciprocità. Nel 1941 questa dichiarazione sovietica fu appresa con superficialità dagli esponenti tedeschi, convinti ormai di avere la vittoria in pugno. Ma la guerra all’est, di giorno in giorno sempre più crudele, divenne per i prigionieri ancora più crudele. Nel terzo anno di guerra, con la battaglia di Stalingrado che infuriava, ormai era noto che chi cadeva prigioniero in mano al nemico aveva poche possibilità di scampo. La crudeltà e le efferatezze dei combattimenti era nota fra l’altro, sul nostro fronte.
Questo si manifestò, al momento primario della cattura, ovvero al termine dei combattimenti. Era regola, dura, ma applicata sempre, che le forze motorizzate e corazzate sovietiche non facevano prigionieri. E non potevano farli: operando 30, 40 km ed anche di più dalle loro basi, non avevano ne i mezzi ne la possibilità di raggruppare e scortare all’indietro gruppi di prigionieri, anche in drappello.
Da qui la regola di fucilare tutti i sopravvissuti sani ed abbandonare al loro destino i feriti. Era una delle tante crudeltà di quella guerra crudele. Le truppe di fanteria che seguivano le truppe corazzate e motorizzate, al termine del combattimento si abbandonassero ad eccessi sui prigionieri per sfogare la loro rabbia per le perdite subite. Di episodi di questo tipo la memorialistica è piena. Di norma si fucilavano sul posto i tedeschi e non di rado gli ungheresi ed i rumeni; si salvavano solo gli italiani, il comportamento di occupazione benevolo era noto ai soldati Russi.
Una volta superato questo momento, i prigionieri dovevano passare attraverso momenti difficili: primo fra tutti la spoliazione a cui erano sottoposti dai soldati russi. Questi, sebbene equipaggiati, requisivano tutto quello che aveva un valore per alimentare il loro piccolo mercato; ed incominciavano sempre dalle calzature, dai cappotti, dalle pellicce dai maglioni, lasciando il prigioniero alle merce del clima. E questo fu per molti soldati italiani, fatale.
Poi non vi era una vera e propria organizzazione prevista per i prigionieri. La Logistica sovietica era molto rozza, spesso inesistente anche per le proprie truppe. In pratica i sovietici, concettualmente, una volta che i prigionieri erano inoffensivi, si disinteressavano di loro, affidandoli a scorte di vecchi e di ragazzi, che dovevano solo condurli, come non importa, alle stazioni ferroviarie lontane centinaia di chilometri dal fronte. Sono quelle che i reduci chiamarono “le marce del Davaj”.
Sono in queste spiegazioni le motivazioni di una mortalità in prigionia così alta. Impegnati in una lotta per la sopravvivenza, e adottando il principio che la vita non aveva valore di fronte al bene supremo della salvezza della Patria, i sovietici non pensavano minimamente di prendersi cura dei loro nemici fatti prigionieri. Da qui le disastrose conseguenze per i nostri soldati.
Se vi fosse stata la volontà di sterminare tutti i prigionieri, sarebbe stato molto facile eliminare tutti gli italiani, compresi i 10.000 che poi ritornarono.
E’ anche vero che un campo di prigionia russo, se paragonato ad un campo di prigionia inglese o italiano il paragone è nettamente sfavorevole al primo; un campo di prigionia americano è inconcepibile per la mentalità sovietica.
Sulla base di queste considerazioni occorre quindi dividere la prigionia sovietica in due parti: la prima, che possiamo definire della “cattura”, con tutti i suoi componenti; e la seconda, che fu una prigionia dura, crudele, difficile, ma che può rientrare nella norma.

La prima prigionia è eccezionale, come eccezionale era la guerra all’est. Noi italiani con essa pagammo il prezzo della ideologia che bene o male avevamo adottato, della nostra impreparazione militare e della tragicità della avventura che con qualche superficialità andammo a cercare; La seconda prigionia è normale per quanto può essere una prigionia, tanto da essere posta sul piano delle altre prigionie; ovvero non meno dura e difficile di quella tedesca, ma sicuramente meno crudele ed efferata di quella francese del 1943-1946
Non la volontà sovietica di sterminare gli italiani in quanto tali, ma le dure e crudeli circostanze della guerra all’est imposero e determinarono la cifra altissima di morti, sia prima che dopo la fine dei combattimenti.
Occorre però riflettere sul perché di questa cifra così alta di prigionieri, che poi diverranno dispersi e caduti. Perché lasciammo in mano dal 12 dicembre 1942 al 31 marzo 1943 oltre 70 mila soldati, di cui l’86% cioè 60 mila non riusciranno a spravvivere?
Una domanda che può contribuire a vedere più che nel nemico di ieri, ma in altre cause, che analizzeremo in una prossima nota, la responsabilità di una tragedia che non ha eguali nella storia del nostro Esercito.
[1] La cattura, ovvero il momento in cui un combattente depone le armi e, quindi, su di lui cessa di poter essere esercita la violenza bellica, si articola in varie fasi che abbiamo individuato: nella cessazione dei combattimenti, nella raccolta, nello sgombro nelle immediate retrovie, nel trasferimento alle stazioni di carico, nell’avvio ai campi di smistamento, nell’arrivo nei campi di prigionia.