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lunedì 12 gennaio 2009

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO
FACOLTÀ DI MAGISTERO CORSO DI LAUREA IN SOCIOLOGIA
Tesi di laurea
MONTELUNGO 1943
UNA PAGINA DI CRONACA NELLA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE
Laureando STELIO TOFONE RELATORE:Chiar. Prof. ENZO SANTARELLI
Anno accademico 1975-1976
CAPITOLO I
REALTA’ E LEGGENDA DI MONTELUNGO

La data e il fatto d’arme dell’8-16 dicembre
Il I° Raggruppamento Motorizzato Italiano, che faceva parte del II° C.A. Americano comandato dal Generale Keyes [1] [2] , veniva aggregato alla 36^ Divisione Texas della 5^ Armata Americana[3] per l’operazione su Montelungo, uno schienale roccioso con ondulazioni crescenti in direzione Cassino-Roma.
Il giorno 6 dicembre 1943 il comando della 36^ Divisione Texas diramava l’ordine di operazioni contenente le seguenti direttive:” attaccare, prendere e mantenere Montelungo; inizio della azione il giorno 8 dicembre ore 06.20”. [4] [5].
In particolare, il Raggruppamento aveva il compito di conquistare e mantenere Montelungo con l’appoggio della propria artiglieria e delle armi leggere del 142° Reggimento di Fanteria Americano che avrebbe dovuto occupare le posizioni di Monte Maggiore, sulla sinistra di Montelungo. Sulla destra invece altre unità americane della Texas dovevano occupare l’abitato di San. Pietro e Monte Sammucro.
La sera del giorno 6 dicembre, il Raggruppamento raggiungeva, in autocolonna, il bivio di Presenzano e da qui i reparti proseguivano a piedi per le basi di partenza, curvi sotto il peso delle armi e delle munizioni, in condizioni climatiche avverse.
Alle 6,20 dell’8 dicembre inizia l’attacco.
In primo scaglione il I° Battaglione del 67° Reggimento Fanteria Legnano, rinforzato dalla 16^ compagnia controcarri, scatta dalla sua base di partenza, a ridosso di quota 253, e punta lungo la dorsale del monte verso quota 343. [6] [7]
Sulla sinistra il movimento viene seguito dalla 2^ Compagnia del II° Battaglione Allievi Ufficiali Bersaglieri che scattando dalla sua base di partenza, il ponte sul Primo Torrente Peccia, avanza a cavallo della ferrovia Cassino-Roma e punta su quota 343.
L’avanzata, anche se ostacolata in primo tempo dalla nebbia, dalla pioggia e dal fuoco delle mitragliatrici, si sviluppa favorevolmente. Verso le ore 7 il comandante del 67° fanteria ordina al secondo scaglione, formato dal secondo battaglione del 676° e dalle due restanti compagnie di bersaglieri, di portarsi a quota 253 e di prendere contatto con il 1° Battaglione che sta avanzando.
Nel frattempo la 2^ Compagnia bersaglieri si trova ad avanzare allo scoperto, raggiunge la “casetta rossa” ove viene fatta segno da un nutrito fuoco di armi automatiche che fermano lo slancio dell’attacco, causano numerose perdite e rendono insostenibile la situazione. La 2^ compagnia bersaglieri, contrattaccata sui fianchi è costretta a ripiegare lasciando sul terreno numerosi morti. Vieni così a mancare la protezione sulla sinistra, ove dovevano essere già presenti gli Americani che, dopo aver conquistato Monte Maggiore dovevano scendere fino al torrente Peccia.
Sulle direttrici di attacco del 67° accade egualmente che, per l’imponente massa di fuoco nemico, si spegne la foga dell’assalto.
Si debbono fare intervenire immediatamente le forze di riserva ossia quelle destinate al secondo scaglione.
La 1^ e 2^ compagnia del 1° battaglione del 67° Legnano sono praticamente fuori uso e, contrattaccate da forze nemiche, sono costrette ad arretrare sulla quota 253 ove si organizza, con le truppe di riserva,la linea di resistenza.
47 morti,102 feriti e 151 dispersi sono il prezzo pagato dagli italiani per quella esperienza.
Pur con il morale a pezzi i soldati italiani si apprestano a difesa e nei giorni successivi ebbero il tempo di assuefarsi all’ambiente e di fare continuamente piccole puntate di assaggio contro le posizioni tedesche.
Nella giornata del 12 ed in quella del 14 nostre pattuglie provocano violente reazioni da parte delle postazioni tedesche, reazioni che stavano a dimostrare la consistenza e l’efficienza delle truppe di difesa.
Nel frattempo, sulla base della esperienza negativa fatta con la prima azione sul Montelungo, si cominciarono a prendere accordi per una nuova azione meglio impostata e concordata. Gli Americani dovevano provvedere nei giorni 15 e 16 ad attaccare ed occupare , sulla destra di Montelungo, il paese di San. Pietro infine e le propaggini di Monte Sammucro. Sulla sinistra di Montelungo gli Americani della Texas avrebbero dovuto attaccare da Monte Maggiore e conquistare le ultime alture a Nord-Ovest di quota 343.
Il giorno 16 dicembre, il “ raggruppamento Italiano” avrebbe attaccato Montelungo per conquistarne la quota 343 e rastrellare le pendici, tenendosi a contatto con le truppe ai lati.
