FACOLTÀ DI MAGISTERO CORSO DI LAUREA IN SOCIOLOGIA
Tesi di laurea MONTELUNGO 1943
UNA PAGINA DI CRONACA NELLA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE
Laureando STELIO TOFONEMatr. 011380 RELATORE Chiar. Prof. ENZO SANTARELLI
Anno accademico 1975-1976CAPITOLO II
LOTTA POLITICA E FORZE ARMATE NEL REGNO DEL SUD.
La politica di cobelligeranza di Badoglio
Il problema della cobelligeranza Italiana era strettamente legato a quello dell'alleanza.
Il governo italiano del re , fin dai primi giorni che seguirono l’8 settembre, insistette coi governi inglese ed americano per ottenere che l’Italia non occupata dai Tedeschi venisse accettata quale alleata dalle potenze in lotta contro il nazifascismo. Il più ostinato in simili richieste, era lo stesso Vittorio Emanuele III°, ansiosissimo di ritornare a Roma a fianco degli Alleati. I governi Alleati, invece, rifiutarono. Una delle principali ragioni di questo rifiuto – ragione avanzata dal governo americano – era che il governo italiano doveva prima diventare un governo più rappresentativo e che i partiti, da cui erano costituiti i Comitati di Liberazione Nazionale, avrebbero dovuto fare parte del governo. L’opposizione del governo inglese era ancora più radicale. Churchill, e come lui molti dei suoi diretti collaboratori, insistevano nell'affermare che se si fosse concesso il rango, di alleato all’Italia, sarebbe stato più difficile, alla fine della guerra, imporre agli Italiani il tipo di trattato di pace, che gli inglesi avevano in mente.[1]
Il ministro plenipotenziario britannico Harold Macmillan, dopo la sua prima visita a Badoglio il 15 dicembre 1943 a Brindisi, così scriveva a proposito della cobelligeranza Italiana: “Il Primo Ministro (Churchill) mi ha fatto pervenire il benestare del Gabinetto di guerra, che in effetti approva i nostri suggerimenti. Si è d’accordo in linea di massima, per la cobelligeranza a patto che vengano sottoscritte le clausole dell’armistizio lungo e che venga riconosciuta l’autorità della Commissione Alleata di Controllo per l’Italia. I governi Alleati trasferiranno all’amministrazione italiana più vaste aree del territorio nazionale liberato, in cambio di basi operative. Il Primo Ministro conclude dicendo che l’atteggiamento Alleato verso gli italiani deve essere comunque ispirato al principio di “pagare una ricompensa in cambio di risultati concreti”. Comunico ciò per vostra informazione privata. Non se ne faccia parola con gli Italiani”. [2]
Una settimana dopo la data del suaccennato rapporto (29 settembre) Badoglio incontra Eisenhower a Malta e firma le clausole dell’armistizio lungo. Il documento “norme di resa per l’Italia” inizia con la espressione: “Le forze Italiane di terra, di mare e di cielo, dovunque si trovino, si arrendono senza condizioni”.
Le proteste di Badoglio per la formulazione molto dura e per lo spirito generale al quale è improntato l’armistizio lungo, spingono Eisenhower a proporre ufficialmente a Washington di considerare il governo italiano quale cobelligerante dei governi Alleati.
Prima di ottenere il riconoscimento della cobelligeranza però il governo italiano dovrà dichiarare guerra alla Germania nazista.
Il re d’Italia rifiuta di firmare la dichiarazione di guerra, a Brindisi. Vuole farlo a Roma, dopo il suo ritorno al Quirinale. Il re vuole che prima la sua autorità sia ripristinata su un vasto territorio d’Italia.
