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martedì 8 settembre 2020

Storia del Battaglione Antonio Gramsci In Albania


Quando un’idea resiste alla distruzione
Storia del Battaglione “Antonio Gramsci” in Albania

Antonella Fiorio[1]


Premessa
Alle soglie di quel tragico momento di storica confusione che fu, per gli italiani, l’8 settembre 1943, in Albania, alle dipendenze del Gruppo Armate Est comandate dal Generale Ezio Rosi, era di stanza la 9^ Armata del generale Lorenzo Dalmazzo che contava un complesso di forze pari a 120.000 uomini. Nelle zone costiere dell’Albania operava il IV Corpo d’Armata (gen. Carlo Spatocco, sede Durazzo) nei territori di Argirocastro (Divisione di Fanteria “Perugia” capeggiata dal gen. Ernesto Chiminiello), Valona (Divisione di Fanteria “Parma” comandata dal gen. Enrico Lugli) e, più a nord, Durazzo (Divisione di Fanteria Motorizzata “Brennero” con a capo il gen. Aldo Princivalle). Nell’interno, il XXV Corpo d’Armata (gen. Umberto Mondino, sede Elbasan) era suddiviso nelle zone di Corcia e Dibra, dove operavano rispettivamente la Divisione di Fanteria “Arezzo” del gen. Arturo Torriani e la Divisione di Fanteria “Firenze” del gen. Arnaldo Azzi. Il settore di Scutari e la regione del Kosovo erano presidiati dal Settore Z “Scutari Kosovo” con a capo il gen. Alessandro D’Arle e la Divisione di Fanteria “Puglie” comandata dal gen. Luigi Clerico[2].
Quel “tragico momento di storica confusione” colpì gli italiani in Albania forse più dei compagni militanti sul suolo patrio, poiché più forte fu il senso di abbandono e incertezza in cui vennero lasciati gli italiani in quella appendice del regno che fu l’Albania dopo l’occupazione fascista. Quando un armistizio sembra piombare dal cielo e un cambiamento improvviso di alleanze rompe qualcosa nelle catene di comando militare, allora si manifestano inspiegabili, ma non troppo, comportamenti divergenti da parte di chi, quel colpo di piombo, ha dovuto accusarlo. Ed è così che 120.000 uomini si ritrovarono a percorrere strade diverse: circa 75.000, rifiutandosi di aderire alle proposte di collaborazionismo con i tedeschi, furono catturati dall’ex alleato e avviati ai campi di internamento; tuttavia, per ogni 7/8 militari che opponevano il loro rifiuto, 1 aderiva: così circa 8.000 uomini mostrarono la loro fede al credo fascista terminando la guerra al fianco della “Alleanza”. In quei frenetici giorni di settembre, furono circa 10.000 gli uomini che riuscirono a raggiungere i porti albanesi più prossimi alla loro divisione e a imbarcarsi per l’Italia, dove, tuttavia, non terminò per tutti il viaggio. Per quanti non riuscirono a tornare a casa e, seppur ostili ai tedeschi, ma stanchi della guerra, non avevano intenzione alcuna di combattere ancora, la possibilità fu una sola: rifiutare qualsiasi proposta, gettare le armi e resistere dandosi alla montagna, assuefarsi a costumi diversi e a condizioni di vita precarie cercando, per quanto possibile, di sopravvivere lavorando per gli albanesi o, per i più fortunati, in imprese italiane. Furono questi, approssimativamente, tra le 15 e le 20.000 unità. Stando alle cifre[3], qui riportate per eccesso, resterebbero tra le 10 e le 7.000 unità, che offrono lo spettro del potenziale militare che gli italiani avrebbero potuto sfruttare a sostegno della lotta armata contro il nazifascismo in Albania. Ma la totale mancanza di supporto iniziale da parte del Comando Supremo Italiano e degli Alleati, fece sì che, in un primo momento, soltanto 3.000 uomini riuscissero materialmente a imbracciare le armi e a darsi una organizzazione strutturale e logistica per affrontare la Resistenza armata. Questi a loro volta si suddivisero in due categorie:
1)      quelli che si costituirono nel Comando Italiano Truppe alla Montagna (C.I.T.a.M.), su iniziativa del Tenente Colonnello Mario Barbi Cinti il 15 settembre 1943, entrato in piena attività dal 28 settembre sotto la guida del Generale Azzi – la più alta autorità militare italiana in Albania sino alla sua partenza nel giugno 1944 –, e del Tenente Colonnello Goffredo Zignani, che già dalla metà di ottobre aveva alle dipendenze 5.000 uomini, inquadrati in 13 battaglioni, situati nelle zone militari di Peza, Dajti, Berat, Dibra, Elbasan, Valona, Mati, Corcia, Argirocastro. Uomini che avevano fermamente deciso di combattere i tedeschi, di restare fedeli al Re, alla Nazione e al Comando Italiano e che tentarono di mantenersi saldamente organizzati e coordinati nella loro lotta finché, abbandonati dall’Italia e dagli Alleati, ripetutamente colpiti dal nemico, si sciolsero nel giugno 1944 per mancanza di aiuti e mezzi, continuando tuttavia a gestire per quanto possibile i rapporti tra l’Italia e l’Albania, provvedendo al rimpatrio loro e al sostegno dei militari italiani rimasti sul suolo schipetaro.
