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lunedì 19 gennaio 2009

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO
FACOLTÀ DI MAGISTERO CORSO DI LAUREA IN SOCIOLOGIA
Tesi di laurea: MONTELUNGO 1943
UNA PAGINA DI CRONACA NELLA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE
Laureando: STELIO TOFONE RELATORE Chiar. Prof. ENZO SANTARELLI
Anno accademico 1975-1976

CAPITOLO III
LE CONDIZIONI INTERNAZIONALI DELL’ITALIA

L’8 settembre e la fuga di Pescara
L’Italia logorata da oltre tre anni di lotta dei suoi soldati contro un nemico superiore in forze e mezzi, ed in territori lontani dalla Patria, soggetta a gravissime privazioni nella stessa vita dei suoi cittadini, bombardata indiscriminatamente, pressoché distrutta nelle sue fonti di energia e di vita, nelle sue città, nelle sue comunicazioni, nelle sue officine e nei suoi campi, venne a trovarsi nella condizione di non poter proseguire la lotta, del resto senza speranza e senza meta, alla quale era stata trascinata da poco serene valutazioni.
Si indusse perciò a chiedere un armistizio ai suoi avversari, anche a prezzo di clausole e di condizioni durissime, che, al suo improvviso annuncio, provocò in tutta la nazione e particolarmente nelle forze armate, sole a sostenere il peso delle reazioni dell’ex alleato, una grave crisi, poste come furono dinnanzi ad una aggressione preordinata in ogni particolare e che si manifestò subito decisa, fulminea, ben coordinata in tutti i teatri operativi.
Vi furono, naturalmente, come vi sono sempre state in qualsiasi difficile periodo storico di ogni paese, deficienze, incertezze ed anche errori, tentennamenti e sospetti, che determinarono equivoci irrimediabili, da ambo le parti; ma sugli avvenimenti pesarono fortemente l’incomprensione, la sfiducia degli Anglo-Americani e la svalutazione del fattivo contributo che le forze italiane avrebbero voluto e potuto dare nell’ulteriore lotta per la Liberazione della Patria.
La situazione prearmistiziale italiana era veramente caotica e lo stesso generale Zanussi, uomo ombra del generale Ambrosio, così la descrive: “…. La disorganizzazione crescente e, da Napoli in giù, veramente apocalittica, dei trasporti; una produzione industriale che stava scendendo al più basso livello, una macchina statale che sbandava da tutte le parti e si distaccava sempre più dal Paese; un Paese tutto fremiti di ribellione e fermenti di aspirazioni inespresse”[1].
Alle ore 18,15 dell’8 settembre veniva convocato, d’urgenza, un consiglio al Viminale ove parteciparono, oltre a Badoglio ed al generale Ambrosio, anche il ministro degli Esteri Guariglia, il ministro della guerra Sorice, il generale Roatta, l’ammiraglio De Courten, Capo di Stato Maggiore della marina, e Sandalli, Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica.
Alcuni dei presenti venivano a sapere, per la prima volta, che dal 3 settembre era stato firmato un armistizio fra l’Italia e gli Alleati.
Nulla era stato fatto per parare le inevitabili reazioni dell’alleato e tanto meno erano state adottate quelle indispensabili misure militari destinate a salvare la macchina bellica italiana dal dissolvimento. Molti erano quelli che seguivano la chimera di un immediato o comunque subitaneo abbandono dell’Italia da parte delle truppe tedesche per ritirarsi al di là delle Alpi, lasciandoci al nostro destino.
Si finirà invece per attribuire la colpa degli avvenimenti che seguirono alla “immediata reazione delle forze tedesche, che, già raccolte in posizioni favorevoli, avevano sopraffatto le forze italiane sorprendendole mentre erano ancora frazionate per ESIGENZE DI MANOVRA”.
Questa espressione, “esigenze di manovra”, è un semplice capolavoro, dato che deve intendersi, nel caos dei comandi e dell’atmosfera del “SI SALVI CHI PUO’”, una realtà assai facilmente immaginabile e più volte descritta[2].