Dato l’esiguo numero di truppe combattenti Italiane era più logico l’obiettivo assegnato ad esse per il giorno 16 anziché quello dato per il giorno 8.
La mattina del 16 il tempo è sereno, sembra ci sia come un presagio. Alle 9 scattano all’attacco le compagnie del 2° battaglione del 67° fanteria ed i bersaglieri del II° Battaglione e pur subendo le reazione violenta dei tedeschi alle ore 13 raggiungono ed occupano la quota 343. Si continua la spinta offensiva per assolvere tutti i compiti assegnati al raggruppamento, ossia congiungersi con le truppe Americane ai lati di Montelungo e sistemarsi a difesa.
10 morti, 30 feriti ed 8 dispersi sono il risultato della seconda battaglia che ha portato alla conquista di Montelungo.
Il comportamento nella giornata del 16 delle truppe, che in precedenza erano state dalla azione sanguinosa dell’8 e dal successivo stillicidio durante la loro permanenza in linea, era stato notevole. I soldati stanchi per i disagi della prima linea e soprattutto abbattuti per l’insuccesso e le gravi perdite del primo attacco, seppero riprendersi e superare la prova[8] .
Le risonanze immediate del Nord e del Sud
Dopo le due battaglie di Montelungo dell’8 e del 16 dicembre, nell’Italia del Sud, inizia la propaganda governativa e militare sul primo episodio della guerra di liberazione combattuta dall’esercito regolare.
La stampa, per lo meno quella filo monarchia, contribuisce a questa forma di esaltazione collettiva riportando i lusinghieri elogi degli Alleati sul comportamento della truppa italiana e sulla portata socio-politica della conquista di quota 343 di Montelungo.
La casta militare, promotrice dell’invio al fronte di truppe italiane ed unica amministratrice di quel minuscolo “esercito” di liberatori, non tiene forse in considerazione, o non vuole farne menzione, delle precarie condizioni in cui è precipitato il Raggruppamento: soprattutto i fanti del 67° “Legnano” ed i bersaglieri del 51° battaglione allievi ufficiali.
Si esaltano le gesta di quelle giornate e non si parla dettagliatamente del crollo psichico avvenuto subito dopo.
Ad Oria nel brindisino, dove ha sede il raggruppamento “ Curtatone e Montanara”, continuano i corsi agli allievi ufficiali con la stessa mentalità di sempre; le notizie della battaglia di Montelungo, ove molti universitari provenienti da Oria hanno combattuto e sono caduti, servono a pubblicizzare ancora di più la necessità che nuovi volontari raggiungano i reparti al fronte. Si cercano nuovi proseliti per continuare l’opera iniziata a Montelungo ma occorre selezionare gli uomini; l’esperimento fatto con le “cavie” dell’8 dicembre ha detto ai superiori comandi che non tutti sono idonei, non tutti sono forti psicologicamente e soprattutto “sani” politicamente, almeno per come intendono i comandi stessi.
Dopo Montelungo cambiano anche i rapporti tra la stessa sfiduciata popolazione del Sud e gli uomini che si stanno addestrando per andare al fronte a combattere.
Si comincia ad avere, tra la popolazione civile, coscienza di ciò che i combattenti stanno facendo anche per loro: una guerra per la liberazione di tutto il paese.
Nel Nord invece l’eco della battaglia di Montelungo ha un duplice aspetto, da una parte la stampa nazifascista attacca le truppe “badogliane” di “rinnegati passati al nemico” mettendo in evidenza il tradimento perpetrato ai danni dell’Asse con l’armistizio e facendo risaltare come i “liberatori trattano i soldati italiani”: o “carne da cannone” oppure “scaricatori” o “manovali”.
Da un’altra parte, sempre nel Nord, c’è invece un riconoscimento positivo che viene dal CLN e dai “ Patrioti”; anche se i CNL non condividono l’ideologia monarchica del governo Badoglio e quindi molte sue “manifestazioni”, accettano di buon grado che il piccolo esercito abbia iniziato a partecipare alla tanto decantata guerra di liberazione “totale”.
Partigiani e Patrioti non si sentono più soli a sostenere la furia dei Tedeschi, ora ci sono altri Italiani che dal Sud stanno avanzando e combattono il comune nemico. Si incomincia ad intravedere, anche se in minima parte, un avvicendamento tra l’esercito ed il popolo che forma le “bande”.
Si può affermare che la risonanza della battaglia di Montelungo, sia la Nord che al Sud, ha iniziato il risveglio da parte di tutto il popolo del concetto che la Resistenza si deve costruire a forza e si deve vivere anche in modo diverso ; l’esercito si deve identificare nella Resistenza ed il patriottismo deve convergere nella Resistenza popolare-rivoluzionaria.
Primi esordi di una tradizione pubblicistica
Gabrio Lombardi nel 1945 ed Antonio Ricchezza nel 1946 iniziarono quella che possiamo definire la tradizionale pubblicistica sui fatti e le persone che operano a Montelungo, ossia hanno cercato di analizzare i vari perché che si verificarono nel 1° Raggruppamento Motorizzato dalla nascita alla fine.