2)      quelli che volontariamente si arruolarono nelle file dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese (E.L.N.A.), il cui commissario generale era Enver Hoxha e capo di Stato Maggiore Spiro Moisiu, ideologicamente schierato e di orientamento comunista. Inferiore, per numero delle forze in campo, rispetto al C.I.T.a.M. (inizialmente circa 800 contro 3.000, accresciuti man mano sino a raggiungere i 1.200 contro 5.000), collaborò con quest’ultimo nella comune lotta al nazifascismo, maturando tuttavia nel tempo un certo sentimento di diffidenza verso questa mole di italiani organizzati, stanziati sulle loro montagne, pur sempre ex-occupatori. Certamente meglio accolti i volontari partigiani italiani, ideologicamente più vicini, che singolarmente o in gruppi, scelsero di combattere nel loro esercito, importantissimi per il contributo dato in qualità, soprattutto, di artiglieri. Agli italiani che qui confluirono venne concesso di creare un quarto battaglione autonomo, aggiunto ai 3 già creati dai partigiani albanesi, che ne seguisse la fisionomia ordinativa: squadre di 6 elementi ciascuna che a gruppi di 3 o 4 convergevano in plotoni, ogni 4 plotoni si aveva una compagnia e ogni 4 compagnie un battaglione. Il 10 ottobre 1943, al comando di Terzilio Cardinali, si costituì il battaglione “Antonio Gramsci” – in onore e memoria del fondatore del Partito Comunista d’Italia, vittima antifascista, di lontane origini albanesi – su 3 compagnie di 3 plotoni ciascuna, per un totale di circa 170 uomini.

Gli uomini del “Gramsci”
La I Brigata partigiana albanese, al cui interno era inquadrato il battaglione “Gramsci”, era comandata da Mehmet Shehu. Una annotazione manoscritta da lui firmata e datata 12 ottobre 1943, riporta le forze della brigata: a) partigiani albanesi: 630, b) partigiani italiani: 166, c) artiglieri italiani: 200, d) mulattieri italiani: 100, totale: 1096[4]. I partigiani italiani erano giunti al Comando armati di fucile e mitragliatrici leggere. In un rapporto stilato tre giorni prima per lo Stato Maggiore dell’E.L.N.A., il comandante della I Brigata – a seguito degli accordi presi con il gen. Azzi e dell’appello letto a truppe e ufficiali del C.I.T.a.M. – aveva annunciato la formazione del nucleo del battaglione “Antonio Gramsci” con 137 volontari italiani cui si aggiungevano 20 radio-telegrafisti, un potenziale iniziale di 170 muli e cavalli poi ridotto a 100, per esigenze di trasporto, accompagnati da 100 mulattieri e un veterinario, un’artiglieria con un’efficacia da 270 posti e 4 obici da 75/13[5]. Nessun ufficiale era entrato a far parte del battaglione, forse – si annota nel Diario Storico Militare del “Gramsci”[6] – perché il Comandante della I Brigata aveva detto che nessuno avrebbe dovuto avvalersi dei gradi. Pertanto, per volere dei componenti vennero nominati i comandanti e i commissari politici delle tre compagnie in cui era suddiviso il battaglione: Gargnelutti[7] Romeo e Cicerchia Romeo per la 1^ compagnia, Monti Giuseppe e Bonacchi Francesco per la 2^ compagnia, Cavallotto Giovanni Battista e Brunetti Bruno per la 3^. Contenti, promettevano di fare il loro dovere fino alla fine.