Gli Americani vorrebbero accelerare la cobelligeranza, gli Inglesi no. Da parte delle autorità italiane ci si sente già a fianco degli attuali vincitori e fin dal 14 settembre il Capo di Stato Maggiore Generale Ambrosio, con una immensa dose di ottimismo, sollecitava i Capi di Stato Maggiore delle tre armi a collaborare con le truppe Alleate precisando che, per il momento è opportuno “…… evitare di proporre che Grandi Unità Alleate operino ai nostri ordini”[3]
L’esitazione degli alleati di accettare al loro fianco truppe italiane può essere compreso dalle parole dell’allora esperto americano militare nella Missione Alleata a Brindisi generale Taylor che, tra l’altro, disse: “….. Gli Italiani si presentavano a noi privi di tutto e per equipaggiarli avremmo dovuto spogliare le nostre divisioni. Questo era un motivo tecnico. Noi, d’altra parte, avevamo bisogno principalmente di vostri reggimenti di Alpini. I nostri comandanti continuavano a chiederci Alpini. Noi, sia Inglesi che Americani, non avevamo equipaggiamenti per combattere su terreni montagnosi. Tuttavia anche l’impiego di Alpini non venne autorizzato. Sono sicuro quindi che sulle esitazionidegli Alti Comandi Alleati influissero anche fattori politici”[4].
Il fatto militare di Monte lungo, solo cinquemila uomini impegnati in quel lontano dicembre 1943 sul fronte di Cassino, è troppo esiguo di fronte alle tremende pagine sulle quali si chiuse in modo tragico la storia della nostra ultima guerra nelle pianure e sui monti, nelle steppe e nel deserto, nel cielo e sui mari. Esso ebbe poco più che il valore di un simbolo: quello della partecipazione italiana al nuovo ordine di cose, e quello di crearsi delle premesse per il prossimo futuro.
Premesse ed antecedenti che sono ormai più che noti: dopo il tracollo dell’8 settembre, insistenze del nostro governo e dello Stato Maggiore per prendere parte all’intervento armato rivolto alla Liberazione del Paese; promesse degli Alleati che mitigheranno le dure condizioni di armistizio in funzione dell’aiuto militare che gli Italiani daranno al proseguimento della guerra contro i Tedeschi; approntamento di una Grande Unità fra difficoltà inenarrabili e suo inserimento fra le potenti forze Anglo-Americane nel clima di un’enorme diffidenza. Il cammino su di cui venivano avviati “i cinquemila di Mignano”era segnato di duri sacrifici, di umiliazioni, di lacrime e di sangue.
È soprattutto sotto questo profilo che Montelungo rappresenta la prima vera importante pagina del nuovo Risorgimento d’Italia; la prima pietra miliare della guerra di Liberazione.
Reclutamento e formazione del Raggruppamento Savoia.
Il I° Raggruppamento Motorizzato fu la prima unità combattente Italiana che gli Anglo-Americani ammisero a partecipare, a fianco dei loro eserciti, dopo le vicende dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
L’entità di questo Raggruppamento non fu certamente pari alle tante insistenze che le nostre autorità fecero presso i comandi Alleati per arrivare a partecipare alla guerra contro i Tedeschi.
I 5.500 uomini ebbero poco più che il valore di un simbolo e le nostre autorità, in quel simbolo, intendevano vedere tutta la volontà di riscossa del popolo Italiano.
La notizia dell’armistizio, la sera dell’8 settembre 1943, determinò nel Paese un collasso generale che fece prevalere in quasi tutti l’idea che la guerra fosse finalmente finita.
Le maggiori autorità dello Stato si rifugiarono nell’estremo lembo meridionale, già occupato dalle forze Anglo-Americane, per assicurare -questa è la tesi ufficiale – la continuità del Governo legale e raccogliere il maggior numero delle forze armate efficienti, ivi dislocate, e con esse contribuire attivamente, a fianco delle truppe alleate, alla liberazione di tutto il territorio Italiano[5].
Superato il primo momento di crisi, dopo l’armistizio, il Governo legale dell’Italia meridionale e delle isole si trovò con una forza ancora efficiente e disponibile di circa 450.000 uomini.
In occasione dei primi contatti che un nostro inviato ebbe nell’agosto del 1943 per la conclusione dell’armistizio, il Presidente Americano Roosevelt e il Primo Ministro Inglese Churchill inviarono da Quebec in Canada un lungo messaggio – approvato anche dal Capo del Governo Russo Stalin – il cui preambolo diceva così: “le condizioni di armistizio non contemplano l’assistenza attiva dell’Italia nel combattere i Tedeschi. La misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell’Italia dipenderà dall’entità dell’apporto dato dal Governo e dal popolo Italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra.
Le Nazioni Unite dichiararono tuttavia senza riserva che ovunque le forze Italiane o gli Italiani combatteranno i Tedeschi, o distruggeranno proprietà tedesche od ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l’aiuto possibile dalle forze delle Nazioni Unite …….”[6].