Ritengo che le analisi dei suddetti siano state condizionate, almeno in quei periodi che furono scritte, dalla loro visione a senso unico del fatto di Montelungo e non hanno evidenziato in modo giusto le cose che, pur essendo meno appariscenti per la “gloria” del risorto esercito Italiano ne rappresentarono invece la sua reale composizione. Per esempio, la data dell’8 dicembre è stata ricordata periodicamente dalle forze armate ma non sempre con la stessa solennità; molte volte questa ricorrenza, che ci vede riuniti al sacrario di Montelungo a ritrovarci, ogni anno, vicino a coloro che immolarono la vita per una Italia migliore, è stata addirittura snobbata dagli uomini politici e troppe volte ricordata in modo sbrigativo e sommesso.
Attraverso la lettura dei seguenti passi potremo avere la visione di quei fatti come sono stati riportati.
“dopo il discorso del Presidente del Consiglio, il 25 settembre da parte dello S.M.R.E. con foglio n°70 Ord./V di prot. [9], veniva ordinata al comando del IX Corpo D’Armata (Bari) la costituzione e mobilitazione del Comando del I° Raggruppamento Motorizzato Italiano sotto la data del 27 settembre 1943” [10].
Dalla prosa del Ricchezza si può comprendere come eravamo euforici anche se una immane tragedia si era abbattuta sulla nazione.
“ I primi automezzi riprendono a scorazzare baldanzosi per le piane vie pugliesi; la breve e triste parentesi armistiziale si chiude………..Un nuovo soffio di guida è venuto a rallegrare la semplice e sobria gente di Puglia…… Gli stessi alleati guardano attoniti il passaggio dei nuovi compagni che si schierano al loro fianco……. Cuore e motore non ristavano mai……..Un giorno, e fu per tutti un gran giorno, essi di vestirono a festa. L’uno nella sua bella, fredda ed unica, tenuta kaki, l’altro con vernice ed odorosa. Entrambi portavano un distintivo simbolo di sacrificio e di forza, di amore e di resurrezione: la croce e lo scudo. La prima indicava che la via era lunga e dolorosa e non già semplice passeggiata militare. Il secondo la difesa di cuori e motori da tutte le tentazioni di cui il cammino angusto della via era, ed è , abbondantemente seminato. Essi non avevano la pretesa di fare alcuna affermazione politica, ma rappresentavano quanto di più bello vi era allora ed in quel momento in cui lacere bandiere, non mai ammainate, ritornavano in mezzo a cuori e motori mentre gli occhi dei presenti si velavano di lacrime di commozione. L’Italia tradita ed umiliata risorgeva da un piccolo e forte quadrato di uomini e mezzi pronti a tutto osare”[11].
Nel pomeriggio del 5 novembre, con foglio n° 456 di prot. O.P., il Comando ordinava il trasferimento del Raggruppamento per il mattino del giorno 6 novembre a partire dalle ore 6 da San. Pietro Vernotico ad Avellino [12].
Il Lombardi[13] ci descrive quel periodo nel seguente modo:
“ A differenza della Puglia, dove la vita aveva ripreso un andamento quasi normale e dove si sentiva presente l’autorità dello Stato, qui in Avellino si era in pieno disordine………D’altra parte vari partiti politici, scesi decisamente in campo contro la monarchia al seguito dei recenti avvenimenti accusavano il Raggruppamento di essere strumento di parte. Per ora combattendo contro i tedeschi all’ombra dello “scudetto”, avrebbe dovuto rialzare indirettamente il prestigio della monarchia; più tardi, cacciati i Tedeschi sarebbe stata un’arma a difesa diretta dell’istituzione.
“L’allontanamento della zona spiritualmente malsana di Avellino; la eliminazione di taluni elementi pericolosi; l’aumento del soprassoldo di guerra; L’abbondanza della razione viveri; il dichiarato lusinghiero apprezzamento degli americani circa la esercitazione dei giorni 25 e 26( novembre 1943); il diffuso desiderio, acuito dall’attesa, di trovarsi finalmente davanti al nemico; erano tutti elementi che avevano concorso – nei giorni precedenti – ad elevare il morale e lo spirito aggressivo della truppa”.
Proprio in quei giorni vengono messe in congedo le classi 1911 e 1912 mettendo in crisi il raggruppamento che veniva a perdere circa 600 uomini con esperienza in quanto reduci dei vari fronti di guerra.
Vengono suppliti dai volontari, in maggioranza universitari del raggruppamento”Curtatone e Montanara”, che come dice il Ricchezza[14]” il giorno 3 dicembre, provenienti da Francavilla Fontana, giungevano in numero di 450 complementi. Pur essendo di classi giovani mancavano di molte qualità che si perdevano con i congedanti. Fra le più importanti: la reciproca conoscenza tra superiore ed inferiore, l’ambientamento della nuova unità e l’affiatamento con i compagni con i quali erano chiamati ad agire”.
Continua invece il Lombardi[15]: “Ma altro era entrare in linea, altro era svolgere – il primo giorno – una dura azione offensiva. Qui fu l’errore di valutazione. Il comando Americano, bene impressionato dalla esercitazione di Monte Mauro, volle probabilmente offrire agli Italiani – in perfetta buona fede – la possibilità di una brillante affermazione iniziale[16]. Il comando Italiano, sedotto dalla portata spirituale di un possibile successo, non valutò forse tutte le difficoltà”.