Il morale era altissimo. I diari riportano un generale clima di fermezza e determinazione tra gli italiani e di affabilità degli albanesi nei loro confronti, malgrado ciò che avevano dovuto subire durante l’occupazione. Ma le idee li accomunavano e tanta era la volontà di combattere. Si cantava a gran voce l’Inno dei lavoratori e il suo ritornello: “Sul cammin dell’avvenire / affrettiam compagni il pie’ / e giuriamo di morire / pria che mai tradir la fe’.” Ma con il tempo il battaglione si diede anche una sua marcia che incitava gli animi partigiani alla lotta contro il fascismo per un’Italia libera. Una marcia che ricordava loro costantemente di essere italiani e che stavano combattendo anche per la loro libertà, seppur sull’altra sponda dell’Adriatico:
Noi del fascismo conosciam le pene
L’onte subite da noi lavorator
Alfin spezzate le catene abbiam
Che sfruttavano ogni dì il nostro lavor
Contro il nemico barbaro e crudele
Tutta l’Italia un dì si ribellò
Coi partigiani, le camicie nere
Han perduto nella guerra il suo valor
Proletario va
Verso il tuo destin
Il cammin
Della patria sorgerà
Dell’Italia la sorte
Abbiamo nelle man
Siamo arditi partigian
Combatteremo fino alla vittoria
La nostra terra libera sarà
Noi dell’Italia storia si farà
Degli eroi il sangue vendichiam
Siam proletari della nuova Italia
Che un dì sui colli ancor risorgerà
L’Italia bella libera sarà
Con la pace il lavor ritornerà
Proletario va
Verso il tuo destin
Il cammin
Della patria sorgerà
Dell’Italia la sorte
Abbiamo nelle man
Siamo arditi partigian [8]
Ma quando il nemico è unico e unica è l’idea, unica è la lotta. Parteciparono sin da subito alle operazioni della I Brigata. A soli due giorni dalla loro costituzione, i partigiani del “Gramsci” attaccarono un’autocolonna tedesca sulla strada Elbasan-Pekin. “Il morale è altissimo” ricorre nel Diario come un leitmotiv. Era così il giorno prima della sua distruzione quasi totale, a Berat, il 15 novembre 1943, dopo aver sfilato per le strade della città, acclamati dalla popolazione che inneggiava all’Esercito di Liberazione Nazionale. Quel 15 novembre a difendere la città vi era anche il Battaglione del Comando della Zona di Berat dipendente dal C.I.T.a.M. comandata dal ten. col. Antonio Curti. Le batterie “Cotta” e “Menegazzi”, alle dirette dipendenze dell’E.L.N.A., erano riuscite a sganciarsi prima dell’attacco. Il battaglione “Gramsci” presidiava la città con il compito di eseguire lavori di sbarramento sulla strada che conduceva al vicino aeroporto, in mano ai tedeschi. Unità della 100^ divisione tedesca – aiutate da forze nazionaliste albanesi e dal tradimento di Xhelal Staravecka (comandante del II battaglione della I Brigata d’assalto albanese) che rivelò al nemico entità e posizione delle forze partigiane – alle 5.30 del mattino, attaccarono a sorpresa tutto il fronte, dapprima sulle colline dove era posizionato il “Gramsci”, poi in pianura, lungo le strade, mitragliando e bombardando. Berat era perduta. Il Comando di Zona del C.I.T.a.M e il battaglione “Gramsci” erano distrutti. Il morale non poteva più essere alto. Trascorso appena un mese, con i reparti da poco costituiti e gli elenchi degli effettivi ancora imprecisi, il battaglione era ridotto ai minimi termini: di 170 partigiani ne erano rimasti solo 48, scampati alla morte grazie alle acque del fiume Osum, in cui si erano gettati per trovare salvezza. Gli altri compagni erano morti in battaglia o fatti prigionieri dal nemico. Il rapporto del Comando della 100^ divisione tedesca riportava 117 nemici morti (un colonnello, un maggiore, 3 capitani, 2 tenenti italiani, 65 uomini italiani e 45 albanesi), 182 italiani prigionieri, 103 albanesi prigionieri. Anche il ten. col. Curti contò i suoi morti, che ammontavano a 4 ufficiali e circa 50 sottufficiali e truppa[9]. Il comandante Terzilio Cardinali, con pochi compagni, raggiunse la regione della Malacastra, dove la I Brigata d’assalto albanese era impegnata in operazioni contro forze nazionaliste del Balli Kombetar e dopo quattro giorni di marcia ritrovarono il comandante della 1^ compagnia Giuseppe Monti a Vargegia.