Il giorno 11 settembre il nostro Comando Supremo, visto che i Tedeschi avevano preso l’iniziativa delle aggressioni contro i nostri reparti, ordinò a tutte le forze amate italiane di “considerare da quel momento i Tedeschi come nemici ed agire in conseguenza”[7].
Pur non esistendo lo stato di guerra con la Germania – la dichiarazione fu presentata dal Governo italiano solo il 13 ottobre 1943 – non esitava a spingere le truppe ad atti di vera e propria guerra contro le forze germaniche perché con queste azioni si pensava di rispondere alle richieste formulate col messaggio di Quebec.
Nello spingere le unità dipendenti ad operare con risolutezza contro il suo nemico, le nostre autorità militari si preoccuparono pure dei rapporti che, in fase di collaborazione, sarebbero intercorsi fra comandi Italiani e comandi Alleati suggerendo di prendere accordi per l’attività di cooperazione, ma di “evitare di proporre, per ora, che grandi unità Alleate operino ai nostri ordini”. Quanto sopra è indice delle più paradossali illusioni nate nell’animo delle nostre più paradossali illusioni nate dall’animo delle nostre più alte autorità militari che volutamente si dimenticavano delle clausole armistiziali[8].
Si pensò di organizzare delle grandi unità con i prigionieri di guerra, magari creando nelle stesse zone di prigionia i reparti per tenerli lontano dall’Italia libera ove iniziava il discorso politico pluripartitico e soprattutto perché in quelle zone – ossia i vecchi campi di battaglia – era possibile reperire armi e soprattutto munizionamento per le stesse. I nostri comandi si affannarono a riunire grandi quantità di uomini, privi di armi, vestiti, scarpe ed ad inquadrarli in fantomatici reparti che restavano tali solo sulla carta[9] [10].
Gli Alleati chiedevano reparti di soldati-lavoratori ed i nostri comandi offrivano reparti combattenti pur avendo la consapevolezza delle enormi difficoltà per equipaggiare, armare e rifornir tali reparti[11].
Alla fine di settembre, al convegno di Malta, il generale Eisenhower dichiarò che era molto importante che le truppe Italiane concorressero a liberare il territorio Italiano ed incaricò le nostre autorità ad approntare delle divisioni di “ELITE” con i soli mezzi Italiani.
In quel periodo era in tutti la consapevolezza – od almeno la speranza – che la liberazione di Roma fosse una cosa imminente e ci si preoccupò di vedere l’approntamento di questi reparti in due momenti: uno immediato, con i reparti che dovevano entrare in Roma con gli Alleati, ed uno susseguente, con i reparti che sarebbero dovuti entrare in azione dopo la liberazione di Roma[12].
La questione della partecipazione alla guerra di Liberazione era diventata come un chiodo fisso per le nostre autorità.
L’atteggiamento Anglo-Americano era invece enormemente contrastante; da un lato ci invitavano a combattere affermando che la nostra sorte futura sarebbe dipesa dall’entità del nostro apporto bellico, mentre dall’altro ci ostacolavano in ogni modo cercando di ridurre al minimo la nostra partecipazione.
Dopo molte insistenze si riuscì ad ottenere l’impiego di uan divisione che doveva essere costituita da elementi scelti preferibilmente volontari, potentemente e modernamente armata ed idonea ad operare in terreno vario e di media montagna. Essa doveva dare sicura prova di sé per dare agli Alleati fiducia nelle armi italiane e nello spirito combattivo dei nostri soldati[13].
La scelta del reparto base fu la Divisione Legnano che trovavasi pressoché intatta nella zona di Brindisi.
Le difficoltà cominciarono non appena si cercò di definire la zona di raccolta della divisione per completarvi l’organizzazione e l’addestramento. Le continue richieste alleate di automezzi, salmerie ed uomini complicavano enormemente ogni cosa.
Soltanto con la nomina del Maresciallo Messe al posto del generale Ambrosio, come Capo si S.M. Generale, si ebbe un allentamento sulla politica militare di guerra dell’altalena che gli Alleati seguivano con noi.Il 27 settembre 1943 nasceva il I° Raggruppamento Motorizzato così composto:
Comando del Raggruppamento costituito dal Comando della Divisione “Legnano”.