Dopo i combattimenti dell’8 e del 16 dicembre le autorità americane disposero che il Raggruppamento trascorresse alcuni giorni in una zona arretrata del fronte: a riposo.
E’ del 18 dicembre il foglio del comandante il II° Corpo generale Keyes: “Ora che le posizioni di Montelungo sono state prese dalle vostre splendide truppe e da elementi della 36^ divisione e la posizione è consolidata, si è deciso, in considerazione delle vostre recenti perdite di personale, che il vostro raggruppamento passi al corpo di riserva in una zona in prossimità di Ceppagna, per riposo, ricostituzione e addestramento……….”[17].
Riprende il Lombardi[18]: “La zona prescelta fu quella di Sesto Campano-Presenzano, a sud di Venafro ………si decise che la fanteria e i bersaglieri raggiungessero le località loro assegnate compiendo a piedi il tragitto. Il percorso – circa 25 chilometri – non appariva eccessivamente faticoso; la marcia, che per ragioni di sicurezza dovette avvenire di notte, si svolse sotto una pioggia torrenziale”.
Il morale della fanteria è a terra ed inizia un periodo di abbandono di ogni sogno di gloria da parte dei superstiti, che “tutto avevano dato senza nulla chiedere” e non si poteva pensare di risolvere il problema con un poco di riposo e l’invio di complementi per riempire i vuoti lasciati dai morti e dai feriti[19].
Il comandante del Raggruppamento il 10 gennaio 1944 compilò una relazione”sullo spirito delle truppe e sulla propaganda svolta nel mese di dicembre 1943”.
“Le cause del disagio morale, che trovano la loro origine nelle attuali condizioni del Paese e che dovrebbero quindi in astratto essere comuni a tutti i reparti, possono essere neutralizzate dal sentimento della disciplina e dall’azione dei comandanti fino a che i sacrifici richiesti alle truppe sono contenuti in certi limiti, ma producono il loro irreparabile effetto disintegratore su uomini che si sentono esposti alla prova suprema: la prova del sacrificio della vita.
Tale è appunto lo stato d’animo delle forze di fanteria di questo Raggruppamento che, per la durezza delle perdite subite, sono portate a considerarsi, esagerando i pericoli cui sono esposte, destinate ad un futuro sacrificio…”[20].
Sempre secondo il Lombardi ”non poteva chiedersi a cinquemila uomini, riuniti sulla base di circostanze quasi casuali di essere tutti eroi: proprio, si badi bene, perché erano solamente cinquemila... Per quale ideale, allora, dovevano combattere e morire? Per l’ideale astratto della democrazia? Ma la prima esperienza di vita democratica era tragicamente dolorosa e scoraggiante. Per ottenere degli Anglo-Americani un diverso atteggiamento nei riguardi dell’Italia? Ma la realtà dei fatti, se non le parole, lasciava intendere come nessuna concreta intenzione gli Anglo-Americani avessero di migliorare le condizioni dell’armistizio… La stampa, proprio in quei giorni, era l’eco della campagna che i partiti politici avevano scatenato contro la monarchia e contro il governo… Ogni soldato del Raggruppamento poteva leggere, sul primo giornale che gli capitava sulle mani, i più volgari insulti alla persona del sovrano, i più violenti attacchi all’autorità costituita. Poteva leggere che i giovani delle zone liberate non avrebbero combattuto, in massa, contro i tedeschi, sino a che il re non avesse abdicato. Poteva leggere che era una ignominia che, i pochi reparti già organizzati, combattessero portando sul petto lo “scudetto”. Il I° Raggruppamento Motorizzato veniva apertamente tacciato di essere strumento - per il presente e per il futuro - nelle mani della reazione” [21].
Improvvisamente dall’alto si pensò di cambiare il comandante del Raggruppamento, forse per superare la triste condizione di quel momento. Fu messo a comandare il Raggruppamento il generale Umberto Utili già Capo Missione presso il Comando Gruppo di Armate.
Il generale, al corrente della dissoluzione in atto e degli intendimenti futuri di sciogliere il raggruppamento e passare gli uomini alle compagnie di lavoratori, emanò il seguente ordine del giorno n° 6: “Nell’assumere oggi (23 gennaio 1944) l’effettivo comando del I° Raggruppamento porgo ai miei soldati e ai miei collaboratori di ogni grado il mio primo caldo saluto ed il fraterno saluto dei fanti, dei bersaglieri e dei paracadutisti in approntamento nelle Puglie e che, ormai pronti anch’essi a combattere non attendono che gli automezzi per raggiungere i camerati che li hanno preceduti.
Valorosi veterani del I° Raggruppamento: sono fiero di essere stato destinato a comandarvi. Nell’ora più amara e più difficile, quella dello smarrimento e dello sconforto, voi avete dato l’esempio generoso dell’azione ed avete versato il vostro sangue, che è sempre qualcosa di più prezioso delle chiacchiere, nella santa riscossa contro i tedeschi. Onore ai vostri caduti, onore ai vostri feriti ma onore anche al più umile di voi!
Nella battaglia che si è accesa da due giorni, Roma risplende fulgida in fondo, come una fiamma, ed è la nostra meta.