Ripresero subito la loro attività: operazioni contro i ballisti, perquisizioni, combattimenti: Capinova, Bargulas, Dobregia, Novai, Libova. A Libova trascorsero il Natale. Si erano, intanto, arruolati nuovi partigiani; non erano, dunque, del tutto distrutti. A differenza degli altri battaglioni del C.I.T.a.M., ugualmente abbattuti dal nemico, il “Gramsci” era in fase di ricostruzione. Questo, ovviamente, grazie all’aiuto albanese. Mehmet Shehu rivolse a Terzilio Cardinali parole di supporto e incitamento affinché la loro comune lotta continuasse, affinché continuassero insieme la “marcia verso la vittoria finale”[10]. Mai come in questo caso è evidente la forza che può possedere un’idea. Ricostruire il “Gramsci” significava ricostruire l’unica entità italiana comunista sul suolo albanese che potesse sostenere le forze di liberazione, materialmente e ideologicamente. Per quanto la volontà di combattere il nazifascismo fosse comune, i battaglioni del C.I.T.a.M non vennero mai aiutati a ricostruirsi, poiché non ideologicamente schierati dalla medesima parte e poiché avrebbero rappresentato quell’aiuto italiano alla liberazione non gradito perché non interno alla causa albanese. Avrebbe tolto ai partigiani albanesi la portata nazionale e comunista della propria lotta per la liberazione da un nemico che era non solo tedesco, ma anche italiano.
Fu l’idea dunque a sopravvivere e ad essere ricostruita.  Un’idea che tenne viva la ferrea volontà di andare avanti nella lotta anche nei mesi più difficili, come quelli di gennaio, febbraio e marzo 1944, dal clima estremamente rigido, vitto molto scarso e attacchi del nemico costanti.
A marzo il morale tornava alto dopo la cattura di 480 nemici; il 28 maggio a Belsh, per vendicare la sconfitta di Berat, dopo aver tentato, invano, di fronteggiare i tedeschi per liberare gli italiani prigionieri nei loro campi, gli uomini del “Gramsci” mossero verso un presidio tedesco vicino e lo eliminarono. Tornava l’energia e incalzavano le operazioni per costringere il nemico alla ritirata. Dal mese di luglio il battaglione era impegnato nella zona di Cerenez (Dibra), dove furono necessari ripetuti assalti per poter snidare le forze nemiche, numerose, ben armate e ben posizionate. Durante l’ultimo assalto, l’8 luglio, che permise di scardinare lo schieramento opposto e liberare l’intera area, cadde, trapassato al cranio da una pallottola, il comandante Terzilio Cardinali. Tra le perdite anche un comandante di plotone, Renato Donnini, e un vice-commissario, Rocco Consiglio. La morte del carismatico comandante Cardinali segnò profondamente i giorni a venire. Come nuovo comandante venne nominato Giuseppe Marchi, vice-comandante Emilio Marconi.
L’attività del “Gramsci” prevedeva per i mesi successivi operazioni di sbarramento e distruzione delle vie di comunicazione per ostacolare le forze tedesche e collaborazioniste, attaccandone presidi, colonne e camionabili.
Il 10 ottobre 1944, il nuovo comandante di battaglione Giuseppe Monti e il commissario politico Bruno Brunetti firmarono e inviarono un messaggio al comandante Mehmet Shehu[11]:
I Divisione I Brigata d’assalto
Btg. “Antonio Gramsci”
Zona libera, li 10 ottobre 1944
Al compagno
Comandante della I Divisione
MEHMET SHEHU
Il Battaglione “Antonio Gramsci” nella ricorrenza del primo annuale della sua fondazione, con lo spirito combattivo della prima ora e nella certezza della vittoria finale ti invia i più sentiti saluti rivoluzionari.
Con lo spirito, ma non con i combattenti della prima ora. A un anno di distanza il battaglione aveva subito numerosi cambiamenti: sconfitte, perdite di compagni, riprese, nuove reclute. Mutava, si rigenerava, ma lo spirito combattivo, assicurava Brunetti, era il medesimo, immutato.
