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domenica 31 ottobre 2021

Seconda Guerra Mondiale. Le Grandi Battaglie

 La battaglia di Iwo Jima

 

di Anastasia Latini

 

Mentre in Europa l’inizio del 1945 segnava il tramonto del Terzo Reich, la battaglia ancora infuriava nell’Oceano Pacifico e gli Stati Uniti stentavano a piegare la resistenza giapponese.

Una battaglia che per molti aspetti segnò il passo fu quella combattuta sull’isola di Iwo Jima, il cui esito fu immortalato dalla celebre foto Raising the Flag on Iwo Jima scattata da Joe Rosenthal che gli valse il Premio Pulitzer e che divenne una delle immagini più rappresentative della seconda guerra mondiale.

Iwo Jima è un’isola appartenente all’arcipelago Volcano, all’epoca abitata da circa 1.200 persone, tutte evacuate per renderla una roccaforte della difesa giapponese dopo l’arretramento del fronte, dovuto alla pressione degli americani sugli arcipelaghi occupati. 

Iwo Jima era un obiettivo strategico fondamentale per gli Stati Uniti che si preparavano ad un’invasione del territorio nazionale giapponese: l’isola faceva parte della sottoprefettura di Ogasawara che a sua volta era parte dell’amministrazione metropolitana di Tokyo, e la sua occupazione avrebbe procurato uno shock psicologico notevole ai giapponesi.

Altre motivazioni risiedevano nella sua posizione: era ad una distanza dalla capitale che permetteva di inviarvi gli aerei bombardieri B-29 con la scorta dei caccia North American P-51 Mustang, una scelta necessaria visto che questi ultimi avevano bisogno di una base di rifornimento   in prossimità dell’obiettivo da raggiungere, e facendone a meno i caccia giapponesi a difesa del territorio nipponico avrebbero costretto i Superfortess a volare a quote molto elevate, rendendo impreciso il bombardamento.

Il problema del rifornimento è stato centrale nella scelta di occupare Iwo Jima, che poteva diventare una base intermedia perfetta per il rifornimento dei B-59 di stanza nelle isole Marianne, così che fossero in grado di caricare più del doppio delle bombe, alleggeriti da meno carburante e che in caso fossero stati colpiti potevano atterrarvi senza dover attraversare un tratto consistente di oceano.

I giapponesi avevano dotato infine l’isola di due aeroporti, Motoyama 1 e 2, mentre un terzo era in costruzione e venne in seguito completato proprio dalle forze statunitensi che così potevano contare di un’isola fortificata e dotata di uno snodo aereo in pieno territorio nemico.

Nel giugno del 1944 la difesa di Iwo Jima veniva affidata al generale Tadamichi Kuribayashi che doveva prepararsi a difenderla senza la possibilità di ricevere rinforzi in caso di attacco.

Da circa 5.000 uomini si arrivò ad una guarnigione di 22.000 soldati, supportati da un consistente numero di cannoni antiaerei e anticarro, carri armati 97/Chi Ha e 95/Ha Go e mortai di ogni tipo.

Il vero capolavoro della difesa dell’isola tuttavia era la rete di tunnel e postazioni sotterranee che il generale Kuribayashi fece costruire: 18 km di gallerie rese possibili dalla conformazione vulcanica del terreno, che ne rese d’altro canto difficoltosa la costruzione a causa dei vapori sulfurei che si sprigionavano durante gli scavi.

La struttura sotterranea collegava bunker, casematte, trincee coperte e artiglierie, il tutto protetto da cemento armato e porte blindate e reso pressoché invisibile alle forze di invasione.

Questo fu il motivo che spinse i giapponesi a difesa dell’isola a non contrattaccare al consueto bombardamento che precedeva lo sbarco, cosicché le postazioni degli artiglieri rimanessero celate fino all’inizio della battaglia.

L’esercito nipponico poteva contare sulla preparazione e la superiorità strategica contro un nemico che aveva dalla sua possibilità di rifornimento quasi infinite e un maggior numero di uomini e mezzi da usare per la conquista dell’avamposto.

Kuribayashi sfruttò le ridotte dimensioni dell’isola, che ha un’area di 20 km², una lunghezza di 8 km e una larghezza di soli 730 m, predisponendo la divisione in tre settori di difesa: l’estremità meridionale in cui si trova il monte Suribachi, dotato di postazioni fortificate, collegato alla parte settentrionale da uno stretto istmo affidato alla fanteria, e infine le colline al centro e al nord dove si concentrava il maggior numero di soldati, chiamato Meat Grinder (tritacarne).