Guardate a Roma, ragazzi, con gli occhi dello spirito. Guardate alle vostre famiglie lontane, straziate ed oppresse, quelli di voi che, come me, l’hanno al di là. Ragazzi, in piedi: perché questa è l’aurora di un giorno migliore.” [22]
L’opera di epurazione continuava e “così tra il 26 e 27 gennaio il 67° si trasferì nella zona di San Pietro. Infine passando alle dipendenze di impiego, per lavori, del II° Corpo, e precisamente della 36° Divisione. Nei giorni successivi, con pieno accordo tra le autorità italiane e quelle americane, il 67° venne definitivamente sganciato dal Raggruppamento; passò alle dipendenze organico-disciplinari del comando 210^ divisione” (lavoratori) [23].
Evoluzione della storiografia moderata militare
La storiografia sui fatti di Montelungo non deve essere esaminata esclusivamente a se stante, ossia come letteratura su un episodio militare; per avere una più ampia visione di quello che accadde e perché accadde occorre ritornare indietro almeno fino alla data del 10 giugno 1940: data della dichiarazione di guerra e infatti il distacco fra il regime e la massa della popolazione coincide con il momento stesso in cui l’Italia è costretta ad affrontare la prova decisiva della guerra.
La monarchia era compenetrata strettamente al regime di cui aveva favorito l’ascesa al potere e di cui si era servita senza riserve. Il regime, al momento dell’ingresso in guerra, si presentava ancora col suo bilancio di presunte vittorie - dalla guerra d’Etiopia a quella di Spagna - né era stato ancora battuto, sul piano internazionale o sul piano interno, in modo evidente e clamoroso.
“La mancata adesione alla guerra fascista si tradusse assai tardi in esplicito rifiuto, in forme precise di opposizione alla guerra, in tentativi di paralizzarne il meccanismo” [24].
Con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, e con la proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre 1943, si viene a creare una situazione di vuoto intorno ad una certa parte della casta militare legata, per tradizione e convinzione, alla casa Savoia.
La fuga da Roma a Brindisi del re e delle massime autorità, che lasciano abbandonati a se stessi esercito e popolo, ci viene raccontata come una necessità “storica” per salvare l’autorità massima dello Stato da eventuali rappresaglie tedesche e per continuare, in una zona già liberata, la “santa crociata” contro l’invasore tedesco.
La lenta ricostruzione del nuovo esercito italiano era resa ancora più difficoltosa dalla frenesia degli alti comandi di eseguirla e dall’ambiente e dal modo in cui vivevano i soldati; inoltre la pesante condizione economica per le popolazioni civili dell’Italia liberata, l’accesa lotta politica intorno all’abdicazione del re richiesta dai partiti, i rapporti, spesso umilianti, nei quotidiani contatti tra i militari italiani e quelli Alleati contribuivano in modo rilevante all’approntamento di quella piccola schiera di soldati italiani destinati a combattere a fianco degli Alleati.
Se da una parte c’erano gruppi di civili che manifestavano sentimenti d’insofferenza verso i soldati perché questi portavano sulla giubba lo scudo sabaudo, come distintivo del Raggruppamento, dall’altra parte si avevano ufficiali di carriera che, in grandissima maggioranza, giudicavano dannose le informazioni e le discussioni politiche e quindi cercavano affannosamente di tenere isolati i soldati dai civili. La rinascita dell’esercito avveniva in una atmosfera di reciproca incomprensione e di sospetto.
Il microscopico reparto, i 5500 uomini del I° Raggruppamento Motorizzato, era contornato da una certa “ufficialità” di carriera, che veniva presa in “forza” e subito spariva con incarichi specialissimi, che aveva intravisto una nuova occasione per riproporre, poi, a cose fatte, i vecchi schemi e per ridarsi, essa stessa, un nuovo volto, questa volta più consono alla guerra di Liberazione che stava iniziando, al futuro assetto democratico dello Stato ed al nuovo corso storico che si sarebbe sicuramente avuto con la cobelligeranza.
Dopo Montelungo si inizia ad osannare al valore del soldato italiano che combatte contro il suo naturale nemico di sempre, il tedesco, a fianco dei vecchi “Alleati del Piave”.
Troppa gente, come sempre, inizia a speculare su fatti che non ha vissuto in “prima persona” ma che ha soltanto visto, nel migliore dei casi, da lontano, attraverso un binocolo di un osservatorio, oppure ne ha appreso notizia attraverso la lettura di dispacci degli alti comandi o addirittura dalla stampa.
Determinanti, per una certa propaganda, divengono i discorsi del Primo Ministro inglese, signor Churchill come per esempio quello fatto alla Camera dei Comuni il 22 febbraio 1944 ove, tra l’altro, diceva: “… le forze italiane hanno collaborato con noi in ogni modo possibile. Circa cento navi da guerra italiane rendono validi servizi in operazioni di guerra nell’Atlantico e nel Mediterraneo.
Truppe italiane sono schierate sulla linea del fronte e benché in più di una occasione abbiano subito perdite assai gravi, pure queste truppe continuano a combattere a fianco dei nostri uomini. Aviatori italiani combattono pure al nostro fianco. Numerosi militari italiani rendono nelle retrovie servizi inestimabili …”[25].