Fin dal 15 agosto si era arrivati all’elaborazione di un promemoria che avrebbe dovuto costituire il nocciolo della memoria OP 44 destinata ad impartire istruzioni ai comandi sottoposti alle pressioni germaniche. Vi si diceva, nel promemoria, che bisognava aspettarsi da un momento all’altro l’aggressione tedesca e che occorreva adottare ogni misura intesa a mettersi in condizioni di resistere.
La memoria OP 44 non giunse mai ai comandi più interessati.
Già la sera dell’8 settembre si trovavano dislocate nella penisola Italiana 17 divisioni tedesche delle quali 8 di fanteria, 7 corazzate o motocorazzate e due paracadutisti. Oltre ciò, c’erano, sparpagliati nei punti nevralgici, elementi non divisionati dai compiti più vari e dalle funzioni più diverse. Uomini della marina, dell’aviazione, delle batterie contraeree e costiere, dei comandi di presidio, di tappa, di base, dei centri di addestramento, oltre agli addetti ai depositi ed ai servizi vari: tutta gente che agiva alla chetichella, in modo efficace, con sincronismo alle direttive generali. In Puglia, per esempio, i campi di aviazione non avevano più un solo apparecchio, ma conservavano migliaia di uomini della Luftwaffe.
In quello stesso momento quasi tutte le forze italiane di una certa consistenza si trovavano al di fuori dei confini nazionali: ben strana situazione per una nazione che intendesse dichiarare un armistizio o, peggio ancora, lo avesse appena annunciato alla radio all’insaputa delle proprie truppe.
In Italia molti reparti versavano in uno stato di precarietà notevole, mancavano gli uomini, le armi e gli adeguati mezzi di trasporto.
Gli Alleati rimasero sconcertati dal nostro atteggiamento di difesa, dal voler ritardare ad ogni costo la proclamazione dell’armistizio e della mancata predisposizione di un piano per fronteggiare la situazione dopo la proclamazione dell’armistizio.
Ad un comportamento ambiguo degli Italiani si aggiunse una reazione tedesca rabbiosa e vendicativa.
In quel momento tutta la nazione si trovava in una vera crisi di “ASPETTAZIONE”.
L’annuncio dell’armistizio aveva provocato, in tale atmosfera, un vero collasso; un crollo delle coscienze ed un disgregarsi degli istituti in quanto era venuto a mancare del tutto il potere decisionale di chi di dovere.
I capi fuggono da Roma e lo stesso generale ZANUSSI lo descrive: “…… qualche soldato, fermo sui marciapiedi davanti agli edifici del ministero e dello stato maggiore, saluta; ma altri, i più, restano come sono, berretto di traverso, viso torvo, e mani in tasca. Annusano la fuga dei capi …”[3].
In queste parole c’è tutta la realtà di come fu abbandonato il soldato italiano; solo pochissimi, in quel caos, riusciranno a conservare una parvenza di disciplina e di dignità umana.
Anziché provvedere ad una adeguata difesa di Roma, che era stata addirittura programmata dagli Alleati con il lancio di una divisione aviotrasportata e paracadutista, ed insorgere contro i Tedeschi con a capo di tutto il popolo il re coadiuvato dal suo stato maggiore, questi si preoccuparono di abbandonare Roma per non far cadere in mano Tedesca il re ed il principe ereditario affinché non potessero essere costretti a ritrattare l’armistizio già proclamato e quindi in vigore.
Ottimo fu il pretesto che addussero i più per fuggire, in borghese dato che non avevano avuto il tempo di indossare la divisa, e l’unica preoccupazione fu quella di trovare la strada più sicura per giungere in siti più tranquilli.
Dato lo stato delle comunicazioni ferroviarie e stradali dell’Italia a sud di Battipaglia e Foggia si pensa di andare a Pescara e da qui raggiungere in aereo Gioia del Colle. L’incertezza di sapere preventivamente se l’aeroporto sarà libero o meno al momento dell’atterraggio fa cambiare il programma e fa decidere per i mezzi navali.
Immediatamente vengono fatte dirottare su Pescara ed Ortona la corvetta “Baionetta” e l’incrociatore “Scipione l’Africano”.
È così che dopo aver abbandonato Roma il re, lo stato maggiore ed il comando supremo si rifugiano a Brindisi, estremo lembo dell’Italia del Sud, ove inizieranno ad operare immediatamente per la continuazione di quel sistema di governo che ci aveva portato a quell’8 settembre del 1943 e ad una resa incondizionata.