Un Reggimento di fanteria motorizzato costituito dal 67° fanteria “Legnano” e dal II° Battaglione Allievi Ufficiali Bersaglieri, distintosi per alcune azioni subito dopo l’armistizio.
Un Reggimento di artiglieria motorizzato costituito dall’11° della divisione “Mantova”.
Il V° Battaglione controcarro.
Una Compagnia mista del Genio.
Una sezione Carabinieri.
Servizi: Nucleo di Sanità – Nucleo Sussistenza.
Nel Raggruppamento erano presenti tutte le regioni Italiane, tutte le forze armate: in esse confluirono fanti, carabinieri, bersaglieri, granatieri, alpini, carristi, paracadutisti, cavalieri, artiglieri, genieri, marinai, avieri di ogni ceto sociale. Numerosi furono gli universitari che si arruolarono volontariamente.
Date le zone di reclutamento di alcuni reparti che costituivano il Raggruppamento le percentuali di rappresentanza regionale furono:
Piemonte 4,80 %
Liguria 2 %
Lombardia 33,20 %
Veneto 33,20 %
Emilia 10,80 %
Toscana 4,10 %
Marche 5,00 %
Umbria 0,60 %
Lazio 4,10 %
Abruzzo 3,00 %
Campania 3,00 %
Lucania 1,00 %
Puglie 7,00 %
Calabria 1,00 %
Sicilia 4,00 %
Sardegna 0,35 %
Estero 0,05 %
Assunse il comando del Raggruppamento il Generale di Brigata Vincenzo Dapino già comandante interinale della Divisione “Legnano”.
Se la composizione etnica era abbastanza omogenea quella delle dotazioni rappresentava invece un campionario di tutti i mezzi usati nella guerra 1939 – 1943.
Circa settecento erano i veicoli del Raggruppamento, compresi i trattori di artiglieria e i motocicli, e rappresentavano il più variato autoparco che si fosse mai visto. Ogni autocarro FIAT vi era rappresentato, magari con una sola unità per tipo; vi erano i MERCEDES, gli ALFA ROMEO, i BIANCHI, i LANCIA, gli SPA, gli OM, i CITROEN, perfino un autocarro GROSWARD, un vetusto CEIRANO e quattro ISOTTA FRASCHINI.
Malandate e di vecchio tipo le armi della fanteria, quasi assenti le armi automatiche individuali, insufficiente la riserva delle munizioni, precaria la situazione delle calzature, di tela kaki-tipo africale divise, per essere più assomiglianti alle uniformi alleate almeno per il colore; in queste condizioni fu equipaggiato “MODERNAMENTE” il Raggruppamento [14].
Il simbolo scelto per questa Unità del risorto esercito italiano fu lo scudo sabaudo, da cucire sul petto delle giubbe degli uomini e da pitturare sugli automezzi a fianco della stella americana.
Non tutti si erano trovati unanimi sul fatto che il Raggruppamento dovesse mettersi a fianco degli Alleati in vista di un vicino impiego operativo; qualcuno vi aveva visto una chiara speculazione politica per arrivare poi, al momento della pace, con una patente di fedeltà; qualcun altro vi aveva scorto il trampolino per il rilancio della casa Savoia le cui azioni erano da tempo piuttosto in ribasso.
Polemica istituzionale, questione nazionale.
La più grave delle questioni sulle quali il Fronte politico italiano era diviso era la questione delle monarchia, del re, della sua funzione in quel momento, del suo destino e del destino dell’istituto monarchico; sia il re che il principe ereditario non erano intenzionati ad abbandonare il campo.
Alle 22,45 del 25 luglio 1943 la caduta del fascismo era diramata per radio con due successivi comunicati. Nel primo, Vittorio Emanuele assumeva il comando di tutte le forze armate ed ammoniva: “nell’ora solenne che incombe sui destini della Patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione essere consentita”. Nel secondo, Badoglio assumeva il governo militare del paese con pieni poteri ed avvertiva: “la guerra continua, l’Italia duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa delle sue millenarie tradizioni”.
Il popolo ebbe ventiquattrore di libertà: dalla dittatura fascista passò alla dittatura militare.
Dopo quarantacinque giorni si giunse all’8 settembre: all’armistizio voluto in modo determinante da quella classe dirigente monarchica che prima era in combutta con il fascismo.