Dopo le operazioni del mese di ottobre, tutta la rotabile Tirana-Durazzo fino al bivio per Scutari era sotto il controllo del battaglione; in novembre l’unica città ancora occupata dalle forze tedesche era Tirana e, oramai, erano tutti lì concentrati per l’atto finale di questa lotta per la libertà: i partigiani albanesi e italiani inquadrati nelle file dell’E.L.N.A., il battaglione “Gramsci”, le batterie di artiglieria al comando di Menegazzi e i militari italiani dell’ormai sciolto C.I.T.a.M., ancora rimasti sul suolo albanese e organizzati nel neonato Comitato Clandestino Italiano. Una parte del battaglione “Gramsci” operava nella immediata periferia per impedire alle formazioni nemiche di rientrare in città, i restanti si battevano sulle barricate in pieno centro. I combattimenti coinvolsero tutti e si susseguirono fino al 17 novembre, tra strategie, tattiche, assalti e violenze.
Il 19 novembre i partigiani del “Gramsci” poterono entrare in una Tirana definitivamente libera dagli occupatori nazi-fascisti, accolti da entusiastiche manifestazioni di simpatia da parte della popolazione.
Le perdite del battaglione “Gramsci” al 20 novembre 1944 erano: 15 caduti, 24 feriti, 140 dispersi. Dopo la liberazione di Tirana, il battaglione come le altre forze italiane combattenti inquadrate nell’E.L.N.A., furono impegnate ad eliminare le residue formazioni “balliste” e collaborazioniste, ancora variamente sparse sul suolo albanese, e, non meno importante, ad organizzare organicamente la propria presenza lì, provvedendo alle successive operazioni di rimpatrio. Essendo, nei fatti, il battaglione “Gramsci” l’unica formazione autonoma ancora attiva, riconosciuta ed elogiata dall’E.L.N.A. per il contributo dato – tanto che 92 partigiani italiani combattenti del “Gramsci” ottennero la nomina a membri del Partito Comunista Albanese per meriti speciali[12] – iniziarono ad affluire quanti avevano combattuto nelle file degli altri reparti, sin quando, per ordine del Comando Supremo dell’E.L.N.A., il 6 febbraio 1945, venne costituita la Brigata “Antonio Gramsci”[13], (allo scopo originario d’inviarla in Jugoslavia dove ancora si combatteva contro i tedeschi e dove, già da qualche mese, combatteva inquadrato in una brigata albanese il battaglione italiano “Palumbo” al comando di Ernesto Celestino[14]) organizzata su 4 battaglioni, poi accresciuta a Divisione, comandata dal ten. col. Giuseppe Monti, formata da due Brigate che presero il nome di Brigata Terzilio Cardinali (comandata dal magg. G. Battista Cavallotto) e Brigata Giuseppe Pignataro (comandata dal magg. Mario Fantacci), in memoria dei due capi partigiani morti in battaglia, con un effettivo di 1.800 combattenti.
Di ordine decisamente superiore, però, era il numero totale degli italiani, militari e civili, presenti nel territorio schipetaro dopo la liberazione e a cui bisognava rivolgere debita attenzione. Su questo fronte era da tempo attivo il generale Gino Piccini – subentrato al generale Azzi a seguito del suo rimpatrio a giugno 1944, comandante del Comando Truppe Italiane d’Albania – che aveva fermamente espresso la volontà di restare in Albania per tutelare gli interessi dei militati italiani presenti. Molti erano i militari ancora fermi sulle montagne in stati di totale indigenza, molti i militari lavoratori presso altri italiani o albanesi. Piccini tentò la non facile impresa di stabilire dei collegamenti con il Comando Italiano e Alleato al fine di regolamentare e tutelare la loro posizione e provvedere a dei rimpatri controllati; difficoltà ampliata dalla diffidenza del Governo Provvisorio (insediatosi il 28 novembre 1944) e del Comando albanesi nei confronti di un ufficiale italiano che, per quanto potesse aver dichiarato il suo antifascismo, restava pur sempre un esponente di quel passato, sebbene compagno nella lotta partigiana. Di fatti i Centri Assistenza istituiti nelle varie città albanesi vennero trasformati in Sezioni del “Circolo Garibaldi”, Circolo Democratico Italiano costituito sin dal mese di novembre prima a Berat e poi, a città liberata, a Tirana, su iniziativa degli uomini del “Gramsci” con l’approvazione della polizia locale albanese. L’azione del generale Piccini e del Circolo Garibaldi procedette, dunque, parallelamente.