Le condizioni armistiziali e il governo BADOGLIO.
Dal discorso del Maresciallo BADOGLIO agli ufficiali del presidio di Brindisi il 25 settembre 1943: “….. ho chiesto l’onore che parte delle nostre truppe, compatibilmente con i mezzi di cui disponiamo, partecipino alle operazioni e sono sicuro che quelli che saranno scelti terranno alto il nome Italiano”[4].
Con queste parole si voleva forse cancellare il trauma riportato dalla nazione alla notizia inaspettata dell’armistizio che originò un caos enorme sia sul territorio metropolitano che nelle zone ove si trovavano le nostre truppe.
L’annuncio dato da radio Roma il pomeriggio del giorno 8 settembre suscitò grande sorpresa e mentre alcuni reagivano con esplosioni di gioia, la massa si chiedeva: “come opporsi ad atto ostile da qualsiasi parte venga quando si è decisamente in condizioni di netta inferiorità rispetto agli altri?”[5].
A questo interrogativo se ne aggiunsero altri: quale sarà la reazione dell’alleato-nemico nell’apprendere la notizia già prevista e per la quale aveva intensificato l’afflusso delle due unità in Italia e fuori ove doveva sostituire, nella prima quindicina di settembre, i presidi Italiani? Come si comporteranno le nostre truppe stanche e sfiduciate per una guerra non sentita a fianco di chi per un secolo è stato il nostro odiato nemico? Le risposte vennero date rapidamente una dopo l’altra. Molte Grandi Unità dell’esercito si sciolsero come neve al sole. Ognuno cercò di “arrangiarsi” come meglio poté. L’alleato-nemico reagì con metodi decisi e senza pietà.
Un ordine dato da un comandante di armata diceva: “opporsi senza spargimento di sangue”[6].
Come era possibile che si potesse eseguire un tale ordine quando le truppe italiane, dislocate fuori del territorio nazionale, erano circondate da Tedeschi, partigiani e popolazioni ostili?
Moltissimi furono per lo sbandamento, pochi per la continuazione della guerra con i partigiani fuori del territorio nazionale, pochissimi per la guerra a fianco degli Alleati.
Non era facile chiedere alla massa degli sbandati riuniti nei campi di Lecce, Maglie e Galatina se avessero ancora voglia di combattere dopo i cinque anni di lotta e le tante peripezie passate per cui ai più sembrava ancora strano l’essere sopravvissuti.
Non era facile convincere, uomini, illusi e traditi da altri uomini e dalla sorte, che le dure condizioni imposteci sarebbero state mitigate in base al nostro apporto alla causa alleata.
Occorreva superare molti ostacoli, opposti dagli Alleati per l’allestimento di una Grande Unità; dall’atteggiamento dei capi verso chi si doveva accollare il compito di costituire, addestrare e portare al combattimento nuove Unità; dal dubbio di molti sul comportamento dei “pochissimi”, sul loro stato d’animo in quanto avevano le famiglie in territorio occupato dal nemico e ne temevano le rappresaglie.
Oltre ciò la lungaggine dei Ministeri che, pur ridotti ai minimi termini, facevano a gara per sfoggiare la loro proverbiale burocrazia ferruginosa.
Ai soldati dubbiosi, privi di notizie, incerti sul domani era difficile chiedere di cooperare con chi aveva imposto la resa incondizionata; nessuna parola o atto serviva a convincerli, solo il richiamo dei cari e lontani poteva allettarli.
Le migliaia di sbandati del Sud, coloro che “gettarono la divisa alle ortiche” e tutti coloro che “nel caos pescheranno nel torbido”, non sono più soldati; è gente a cui hanno fatto perdere ogni fiducia, ogni rispetto e non ha più voglia di rimettersi a combattere. E poi combattere per chi? Con il rischio di morire quando ormai tutto è dissoluzione.
Con il passare del tempo quegli uomini, che erano ad un livello appena superiore a quello di prigionieri di guerra, riuniti in un pittoresco disordine nella zona più periferica d’Italia, daranno vita ad una compagine che finirà per risalire l’intera penisola e che simboleggerà la volontà di rinascita dell’esercito Italiano.