La crisi del celebrazionismo resistenziale
La guerra dell’Italia partigiana incomincia quando finisce la guerra del regime; l’armata partigiana si forma dopo la disfatta di quella regia e fascista.
I tedeschi scambiano la disfatta dell’esercito per la disfatta della nazione; nel comunicato del Comando supremo si sente l’orgogliosa sicurezza di chi pensa di non aver più un nemico: “… le forze armate italiane non esistono più …”
E’ da quel momento che inizia la Resistenza.
Nell’ora della disfatta alcuni italiani decidono di resistere subito all’occupazione dei tedeschi.
Sono poche migliaia: molti per un Paese senza una rivoluzione borghese e senza Riforma, che esce da vent’anni di regime poliziesco [26].
Altrove, in Francia, in Polonia, nel Belgio, in Olanda, la Resistenza appare dopo mesi di occupazione, dopo una cauta preparazione, in certo senso importata dagli emissari dei governi in esilio; in Italia la preparazione della minoranza antifascista e il suo esilio durano da vent’anni, non c’è un giorno da perdere. Gli Italiani che decidono di resistere si cercano e salgono in montagna nel volgere di poche ore.
Può sembrare un miracolo; ma miracolo non è, la minoranza del settembre è l’avanguardia di una Resistenza che ha radici profonde e lontane: nelle fabbriche, nei campi, nelle università, nelle prigioni, tra i fuoriusciti, dentro l’esercito fascista, dentro il fascismo, energie spesso ignote le une alle altre, ma complementari, figlie della stessa volontà di sopravvivere, di non cedere [27].
La Resistenza del settembre nasce dall’incontro fra il vecchio ed il nuovo antifascismo. I due fiumi, divisi per anni dagli argini polizieschi del regime, confluiscono.
Il vecchio antifascismo dell’esilio, della cospirazione, del silenzio e dello sdegno che ha opposto al regime un no di principio, rifiutandone l’esperienza; e il nuovo antifascismo, nato dentro il fascismo, arrivato al no dopo aver partecipato, peccato, capito [28].
La minoranza armata si reca in montagna mentre nelle città i nuclei della Resistenza politica – che saranno il tessuto connettivo della ribellione – si trasformano in Comitati di Liberazione Nazionale.
Il primo ad assumere tale denominazione è quello di Roma, poche ore dopo l’armistizio, e nell’atto costitutivo si legge: “Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli Italiani alla lotta e alla resistenza e per conquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni” [29].
Manca la dichiarazione antimonarchica che verrà successivamente; quello che conta è l’unità dell’antifascismo nella Resistenza. Ne danno atto gli Azionisti nel giornale “Italia Libera”; “Il popolo italiano ha finalmente un organo autorevole, che può rappresentarlo di fronte a chiunque” [30].
Si va in montagna soprattutto per rappresentare una protesta vivente, per un sentimento elementare di dignità, e questo lo comprendono tutti, giovani e anziani, colti e ignoranti: “qui non si tratta dello spirito eroico. E’ lo spirito umano che sta in piedi e noi con esso” [31]. Volontà di resistere, di non abbandonarsi al panico e alla rassegnazione. E’ da qui che nasce il militarismo ribelle.
L’esercito regolare, della coscrizione obbligatoria, retto dalla casta militare, salvo sporadiche resistenze si sfascia; quello popolare, dei volontari, che ora si forma, sente il bisogno di affermare la volontà di battersi: “Oggi l’unico modo di essere civili è quello di fare la guerra” [32].
Il militarismo ribelle sta tra il riformismo dei giovani ufficiali di carriera che vorrebbero, attraverso la Resistenza, riformare l’esercito di mestiere; ed il servizio delle armi intese come necessità temporanea, come prezzo da pagare alla riconquista della libertà.
Diventa, a questo punto, chiaro che la lotta armata sarà condotta da una minoranza, anche se accompagnata dal favore popolare, anche se inserita nella Resistenza passiva delle moltitudini.
A Napoli, per esempio, le quattro giornate non sono la resistenza politica, organizzata, articolata del Nord, ma sono una dimostrazione della sollevazione di massa che, pur disarticolata e incontrollata dai competenti Comitati, ha avuto il suo effetto.
Napoli è stata la prima grande città italiana a liberarsi da sola, nel senso che ha espresso un’autonoma volontà di liberarsi e fu, malgrado i suoi caratteri d’eccezione, il primo e più forte contributo portato dal Mezzogiorno alla storia unitaria d’Italia.
E’ stata un’insurrezione di popolo e non una insurrezione popolare unitaria; l’insurrezione di Napoli è un buon auspicio che la ribellione del Nord non può rifiutare e viene usata in funzione propagandistica e gli stessi comunisti ne parlano come di una “rivolta popolare che dà un senso e un valore alla direttiva della insurrezione finale” [33].
I partigiani portano nella Resistenza le loro convinzioni politiche, che sono diverse, ma elaborano una dottrina militare.
L’Italia non possiede una grande tradizione di guerre popolari. Salvemini arriva a dire, nei giorni del partigianato, che “dai tempi del Barbarossa l’Italia non aveva più conosciuto una guerra popolare”.