Il Circolo era organizzato secondo i modelli dei Comitati di Liberazione Nazionale italiani, presidente generale fu eletto il dr. Arnolfo Nizzola e segretario generale il rag. Angelo Lombardi.[15] Divenne questo il punto di riferimento principale per l’assistenza degli italiani, soprattutto dei militari, che, a partire dal mese di marzo, si diede anche una pubblicazione periodica settimanale dal titolo “L’Unione”, cui parteciparono attivamente e con entusiasmo gli italiani sino al giorno dell’ultimo rimpatrio. Nello stesso mese importante fu, per gli umori e il destino dei suoi connazionali, la visita del Sottosegretario alla Guerra, Senatore Mario Palermo, dal 9 al 17 marzo 1944. In quei giorni, l’on. Palermo incontrò i rappresentanti del Governo Provvisorio e delle Forze Armate albanesi, il gen. Piccini e i campi di raccolta dei militari italiani, i reparti della brigata “Gramsci” e il “Circolo Garibaldi”; visite dense di emozioni e di orgoglio per il Sottosegretario nel riconoscere, negli occhi di chi si era battuto per la libertà di quella terra, la tenacia di militari antifascisti che avevano resistito sino all’ultimo nella speranza, ora, di ritornare in patria. La realizzazione di quella speranza dipendeva da lui e dalle trattative che avrebbe dovuto condurre, in rappresentanza del Governo Italiano, con il Capo del Governo Albanese Enver Hoxha. A seguito di ripetuti colloqui, venne firmato un verbale contente le clausole degli accordi presi, che avrebbe rappresentato la base dei rapporti tra l’Italia e l’Albania per tutto il 1945 e la regolamentazione delle prossime attività di rimpatrio. Si stabilì che sarebbero stati rimpatriati prima gli ammalati, i feriti, gli indigenti e i militari in armi, gli uomini della “Gramsci” e le batterie di artiglieria (circa 2.000 combattenti), come premio e riconoscimento per i sacrifici compiuti al fianco dell’E.L.N.A.[16]; a seguire i soldati disarmati che avevano lavorato presso gli albanesi (circa 10.000), poi i prigionieri dei tedeschi e per ultimi i civili (circa 8.000) all’infuori di alcune categorie di specialisti che avrebbero dovuto aiutare gli albanesi nella ricostruzione del Paese[17].
Prima della partenza dell’on. Palermo, si tenne una piccola cerimonia in cui, alla presenza del Sottosegretario, del gen. Piccini, del comando della Divisione “Gramsci”, del gen. Spiro Moisiu e del gen. Mehmet Shehu, vennero consegnate le decorazioni al valore militare concesse dal Governo albanese ai partigiani italiani che maggiormente si erano distinti nella guerra di liberazione.
Dal mese di aprile l’aeroporto di Tirana fu collegato con Bari per garantire il primo rientro in Italia di feriti e ammalati; a maggio iniziò il rimpatrio della Divisione “Gramsci”. A Durazzo, nelle vicinanze del porto, era stato appositamente istituito un Ufficio Imbarchi, alle dipendenze del magg. Bruno Brunetti, per gestire nel miglior modo possibile le operazioni. Il giorno prima dell’imbarco la Divisione sfilò per le vie di Durazzo. I primi ad essere rimpatriati furono i membri della Brigata Pignataro, comandata da Mario Fantacci, in due scaglioni assieme al Comando della Divisione, al Comando della Brigata Cardinali e alle due batterie di artiglieria (gli unici reparti ancora regolari della 9^ Armata, rimasti con propri ufficiali, divise e stendardo sino all’ultimo)[18]. Era il mattino del 3 maggio, il mare era calmo e la partenza fu disciplinata e ordinata, un esempio di dignità.
Tuttavia, all’arrivo, l’accoglienza che certamente aspettavano e meritavano, non la ricevettero. I battaglioni imbarcati per primi con il magg. Fantacci giunsero al porto di Brindisi, in vista del quale si disposero in armi sul bordo della nave per mostrare a tutti il loro valore, ma nessuno era lì ad attenderli. Dopo qualche ora, vennero fatti incolonnare e, con le bandiere, sfilare per una strada secondaria che conduceva ad un campo dove avrebbero dovuto sostare in isolamento, in attesa di accertamenti medici, perché sospettati di essere affetti da vaiolo. Più probabilmente l’intenzione dei Comandi italiani e alleati era quella di evitare di dare eccessiva visibilità a una Divisione che proveniva da un Paese che si era dato un provvisorio governo comunista, che portava il nome di Antonio Gramsci e che quindi non poteva che essere formata da elementi comunisti. Conclusione non aderente alla realtà, poiché nella Divisione erano confluiti ufficiali, sottufficiali e soldati provenienti dalle più diverse ideologie, accomunati dalla sola ferrea volontà di essere antifascisti e di voler combattere per la libertà dell’Albania, come dell’Italia. Vennero dunque tutti trasferiti al campo contumaciale di Sant’Andrea a Taranto, dove erano intanto giunti anche i restanti battaglioni della Brigata Pignataro e dove giungeranno successivamente anche tutti gli altri reparti della Divisione. Cedettero tutti le armi per ordine del Comando Militare Alleato e del Ministero della Guerra Italiano, restando fedeli al loro animo di militari che devono ubbidire agli ordini dei superiori.