Non era della stessa idea la propaganda repubblicana del Nord che chiamava i soldati del regno del Sud un “branco di straccioni, gente venduta all’invasore, ausiliari per bassi servizi di retrovia”.
Molti uomini, che erano tra quelli maggiormente desiderosi di combattere, di farsi innanzi, di contribuire a una rapida conclusione della guerra, nutrivano fiducia ed anelavano di raggiungere il Nord dove avevano le famiglie.
La Conferenza di Mosca e l’antifascismo.
La Conferenza si protasse dal 18 al 30 ottobre 1943 e, tra le altre decisioni prese, fu confermato il principio della resa incondizionata da imporsi ai vinti; si previde per il dopoguerra, un ampio sistema di sicurezza collettiva e di garanzia internazionale
Per il mantenimento della pace, e la costituzione di una commissione consultiva europea, con sede a Londra, la quale avrebbe dovuto assistere, con il suo consiglio, i tre governi – Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia – sui problemi inerenti alla loro collaborazione. Fu annunziato, altresì, che uno degli scopi di guerra delle Potenze Alleate era l’indipendenza dell’Austria.
La Conferenza si occupò con una certa ampiezza, anche, dei problemi riguardanti l’Italia e la particolare sua condizione politica di quel momento. Si riconobbe, così, che, pur restando intangibile l’assoluto diritto del popolo italiano a darsi le forme costituzionali che meglio desiderasse, fosse, per intanto, necessaria la costituzione di un governo più democratico, che restituisse la libertà civile, di parola, di culto, di opinione pubblica, di stampa e di pubblica riunione e rilasciasse tutti i prigionieri politici del regime fascista.
Avrebbero dovuto, inoltre, essere soppresse le residue istituzioni ed organizzazioni fasciste, rimossi dalle pubbliche amministrazioni tutti gli elementi fascisti e filofascisti, arrestati e consegnati alla giustizia i capi fascisti ed i generali conosciuti e sospettati quali “criminali di guerra”.
Il momento di dare esecuzione agli anzidetti principi sarebbe stato determinato dal Comandante in Capo Alleato in Italia; frattanto si sarebbe costituita una Commissione consultiva Alleata per gli affari Italiani, della quale sarebbero entrati a far parte, oltre i rappresentanti dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, della Russia e della Francia, anche i rappresentanti della Grecia e della Jugoslavia. Il giorno stesso in cui venivano annunziate le conclusioni della Conferenza di Mosca, il governo Italiano presieduto dal maresciallo Badoglio, il quale aveva già adottato tutta una serie di provvedimenti contro le sopravvissute istituzioni del regime fascista (scioglimento della milizia volontaria, della gioventù Italiana del littorio, della milizia Universitaria ecc., incorporamento degli agenti di P.S. nelle forze armate dello Stato; istituzione di una commissione speciale per l’accertamento del rapido accrescimento dei beni ausiliari ed immobiliari di personalità del regime fascista e devoluzione allo Stato di tali beni se risultanti illecitamente acquistati; inizio di studi diretti ad eliminare dai codici civile e penale italiani le disposizioni non rispondenti alle tradizioni giuridiche e spirituali della nazione ecc.), ripristinava la libertà di stampa e di propaganda per tutti i partiti politici.
Alla metà di novembre 1943 il maresciallo Badoglio costituì il suo secondo gabinetto di carattere tecnico, come il primo, rimandando almeno nelle sue intenzioni, a dopo la liberazione di Roma la costituzione di un vero e proprio ministero politico con rappresentanti di tutti i partiti.
Le decisioni Alleate della Conferenza di Mosca erano già in mente degli stessi Alleati da lungo tempo, infatti il 6 gennaio 1943 in un suo messaggio al Congresso, il Presidente Roosevelt dichiarava: “….. Io non posso essere profeta e non posso perciò dirvi dove e quando le Nazioni Unite assesteranno il loro prossimo colpo in Europa; ma certo è che colpiranno e forte …. I nostri progressi in questa guerra dipendono dai progressi della nostra produzione ….. Mentre noi compiamo miracoli nel campo produttivo, le nostre armate passavano da due a sette milioni di uomini…. La Germania, l’Italia ed il Giappone debbono essere e rimanere disarmati, e dovranno rinunciare a quelle dottrine che hanno causato al Mondo tanti dolori”[7].