I giovani, arrivati alla Resistenza attraverso il fascismo, hanno, di media, una modesta cultura politica e militare, molti ignorano Mazzini, Marx e tutto; ma portano nella guerra partigiana il loro coraggioso empirismo, la conoscenza del paese reale divenendo i mediatori fra il dottrinarismo degli antifascisti militanti e i problemi pratici della guerra popolare.
La piccola e la media borghesia sono, specie nel Nord, a grande maggioranza, per la ribellione: le danno la maggior parte dei quadri e, in alcune regioni, buona parte dei combattenti. Il ceto operaio è per la ribellione in modo totale e naturale: vi trasferisce la sua protesta classista e le speranze; non ha egoismi da difendere, deve difendersi dalla deportazione.
La resistenza armata ha un problema: trasformare il favore delle città in alleanza, il loro odio per l’occupante in lotta contro l’occupante. Sono i comunisti ad aprire la strada: con gli scioperi, con il terrorismo. Il terrorismo nelle città mira a effetti militari e politici ed è un atto di moralità rivoluzionaria. La Resistenza è indivisibile: la guerra popolare è guerra di tutti sia nei villaggi che nelle città.
Un altro grande problema della ribellione che cresce è quello di portare la lotta nelle campagne ed ancora una volta sono i comunisti che lo risolvono con l’aiuto degli appartenenti ai Gruppi “Giustizia e Libertà” e con il concorso del clero povero, dei parroci di campagna. La maggioranza dei parroci è amica, quasi ogni parrocchia è un possibile rifugio, un sicuro recapito. I comunisti e il clero povero compiranno il miracolo di togliere i contadini padani dal lungo sonno e dalla diffidenza [34].
Con la Resistenza migliaia di giovani escono dall’isolamento e dall’oblio provinciale ed iniziano a conoscere la politica ed il suo linguaggio. Nuovi termini vengono acquisiti: democrazia, libertà, sindacato, classe, rivoluzione.
La vita nelle “bande” aiuta ad avere incontri con uomini anche di popoli diversi, con gente di ogni classe e, con la polemica fra le “bande”, di colore politico diverso, si iniziano a comprendere le prime regole della vita democratica, la saldatura fra montagna e città, fra operai, contadini ed intellettuali.
I partigiani sanno che fanno parte di un esercito che è “politico”, che hanno come obbiettivo principale il rovesciamento di un regime politico e quindi anche loro sono portatori di idee politiche.
Questa è la Resistenza che combatte e combattendo elabora la sua politica, propone le sue alternative rigorose; non sempre accolte dall’antifascismo dell’Italia liberata, specie sul tema della monarchia.
All’inizio della Resistenza chi è veramente lontano dalla realtà è il Comando supremo, nell’Italia liberata, che, pur avendo visto dileguarsi l’8 settembre buona parte dell’esercito regio, aspira a dare direttive alla Resistenza del Nord. Con una circolare del 10 dicembre 1943 il Comando supremo stabilisce che “In Italia terreno e popolazione poco si prestano alla guerriglia”, ma dato che “in obbedienza all’impegno di governo” questa guerra di Liberazione bisogna pur farla, a tal fine si suddivide l’Italia in tante zone e ci si rivolge ai “comandi in indirizzo” perché si pongono agli ordini del Comando supremo.
Come prima direttiva ci si preoccupa dell’uso della divisa: “… per difficoltà di equipaggiamento non tutti possono conservare l’uniforme regolare; per il personale in abito civile è stato adottato un distintivo costituito da doppio nastro tricolore al bavero della giubba; tale distintivo è stato depositato dal regio governo a Ginevra [35].
Cronaca e storia del movimento di Liberazione
Il 1943, l’anno della più grande e rapida e radicale svolta nella collocazione politico-militare dell’Italia nel Mondo, non fu soltanto l’anno dell’8 settembre. E’ pur vero che dopo l’8 settembre lo stato d’animo generale degli Italiani si incentrava sull’obbiettivo di tornarsene a casa. Ma la via verso casa passava – per la gran parte dei nostri militari ormai senza divisa - per la lotta partigiana cioè, essendo stata proprio questa – la aspirazione alla pace – una delle molle dell’organizzazione antifascista del Nord occupato dai tedeschi.
Nel Sud il “tutti a casa” significava una forma di rivolta contro le strutture dello stato monarchico rifiutandosi di indossare un giorno di più la divisa militare. Ma in questo quadro, non mancò un momento di verifica, un punto di svolta che trasformò il rifiuto e la disobbedienza – al Nord ed al Sud – in una linea nazionale che impegnava a nuovi sacrifici identificando gli interessi della grande massa del popolo, con gli interessi nazionali, e la lotta per la pace con lotta per la Liberazione dal nazifascismo.
Montelungo per la storia sarà solo una data, una indicazione geografica; sul campo, nella cronaca della guerra, fu qualcosa di più: fu la prima occasione per costringere, nella persona del generale CLARK, gli Alleati a riconoscere l’impegno e la serietà dei loro cobelligeranti Italiani.
“Questa azione –dichiarò il generale Clark- dimostra la determinazione dei soldati Italiani a liberare il loro Paese dalla dominazione tedesca, determinazione che può ben servire come esempio ai popoli oppressi d’Europa”.[36]
Nell'anno del "tutti a casa"-dunque- quell'impegno al combattimento ha avuto molto più effetto della simbolica partecipazione piemontese alla lontana guerra di Crimea: ha permesso, fra l'altro, la vittoria antifascista, il ritorno della democrazia politica, la Repubblica, la Costituzione.