La battaglia come previsto venne anticipata da un violento bombardamento americano iniziato l’8 dicembre 1944 che proseguì in crescendo fino al giorno dello sbarco, procurando comunque pochi danni all’organizzata rete di protezione giapponese benché sia stato il più intenso e lungo operato dalla U.S. Navy in tutta la guerra.

Il piano difensivo di Kuribayashi prevedeva di iniziare l’azione contro gli invasori non sulla spiaggia, ma lungo l’area dove si trovavano le principali opere di difesa, carri armati, casematte e postazioni di artiglieria.

Il 19 febbraio i marines della IV e V Divisione (con la III nelle retrovie) sbarcarono sull’isola, preceduti da intensi bombardamenti di sei corazzate e cinque incrociatori della Marina e 120 aerei Vought e Curtiss, che disseminarono l’isola di bombe per ore prima che venisse dato il via libera alle truppe di terra.

Un errore dei giapponesi fu nella tempistica, infatti si diede il tempo ai marines di portare sull’isola tutto il necessario per costruire una testa di ponte in grado di assicurare il rifornimento di uomini e mezzi; nonostante la perfetta coordinazione del fuoco incrociato giapponese, sarebbe stato impossibile cacciare indietro gli americani.

Il 23 febbraio il monte Suribachi e l’aeroporto Motoyama 1 erano caduti, grazie all’uso dei lanciafiamme e dei carri armati Sherman dotati di questa arma che neutralizzò gli attacchi delle artiglierie sotterranee dei giapponesi, provati già da pesanti perdite dei primi giorni della battaglia.

Dal quinto giorno l’offensiva statunitense si concentrò nella zona centrale, la cosiddetta Meat Grinder, una delle maggiormente difese e che non si prestavano ad un uso efficiente dei carri dato il terreno roccioso.

Dopo un avanzamento a colpi di bombe a mano e lanciafiamme per contrastare gli attacchi dalla rete sotterranea giapponese, i difensori uscirono allo scoperto lanciandosi in un corpo a corpo tra i più sanguinosi del conflitto che si prolungò fino al 10 marzo.

Costretti a ripiegare lungo la costa nord-orientale, i giapponesi sferrarono un attacco kamikaze a discapito del parere contrario del generale Kuribayashi, che causò ulteriori perdite alle poche forze nipponiche rimaste, le quali si disgregarono definitivamente nell’ultima fase della battaglia.

Il 26 marzo le truppe giapponesi avevano capitolato e Kuribayashi era morto insieme alla maggior parte dei suoi soldati, su circa 22.000 uomini posti a difesa di Iwo Jima i morti erano superiori ai 18.000, mentre dalla parte statunitense si attestavano intorno ai 6.000, più l’affondamento della portaerei Bismarck Sea ad opera di un attacco kamikaze.

L’Operation Detachment (Operazione Distacco) era durata 35 giorni, impegnando 70.000 soldati americani di cui 30.000 sul campo di battaglia, in uno scontro frontale senza tregua tipico più del primo conflitto mondiale che del secondo.

Alla fine non bastò larte bellica e la volontà ferrea di morire per la difesa della propria patria ai giapponesi per battere un nemico in grado di schierare risorse materiali e supporto di navi e aerei enormemente maggiori in quella che è stata una delle battaglie

mercoledì 20 ottobre 2021

Le operazioni alleate nel giugno 1944

 


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Il 7 giugno 1944 il Maresciallo Alexander diramò un piano operativo che doveva accelerare l’inseguimento delle forze tedesche in ritirata verso nord. Unità della VIII Armata britannica dovevano raggiungere la zona di Firenze-Bibiena-Arezzo, utilizzando le direttrici rappresentate dalle strade statali n. 3 e n. 4. Unità della V Armata statunitense dovevano raggiungere la zona Pisa-Lucca–Pistoia, utilizzando le direttrici rappresentate dalle strade statali n. 1 e n. 2. Il V Corpo d’Armata britannico non doveva spingersi troppo avanti e non accelerare la ritirata tedesca, in modo da economizzare al massimo gli equipaggiamenti da ponte e, in generale, i mezzi da trasporto, che necessitavano in modo urgente alla V ed alla VIII Armata nel settore tirrenico. Il piano prevedeva anche, come ipotesi operativa, che se l’avanzata generale ad ovest degli Appennini non avesse persuaso i Tedeschi ad abbandonare Ancona volontariamente, il II Corpo d’Armata Polacco sarebbe stato portato avanti oltre le principali linee di avanzata della VIII Armata ad ovest degli Appennini ed avrebbe attaccato la piazzaforte dorica da ovest.