Il 27 gennaio 1943 si era chiusa la serie dei colloqui di Casablanca, durata 10 giorni, tra Roosevelt e Churchill e tutti i maggiori capi militari dell’Africa settentrionale e Medio Oriente. Questa conferenza di Casablanca, secondo dichiarazioni dello stesso Presidente statunitense, ebbe “un’importanza decisiva per la condotta della guerra”. Essa segnò, veramente, una tappa conclusiva nel corso degli avvenimenti politici e militari, con la proclamazione della formula risolutiva della guerra, della quale l’Italia doveva fare la prima, dura esperienza: ”resa incondizionata o distruzione del Paese”.
La dichiarazione di guerra alla Germania.
Da parte delle nostre autorità nessuna occasione fu tralasciata per continuare ad insistere, con gli alleati, per una nostra partecipazione attiva alla guerra di Liberazione e così, quando il 13 ottobre 1943 il governo italiano dichiarò guerra alla Germania, il Maresciallo Badoglio ne approfittò per scrivere ancora al generale Eisenhower: “Ora che l’Italia ha dichiarato la guerra alla Germania se si vuole che questo sia qualcosa di più di un vero gesto platonico, è necessario che Voi prendiate in considerazione le mie richiesta, così che noi siamo posti in grado di rendere la massima possibile collaborazione alle forze sotto il Vostro comando. Voi mi avete scritto che l’eventuale miglioramento delle condizioni d’armistizio dipenderà dall’opera del governo italiano. Ma se Voi non mi aiutate, io non potrò che esplicare che buona volontà”.
Gli alleati tenevano molto alla nostra dichiarazione di guerra alla Germania tanto che avevano precisato, per mezzo del generale Mac Farlane, della Missione militare alleata presso il governo italiano, che “lo stato di cobelligeranza dell’Italia sarebbe stato riconosciuto dopo che questa avesse dichiarato guerra alla Germania”[8].
I nostri stati maggiori continuavano l’opera di riorganizzazione delle nostre forze; si cercava di attuare un programma massimo, con la speranza che gli alleati consentissero una partecipazione su ampia scala alle nostre forze armate.
Mentre le nostre autorità si affannavano ad improvvisare, sulla carta almeno, grandi unità operative, la realtà della situazione in cui viveva la parte dell’Italia liberata era veramente disastrosa.
Il governo e le autorità militari agivano con attrezzature di fortuna, senza una rete di trasmissione idonea, con tutte le comunicazioni sconvolte per effetto della guerra, con i mezzi aerei e navali e gli stessi gagli della vita politica ed amministrativa del paese controllati dagli alleati – per mezzo delle clausole armistiziali -, in mezzo a gente affamata, impaurita, sgomenta e sulla quale incombevano tutte le avversità della catastrofe.
Sbandati e fuggiaschi giungevano da oltre le linee e d’oltremare; venivano raccolti in campi di riordinamento da dove molti riuscivano ad eclissarsi e ad esercitare, impuniti, illeciti affari.
Molti soldati, reclutati nelle province meridionali ed isole, sentivano la suggestione della vicinanza delle famiglie; quelli dell’Italia centrale e settentrionale erano in continua apprensione per le proprie famiglie dato che giungevano notizie delle efferatezze dei tedeschi.
I vari partiti, con i loro programmi vivaci e con accesa passionalità, nei loro discorsi e con la stampa, attaccavano e ponevano in discussione i capi e le istituzioni provocando nell’animo dei soldati dubbi e sospetti. Molti si chiedevano “per chi” e “perché” avrebbero dovuto continuare a combattere dal momento che tutto si era concluso con la catastrofe, e l’autorità stessa dei capi era discussa e tutto il passato di guerra rinnegato. Molti soldati non riuscivano a comprendere come mai, dopo che si era chiesto l’armistizio perché non erano più in grado di combattere, si tornasse ora a parlare della necessità di partecipare alla lotta contro i Tedeschi.