Resistenza - Guerra di Liberazione: due atti certamente distinti in sede storica ed in sede storiografica.
Dell'una e dell'altra fase della lotta -Resistenza e Guerra di Liberazione - diversa fu la matrice. Emotiva, popolare la prima, logico punto di rottura del prevalente sentimento degli Italiani, nei quali il desiderio di ribellione era lievitato fin dai primi momenti in cui venne ad essi imposto un affiancamento politico-militare non sentito e non voluto. Essenzialmente operativa l’altra, che seguì ad una regolare dichiarazione di guerra alla Germania. (13 ottobre). Questa fu organizzata, per comprensibili esigenze di coordinamento tattico da militari, costituiti in unità regolari a fianco degli alleati.
Anche alla stessa Resistenza non mancò l’apporto dei militari che in Liguria, Val d’Orsola, Veneto e varie altre zone dell’Italia centro-settentrionale, furono tra i primi ad organizzare prontamente e decisamente, subito dopo l’armistizio, i gruppi di “patrioti”, le cui formazioni, nell’Italia centrale, furono poste nel novembre del 1943, per decisione unanime dei partiti politici, alle dipendenze di un ufficiale superiore dell’esercito – mentre si organizzava la Resistenza a Roma ed in Italia centrale con la attiva collaborazione del colonnello Lanza di Montezemolo, fucilato poi alle Fosse Ardeatine.[37]
Lo stesso Movimento partigiano ebbe un contributo positivo e sensibile dalle forze armate che funzionarono soprattutto da valido elemento coordinatore tra le varie formazioni di cui, anche se l’obbiettivo era unico, varie erano invece le ispirazioni ideologiche.
A conferma di quanto sopra è il fatto che il Comando unico dei Volontari della Libertà, con caratteristiche ed organizzazione militari, aveva a capo un militare di provate capacità: il generale Raffaele Cadorna.

[1] Vedi Appendice – Allegato n. 1
[2] Vedi Appendice – Allegato n. 2
[3] Vedi Appendice – Allegato n. 3
[4] Vedi Appendice – Allegato n. 4
[5] Vedi Appendice – Allegato n. 5
[6] Vedi Appendice – Allegato n. 6
[7] Vedi Appendice – Allegato n. 7
[8] Vedi Appendice – Allegato n. 8
[9] Antonio RICCHEZZA – “Qui si parla di voi”- Poligrafiche Bolis, Bergamo 1946, pag. 15
[10] Vedi Appendice – Allegato n. 9 – n. 10
[11] Antonio RICCHEZZA – op.cit., pagg. 29-32.
[12] Antonio RICCHEZZA – op.cit., pagg. 34-35.
[13] Gabrio LOMBARDI – “ Il corpo Italiano di Liberazione”, Maggi-Spinetti, Roma 1945, Pag. 17.
[14] Antonio RICCHEZZA – op.cit., pag. 51.
[15] Gabrio LOMBARDI – op. cit., pag. 21.
[16] Vedi Appendice – Allegato n. 11
[17] Vedi Appendice – Allegato n. 12
[18] Gabrio LOMBARDI – op. cit., pag. 31.
[19] Vedi Appendice – Allegato n. 13
[20] Ministero Difesa - Il I° Raggruppamento Motorizzato Italiano (1943-1944) - Tipografia Regionale, Roma 1948.
[21] GABRIO LOMBARDI - op. cit., pagg. 33-35
[22] GABRIO LOMBARDI - op. cit., pag. 40
[23] ANTONIO RICCHEZZA - op. cit., pag. 110.
[24] ROBERTO BATTAGLIA - Storia della Resistenza Italiana, Einaudi Editore, Torino, 1964, pag. 15.
[25] Vedi Appendice – Allegato n. 14
[26] GIORGIO BOCCA – Storia dell’Italia partigiana, Universale Laterza, 1975, Bari, pagg. 5-14.
[27] PIERO CALAMANDREI – Uomini e Città della Resistenza, Laterza, Bari 1955, pagg. 11-13
[28] GIORGIO BOCCA – op. cit. – pag. 15
[29] FRANCO CATALANO – Storia del CLNAI – Laterza, Bari 1956, pagg. 56-56.
[30] FRANCO CATALANO – L’Italia dalla dittatura alla democrazia – Lerici, Milano 1962, pag. 390.
[31] BIANCA CEVA – Cinque anni di storia italiana (1940-1945), Edizioni di Comunità, Milano 1962, pag. 232.
[32] PIERO CALAMANDREI – op. cit., pag. 12.
[33] LUIGI LONGO – Un popolo alla macchia – Editori Riuniti, Roma, 1964, pag. 72.
[34] GIORGIO BOCCA – op. cit., pag. 145.
[35] GIORGIO BOCCA – op. cit., pag. 103.
[36] Vedi appendice – allegato n. 15;
[37] GABRIO LOMBARDI – Montezemolo e il Fronte militare clandestino di Roma- (ottobre 1943). Tipografia Campo Marzio, Roma, 1972;

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