Fino al 15 giugno 1944 l’avanzata alleata fu veloce e promettente, poi la resistenza tedesca si irrigidì sempre più. Il 20 giugno le due Armate alleate erano di fronte alla principale linea di resistenza tedesca, la linea del Trasimeno, che nelle intenzioni germaniche doveva proteggere i porti di Ancona e di Livorno e fungere da antemurale alla linea posta sui crinali degli Appennini, che poi diverrà famosa con il nome di “Linea dei Goti” o “Linea Gotica”. Mentre queste operazioni erano in atto sul terreno, fra gli Stati Maggiori Statunitense e Britannico iniziò il dibattito su che cosa fare nell’immediato futuro, dibattito che vale la pena di vedere più da vicino in quanto direttamente incidente sulle vicende del Corpo Italiano di Liberazione e la sua azione nelle Marche.

 

domenica 10 ottobre 2021

Gli Alleati e la popolazione italiana

 

La popolazione  italiana ha sempre accolto, dal settembre 1943 alla fine della guerra, le truppe alleate, a prescindere dalla loro appartenenza, con ammirazione ed entusiasmo, vedendo il loro arrivo come la fine di un incubo e l’inizio di un periodo di vita materiale e morale, migliore.

La convinzione di tutti gli Italiani, a quel tempo, era che la alleanza delle Nazioni Uniti, gli Alleati come venivano chiamati,  era solida, granitica, potente, invincibile.

In realtà, al vertice della organizzazione militare alleata, sul piano strategico, dalla fine della conquista della Sicilia e per tutta la durata della Campagna d’Italia, esistettero tra Statunitensi e Britannici profonde divergenze in tema strategico, ovvero come condurre la guerra in Europa e, conseguentemente , in Italia.

Queste divergenze portarono a dolorose e significative sconfitte sul piano strettamente tattico, come l’arresto della offensiva sul Sangro, le prime tre battaglie per Cassino, e lo sbarco sul litoraneo pontino, solo per citare quelle dell’autunno 1943 – primavera 1944.[1]

Nel maggio-giugno 1944, superato l’ostacolo di Cassino e conquistata Roma, mentre le truppe alleate sbarcavano in Normandia, le divergenze strategiche in Italia fra Statunitensi e Britannici, molto gravi fino a quel momento, raggiunsero il massimo. Il pomo della discordia consisteva nella attuazione, o meno, della operazione “Anvil”, ovvero lo sbarco nel sud della Francia, in sostegno e supporto a quello che era già stato effettuato con successo in Normandia. Per “Anvil” i quesiti a cui si doveva rispondere erano:  deciso lo sbarco, quante forze vi si dovevano impiegare? Da dove si dovevano prendere queste forze? Chi avrebbe alimentato le successive operazioni di penetrazione in profondità? La risposta a questi interrogativi non facevano che acuire i contrasti fra i due Stati Maggiori, contrasti che erano la diretta conseguenza delle differenti vedute strategiche tra gli  Alleati.

Gli Statunitensi, un volta che l’Italia era stata sconfitta e costretta ad uscire dalla guerra, settembre 1943, e resisi gli Alleati padroni delle rotte del Mediterraneo, non ritenevano utile impegnare ulteriori forze nel scacchiere italiano. Essi rimanevano, in tema di strategia, fermi alla loro convinzione che, per conseguire la vittoria finale, ci si doveva concentrare sull’obiettivo principale, perseguirlo con il massimo della concentrazione degli sforzi nel momento e nel punto decisivo, limitando al massimo, se non per operazioni diversive, di inganno e sussidiarie, ogni operazione su obiettivi collaterali. Questa strategia era direttamente discendente dalla loro politica che voleva essere distante da quello che loro consideravano antiquati poteri politici europei e vedevano con diffidenza e circospezione il colonialismo britannico in tutte le sue forme. In più non volevano essere coinvolti in operazioni nel centro Europa né tantomeno nell’Europa Orientale, impegno che consideravano solo un sperpero di risorse e di vite umane. Il loro desiderio era quello di terminare il più velocemente possibile la guerra in Europa e concentrarsi totalmente contro il Giappone.