Perché poi dovevano essere soltanto quelli, che erano rimasti disciplinati nei ranghi, a fare questa nuova guerra, mentre tanti uomini, anche giovani, se ne stavano fuori?
Il soldato non si smarriva nella ricerca delle ragioni; anzi, non voleva neppure ricercarle. Nel suo animo semplice la soluzione del problema organico era vista e riassunta con una sintesi univoca: “o tutti o nessuno si doveva essere ad affrontare i disagi ed i pericoli della guerra di liberazione”.
La situazione morale era assai grave. Dopo aver fatto la dichiarazione di guerra alla Germania occorreva creare quei presupposti per spiegare le ragioni del nuovo orientamento politico e militare, e ravvivare nella massa dei cittadini e dei soldati il sentimento antitedesco che si era ridestato dopo lo sbandamento e la crisi dell’armistizio.
Questa era maggiormente la preoccupazione primaria del Maresciallo Badoglio nel suo proclama [9] al popolo italiano trasmesso da radio Bari il 15 settembre e riportato dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” il 16 settembre.
Non era nemmeno necessaria una propaganda troppo artificiosa per determinare nel soldato italiano uno stato d’animo avvero contro la Germania, dato che erano gli stessi Tedeschi che con la loro condotta passata e presente erano i migliori propagandisti delle loro nefandezze.
Bisognava persuadersi che l’armistizio con le sue clausole era virtualmente superato e che, una volta mutata la nostra situazione di fronte ai Tedeschi, anche la nostra situazione di fronte agli Anglo-Americani doveva mutare, intraprendendo con questi ultimi la medesima lotta contro lo stesso nemico, il Tedesco, per la liberazione del Paese.
In questo ambiente, con questo sfondo morale e politico, fra ostacoli opposti dagli alleati e difficoltà determinate dalle stesse proporzioni della catastrofe che avrebbero sconvolto e travolto qualunque altro esercito del mondo, l’Italia libera dichiarò guerra alla Germania e si affrettò a formare il nuovo esercito che le avrebbe consentito di partecipare, a fianco dei nuovi alleati, alla liberazione d’Italia e a rifarsi una nuova “faccia democratica”.
Ma si trattava di una dichiarazione di guerra che aveva un amaro sapore di impotenza. Il governo Italiano non aveva nemmeno i mezzi per comunicare con le sue rappresentanze, ed il Maresciallo Badoglio, nell’informare il generale Mac Farlane dell’avvenuta dichiarazione, doveva anche pregarlo di informare a sua volta quelle rappresentanze: [10] “Vi comunico con vera gioia che S.M. il re d’Italia ha dichiarato la guerra alla Germania. La dichiarazione sarà consegnata dal nostro Ambasciatore di Madrid all’Ambasciatore tedesco il giorno 13 alle ore 15 (Greenwich). Questo atto rompe ogni legame con il funesto passato ed il mio Governo sarà fiero di poter marciare con Voi sino alla immancabile vittoria. Vi prego, caro generale, di comunicare quanto sopra ai governi britannico, americano e russo e ai Governi delle Nazioni Unite. Vi sarei pure grato se voleste avere la cortesia di comunicare ciò alle ambasciate d’Italia ad Ankara e Buenos Aires, e alle Legazioni di Berna, Stoccolma, Dublino e Lisbona”. Il giorno 14 il Maresciallo Badoglio faceva una dichiarazione alla stampa che veniva riportata sui giornali italiani ed inglesi: “il governo da me presieduto fu costituzionalmente nominato da S.M. il re. Scopo unico del mio governo è quello di liberare il Paese dalla oppressione tedesca….. il governo …. Promette di completarsi al più presto possibile ricorrendo ai più noti uomini politici dei diversi partiti, in modo da assumere una fisionomia di governo completamente e sinceramente democratico. Non appena finita la guerra con la vittoria cortissima, il governo attuale considererà come finita la sua missione, e sarà pienamente soddisfatto di aver diretto l’azione del Paese per eliminare l’occupazione tedesca. Perciò il governo prende sin d’ora il formale impegno di lasciare, al cessare delle ostilità, perfettamente libero il popolo italiano di scegliere il governo che meglio gli converrà per gli scopi non meno grandi della pace e della ricostruzione. Detto impegno era già stato preso nel decreto di scioglimento della Camera dei Fasci e delle corporazioni, nel quale era dichiarato che quattro mesi dopo la cessazione delle ostilità,si sarebbero fatte le elezioni.