La Divisione non venne inquadrata nel nuovo Esercito Italiano. Dopo la breve permanenza a Taranto, ogni soldato partì per la propria regione di provenienza dove, dopo una licenza di due mesi, avrebbero dovuto presentarsi ai Corpi di appartenenza.
Terminava così, nell’ombra, la storia degli uomini della “Gramsci” che tanta energia e tanto valore avevano dimostrato tra le montagne albanesi, combattendo per la libertà.
Conclusione
Nel maggio del 1945 erano ancora molti gli italiani che attendevano il rimpatrio. Se l’odissea degli uomini del “Gramsci” poteva dirsi terminata, così non era per tutti gli altri connazionali che dovettero trascorrere in Albania altri quattro mesi prima di poter rivedere le coste italiane.
Il generale Piccini restò a Tirana fino a quando, il 17 agosto 1945, giunse, su ordine del Ministero degli Esteri, la Missione Civile presieduta dal console generale Ugo Turcato, incaricata di mantenere rapporti diplomatici tra i due paesi in attesa di un ristabilimento delle relazioni. Incarico non facile data l’imminente divisione dei territori nelle due sfere di influenza che avrebbero caratterizzato la Guerra fredda e l’inevitabile schieramento dell’Albania al fianco delle forze sovietiche, in contrapposizione al blocco occidentale e dunque all’Italia stessa.
Dinamiche, dunque, complesse quelle interne all’Albania nella Seconda guerra mondiale, che rispecchiano la complessità delle vicende che hanno sconvolto l’intera Europa nel corso di pochi decenni. Un’occupazione italiana, un’invasione tedesca, una guerra e una resistenza. Una resistenza fatta non solo da albanesi ma anche da italiani e, soprattutto, non solo dagli uomini in armi del Battaglione Antonio Gramsci – distrutto, ricostruito e ampliato – ma anche da tutti i militari datisi alla montagna, dai civili e dagli internati che hanno opposto il loro netto rifiuto al nazifascismo.








[1] Dottoressa, ricercatrice, Istituto “Antonio Gramsci” Sez. di Bari
[2] Cfr. Massimo Coltrinari, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, Rivista Militare, 1999, pp. 142-146; Commissione Italiana di Storia Militare, L’Italia in guerra. Il quarto anno – 1943, Ministero della Difesa, Roma 1994, p. 191, allegato n. 14.
[3] Per una trattazione più dettagliata si veda: Massimo Coltrinari, La resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, pp. 27, 644-656, 681-758.
[4] Cfr. Arkivi Qendror I Shtetit, Fondi n. 177 “Brigada e Is e Ushtrise Nacional Clirimtare Shqiptare”, Lista n. 1, Viti 1943, Dosje n. 32.
[5] Cfr. Arkivi Qendror I Shtetit, Fondi n. 177 “Brigada e Is e Ushtrise Nacional Clirimtare Shqiptare”, Lista n. 1, Viti 1943, Dosje n. 32. L’artiglieria cui si fa riferimento in questo documento potrebbe essere identificata con le Batterie “Filippo Menegazzi” e “Filippo Cotta”, appartenenti al 41° reggimento artiglieria della Divisione “Firenze” (6^ e 9^ batteria) fino alla battaglia di Kruja (22-24 settembre 1943). Dal 9 ottobre, su indicazione del comandante Mehmet Shehu, a seguito di accordi intercorsi con il gen. Azzi, entrano a far parte dell’E.L.N.A. con la qualifica di “reparto dell’Esercito Italiano combattente al fianco dei partigiani albanesi” e partecipano alla guerra partigiana fino alla liberazione di Tirana. Il 30 settembre 1943 la 6^ batteria contava 160 uomini, 81 muli, 6 cavalli, 2 obici da 75/13, 1 mitragliatrice pesante e 180 colpi completi. Dal 3 al 10 ottobre partecipa con 2 ufficiali, 31 uomini e 26 muli al recupero di tre complessi da 75/13 e parecchie munizioni abbandonati presso Q. Shtames. L’11 ottobre il Comando albanese ritiene opportuno ridurre la consistenza della batteria in relazione alle possibilità logistiche. La batteria è ordinata su due pezzi con circa 100 uomini; anche la 9^ batteria è ridimensionata su un organico di 100 uomini. Cfr. Massimo Coltrinari, La resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, pp. 754-755, 786-789.