I Britannici, di contro, adottavano anche in questa guerra la loro tradizionale strategia indiretta e pragmatica, ovvero, per le operazioni terrestri, la strategia del Debole verso il Forte. Era una strategia che aveva dato, al momento in cui la Gran Bretagna era stata chiamata a combattere potenze continentali, copiosi frutti, primi fra tutti la vittoria su Napoleone un secolo mezzo prima. Partendo dal principio che la Gran Bretagna non aveva forze terrestri paragonabili a quelle della Germania, la Gran Bretagna riteneva necessario ed utile attaccare la periferia della potenza nemica, cioè tedesca, cercare di creare discordie fra la coalizione nemica (l’Asse italo-tedesco), porre il blocco navale[2] ed attenderne gli effetti; intensificare i bombardamenti aerei, minare il fronte interno nemico, evitare ogni scontro diretto di vaste proporzioni in cui si sarebbero arrischiate le relativamente poche forze terrestri; tutto in attesa di assestare, al momento e luogo opportuno, il colpo risolutivo finale, che avrebbe dato la vittoria. Questa strategia era anche in gran parte giustificata dal ricordo ancora vivissimo della carneficina della Prima Guerra Mondiale, il cui solo pensiero faceva abortire ogni progetto di attacco diretto.

Con l’uscita dell’Italia dalla guerra, e severamente impegnata dalla Unione Sovietica, la Germania stava iniziando a cedere; basta attendere il momento opportuno e la vittoria sarebbe stata conseguita. Non erano necessari sbarchi in Francia: tutte le forze dovevano essere tenute in Italia, da cui, crollata la Germania, sarebbero state indirizzate su Vienna ed il centro Europa a fermare e contrastare l’avanzata sovietica.

Lo scontro tra queste due opposte visioni strategiche era costante. Nel giugno 1944, quando conquistata e superata Roma, e le truppe Alleate entravano nelle Marche, si avvicinava sempre più il momento di decidere. I termini del problema strategico-operativo erano chiari: o proseguire speditamente verso Nord e, superati gli Appennini, arrivare alle Alpi, avendo conquistato la Pianura Padana, oppure destinare le migliore forze presenti in Italia alla operazione “Anvil”, cioè lo sbarco in Provenza, sottraendole naturalmente al fronte italiano. La disputa su questi termini, aggravata dal fatto che le forze sottratte al fronte italiano dovevano essere sostituite e si balenava quello che i Britannici non volevano nemmeno prendere in considerazione, ovvero armare ed equipaggiare forze italiane, alterava ed avvelenava tutti i rapporti fra Alleati. La disputa su questa questione e le decisioni conseguenti avrebbero condizionato le operazioni in Italia nell’estate 1944 ed anche dopo.[3]



[1] Questi temi sono stati dibattuti al convegno “Gli Alleati da Salerno ad Anzio” tenutosi il 24 gennaio 2004 alla sala delle Conchiglie di Villa Adele ad Anzio organizzato dalla Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione (A.N.R.P., coordinato e presieduto dal Prof. Enzo Orlanducci.)

[2] In campo marittimo la Gran Bretagna attuava la strategia del Forte verso il Debole, con l’obiettivo finale quello di “strangolare” la potenza continentale, privandola di ogni aiuto esterno. Questa strategia, nel 1943, stava per essere messa fortemente in crisi dall’azione dell’arma sottomarina tedesca, a un passo dal divenire vincitrice della Battaglia dell’Atlantico. La Gran Bretagna, senza gli aiuti statunitensi e quelli provenienti dal resto dell’Impero, aveva risorse per poco più di un mese di sopravvivenza.

[3] Il famoso e quanto mai discutibile messaggio del Comandante in Capo del XV Gruppo di Armate in Italia, Maresciallo Alexander al movimento di Resistenza nel Nord Italia nell’autunno 1944 con il quale si invitavano i “Partigiani”alla stasi invernale, ovvero a deporre le armi e ritornare a casa, ha le sue lontani e chiare origini da queste discussioni.