Quel che fu detto allora si ripete oggi: il governo attuale ha il compito preciso di guidare il Paese fino alla pace, poi cesserà il suo mandato “ (“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 14 ottobre 1943; “The Times” del 14 ottobre 1943) [11]
Alla notizia che l’Italia aveva dichiarato guerra alla Germania ed era quindi divenuta cobelligerante delle Nazioni Unite, varie furono le reazioni della stampa e non poche quelle benigne:
“La dichiarazione di guerra alla Germania e l’accettazione alleata dell’attiva cooperazione della nazione italiana e delle sue forze armate come cobelligeranti deriva in primo luogo da sviluppi e considerazioni d’ordine militare. Solo il tempo mostrerà quanto sia fondata l’assunzione che le decisioni ora prese raccoglieranno la massa degli italiani e rafforzeranno il loro spirito combattivo, che bisogna riconoscere è sceso ad un livello molto basso. L’Italia cobelligerante deve dare prova di sé. La dichiarazione delle tre potenze chiarisce del tutto che ciò che viene chiamata relazione di cobelligeranza non cambia il fatto fondamentale della resa italiana. L’Italia non diviene alleata……..le forze anti-fasciste e democratiche che tirano avanti la loro disperata lotta, riceveranno ora un piccolo rinforzo materiale dalla dichiarazione di guerra del governo Badoglio, ma almeno questa recherà loro un sostegno morale estremamente necessario”. (“The Times” del 14 (123) ottobre 1943) [12]
L’Economisti invece riassumeva l’opinione di larghi strati della popolazione britannica dicendo che lo stato di cobelligeranza era stato troppo facilmente concesso, tanto più che le forze militari italiane erano trascurabili, mentre la dichiarazione offendeva i greci, francesi e jugoslavi. (“The Economist, cobelligerent Italy” del 30 ottobre 43) [13]
La reazione delle Nazioni Unite minori fu aspra[14], i giornali francesi di Algeri, in mancanza di un commento ufficiale del Comitato Nazionale, commentarono la cobelligeranza in modo sprezzante. Uno di essi, citando un passo del Machiavelli, disse che “Casa Savoia non ha mai finito una guerra dal lato da cui l’ha cominciata, se non quando la guerra era durata abbastanza perché essa mutasse due volte” [15] in genere quei giornali notavano che nel riconoscimento dell’Italia cobelligerante, il Comitato Nazionale Francese non aveva avuto parte alcuna, sebbene la Francia fosse stata la prima vittima dell’aggressione italiana.
Il corpo volontari del generale Pavone.
In alcuni centri dell’Italia liberata, a Bari e a Napoli, per iniziativa dei partiti d’Azione, Socialista e Comunista, si affiggono ai muri “Appelli alle armi”.
A Bari, il socialista Laticchiuta e l’azionista Calàce, vengono minacciati di carcere come organizzatori di tali “appelli”.
A Napoli l’iniziativa per “un esercito di popolo” è presa da personalità di notorietà internazionale quali Benedetto Croce, Alberto Tarchiani, Alfonso Omodeo, il generale Giuseppe Pavone e, a seguito di ciò, gli Alleati, che governavano la città, concedendo il loro appoggio verbale. A Napoli sembra avverarsi il sogno dei democratici e antifascisti di arrivare a una armata popolare composta e guidata da persone mai implicate in responsabilità politiche, militari, diplomatiche e propagandistiche della guerra dell’asse.
Anche il CLN di Roma diffonde, l’11 ottobre 1943 sulla stampa clandestina “l’Italia del Popolo”, il suo appello per la guerra di Liberazione che definisce “primo compito e necessità suprema della riscossa nazionale” e che dovrà essere condotta a fianco delle Nazioni Unite non “dall’attuale governo costituito dal re e da Badoglio, ma da un nuovo governo straordinario, formato da tutte quelle forze che hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista”. [16] Il gruppo legittimista che circonda il re e che Benedetto Croce chiama il “servitorame” approva, naturalmente, la casta militare ogni volta che intralcia la resistenza e si oppone al “Volontarismo”: per esempio ai “Gruppi combattenti Italia promossi dagli amici del Croce e patrocinati dal Capo dell’O.S.S.Donovan.