[6] Cfr. Arkivi Qendror I Shtetit, Fondi n. 177 “Brigada e Is e Ushtrise Nacional Clirimtare Shqiptare”, Lista n. 1, Viti 1944, Dosje n. 33.
[7] Gargnelutti è il cognome riportato nella versione italiana del Diario Storico Militare del “Gramsci” conservato nell’Archivio di Stato di Tirana (collocazione archivistica alla nota 5). Nello stesso dossier si trova la versione albanese dello stesso Diario che riporta il cognome Garneluti. Massimo Coltrinari ne La resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, p. 753 riporta il cognome Carnelutti. Nella medesima pagina viene indicato come commissario politico della 2^ compagnia Antonio Vescarella, mentre nel Diario dell’archivio di Tirana sia nella versione italiana che in quella albanese viene indicato Bonacchi Francesco.
[8] Cfr. Arkivi Qendror I Shtetit, Fondi n. 177 “Brigada e Is e Ushtrise Nacional Clirimtare Shqiptare”, Dosje n. 9 “I canti della Brigata Antonio Gramsci”.
[9] Per il rapporto tedesco si veda Massimo Coltrinari, La resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, p. 824-825; per il rapporto del ten. col. Curti, Ivi p. 822.
[10] Bruno Brunetti, Da oppressori a combattenti per la libertà – Gli italiani della Divisione “Antonio Gramsci” nella lotta di liberazione del popolo albanese, Istituto Storico della Resistenza, Lucca 1972, p. 72.
[11] Cfr. Cfr. Arkivi Qendror I Shtetit, Fondi n. 177 “Brigada e Is e Ushtrise Nacional Clirimtare Shqiptare”, Lista n. 1, Viti 1944, Dosje n. 65.
[12] Cfr. Cfr. Arkivi Qendror I Shtetit, Fondi n. 177 “Brigada e Is e Ushtrise Nacional Clirimtare Shqiptare”, Lista n. 1, Viti 1944, Dosje n. 2
[13] Cfr. Cfr. Arkivi Qendror I Shtetit, Fondi n. 177 “Brigada e Is e Ushtrise Nacional Clirimtare Shqiptare”, Lista n. 1, Viti 1944, Dosje n. 33.
[14] Cfr. Mario Fantacci, L’Armistizio e la mia partecipazione alla guerra di liberazione in Albania, in B. D. Maraldi, R. Pieri (a cura di), Lotta armata e resistenza delle Forza Armate italiane all’estero, Franco Angeli, 1990, pp. 162-163.
[15] Per una trattazione più dettagliata si veda Massimo Coltrinari, La resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, pp. 948-952.
[16] Il rientro in armi come “riconoscimento dell’attività svolta” è in realtà l’esito finale di una trattativa che in un primo momento vedeva l’E.L.N.A. propensa al disarmo, sia per necessità propria di mantenere armi, sia perché certi che la brigata sarebbe stata disarmata una volta giunta in Italia. Gli uomini della “Gramsci” si opposero fermamente a questa ipotesi nella convinzione che, invece, al rientro sarebbero stati inquadrati nell’Esercito Italiano, facendo leva sui discorsi dell’on. Palermo e del gen. Enver Hoxha che li aveva incoraggiati affinchè continuassero la loro battaglia in patria per eliminare ogni residuo di fascismo. Il testo del discorso di Enver Hoxha venne riportato su l’”Unione”, Organo del Circolo Democratico Italiano “G. Garibaldi”, Anno I, N. 10, 20 maggio 1945 (Cfr. Arkivi Qendror I Shtetit, Fondi n. 177 “Brigada e Is e Ushtrise Nacional Clirimtare Shqiptare”, Lista n. 2, Viti 1945, Dosje n. 4).
[17] Cfr. Mario Fantacci, L’Armistizio e la mia partecipazione alla guerra di liberazione in Albania, p. 163; Massimo Coltrinari, La resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, p. 962.
[18] Ivi, p. 167; Ivi, p. 982.

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