Subito il governo del preme sul comando militare alleato perché limiti il numero di volontari; il prefetto di Napoli vieta l’affissione del bando di arruolamento; il 10 ottobre Badoglio ordina lo scioglimento di qualsiasi formazione di volontari; il 30 ottobre il generale Giuseppe Pavone e l’antifascista Raimondo Crateri, promotori della formazione, debbono prendere atto che il tentativo è fallito [17].
Anche le correnti politiche antifasciste che fanno capo al Fronte di Liberazione Nazionale premono per la partecipazione italiana alla guerra ed emanano un manifesto, per la chiamata dei volontari, redatto da Benedetto Croce in cui si annuncia che “si sono costituiti oggi i gruppi italiani combattenti col Tricolore italiani che cooperano con le armate Anglo-Americane a scacciare dal suolo italiano il comune nemico”.
Questo tentativo vuol far rivivere le tradizioni del volontarismo italiano ed il Croce intende servirsene per ricondurre, con operazioni neo-risorgimentali, le forze antifasciste sotto una guida moderata-monarchica, mentre l’iniziativa assume nei fatti una coloritura repubblicana[18].
Lo stesso Giaime Pintor, prima di partire per quella missione attraverso le linee che doveva costargli la vita, scriveva a Napoli “l’ultima lettera” il documento che meglio definisce la posizione della cultura italiana di fronte alla Resistenza[19].
Falliti i tentativi, compiuti da Giaime Pintor, nell’ambiente militare di Brindisi per portare un soffio di vita anche negli esponenti della vecchia casta militare, fallito l’esperimento compiuto a Napoli d’organizzare una colonna di volontari al comando del generale Pavone: la fiducia nell’aiuto alleato s’era dimostrata assai mal riposta ed erano mancate le forze per formare, in luogo del primo progetto assai ambizioso, anche una modesta colonna di poche decine di uomini.
In modo così ostile e sordo l’ultima lettera di Pintor scaturisce come un contrasto. Egli si scagli sfiduciato contro il “popolo” italiano: “gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza”.
Con la conclusione della lettera, Giaime Pintor, deduce ciò che si deve fare individualmente e che lui stesso farà: “oggi sono riaperte agli italiani le possibilità del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso. Quanto a me, ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i prgi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo”.

[1] ANTONIO RICCHEZZA - L’esercito del Sud – Il corpo italiano di Liberazione dopo l’8 settembre – Marzia, Farigliano (CN) 1973, pag. 15.
[2] ANTONIO RICCHEZZA – L’esercito del Sud- pag. 21.
[3] Antonio RICCHEZZA – L’esercito del Sud, pag. 22.
[4] Antonio RICCHEZZA – op. cit., pag. 65.
[5] Vedi appendice – Allegato n. 27.
[6] Antonio RICCHEZZA, Qui si parla di voi, pag. 13.
[7] Amedeo TOSTI – Storia della 2^ Guerra Mondiale, Rizzoli, Milano, 1948, pag. 175, Vol. 2°.
[8] Pietro BADOGLIO – L’Italia nella 2^ guerra mondiale – Memorie e documenti, Mondatori, Milano, 1946, pag.38.
[9] Vedi Appendice – Allegato n. 28.
[10] Agostino DEGLI ESPINOSA – op. cit., pagg. 117-18.
[11] Vedi Appendice – Allegato n. 29.
[12] AGOSTINO DEGLI SPINOSA, op. cit., pag. 121.
[13] AGOSTINO DEGLI SPINOSA, op. cit., pag.122.
[14] AGOSTINO DEGLI SPINOSA, op. cit., pag.123.
[15] AGOSTINO DEGLI SPINOSA, op. cit., pag.125.
[16] Vedi appendice – Allegato n. 30.
[17] Vedi appendice – Allegato n. 31.
[18] ROBERTO BATTAGLIA, op. cit., pg.182.
[19] GIAIME PINTOR, op. cit., pagg. 245-248.

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