Predomina nelle prime battute della campagna d’Italia la pervicace volontà dei gruppi reazionari angloamericani di mantenere al potere la monarchia, screditata e complice del fascismo, come la migliore garanzia per l’esecuzione delle clausole dell’armistizio, di far leva solo su di essa per il futuro assetto italiano[15].
L’esercito regolare muore per dissanguamento e per abbandono: schiacciato da una guerra più grande di lui, ma anche lasciato a sé, nelle ore dell’agonia, dal re e dal comando supremo.
Il ripudio dell’esercito è anche mancanza di intelligenza e di fantasia., è anche il ricorso alla soluzione più facile: si sciolgono le armate, avvenga ciò che può ai reduci delle sfortunate, spesso gloriose battaglie, perché si salvi il gruppo di potere che sta attorno al re. La corte crede, o finge di credere, che la sua salvezza coincide con quella del Paese; si da attorno per ricostruire un esercito “INSTRUMENTUM REGNI”, a Italia liberata dagli angloamericani, sotto la loro protezione, evitando così la formazione delle milizie popolari.
Il sacrificio dell’esercito alla segretezza dei negoziati armistiziali è ampiamente documentato.
Gli ordini che il comando supremo invia alle grandi unità, ambigui come i suoi silenzi, sono dettati da quell’unica preoccupazione: che nulla trapeli, che l’alleato tedesco resti incerto nell’incertezza dei nostri soldati[16].
Ci sono due equivoci nella disfatta. Il governo regio fuggiasco a Brindisi crede di poter tornare entro pochi giorni a Roma alla guida di un Paese conservato al re dall’abile congiura dell’armistizio.
A Roma, subito dopo l’armistizio, i nuclei della resistenza politica, si riuniscono in n alloggio in via Adda e, presenti Ivanoe Bonomi (indipendente), Casati (liberale), De Gasperi (democristiano), Scoccimarro (comunista), Nenni (socialista), La Malfa (azionista), danno vita alla costituzoione dei Comitati di liberazione nazionale che hanno per scopo principale l’unità delle forze antifasciste nella lotta contro il nazifascismo.
Vista la fuga del re da Roma è chiaro che l’unico organo autorevole che può rappresentare il popolo italiano è il CLN e lo stesso Ivanoe Bonomi, eletto presidente, dichiara che “… nell’assenza del governo regio il Comitato di Liberazione potrà essere considerato l’unica organizzazione capace di assicurare la vita del Paese”[17].
Fra i Comitati di Liberazione, la monarchia e il governo del Sud è complessa la relazione che intercorre.
I cinque partiti che guidano la Resistenza armata del Nord (manca il partito demolaburista), i sei del Comitato Nazionale romano, i sette dei Comitati del Sud (si è aggiunto il partito dei combattenti) sono ostili al vecchio re Vittorio Emanale e III e pur avendo opinioni diverse sull’istituto, credono sia loro convenienza star fuori da un governo nominato dallo accreditato monarca. L’opinione pubblica è ancora sotto l’impressione della vergognosa fuga a Pescara, la monarchia sembra giunta al punto più basso della sua fortuna.
Viene però la dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre e il Maresciallo Badoglio, forte delle assicurazioni alleate, non esita a rendere note le sue dure condizioni. La monarchia non si tocca, gli antifascisti sono invitati a “integrare” con la loro partecipazione il governo Badoglio, ma sia ben chiaro che il problema istituzionale è accantonato per tutto il corso della guerra. E poi? Poi con il benestare dei vincitori, egli il maresciall0o Pietro Badoglio, lascerà “libero il popolo italiano di scegliersi con le elezioni il governo che più gli aggradirà. Il governo con la forma di Stato . Il governo, non la forma di Stato[18].
A questo “DIKTAT” il campo antifascista non può non reagire in termini netti; la resistenza deve affermare in modo solenne che l’avvenire del Paese non potrà essere deciso sopra la sua testa.
Essa è d’accordo alla guerra comune contro il tedesco ma non può accettare l’ipoteca monarchica sul futuro; chiede che venga promossa la costituzione di un governo straordinario che rappresenti quelle forze che hanno lottato contro la dittatura fascista e che dovrà:
assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato evitando ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare;
condurre la guerra di Liberazione a fianco delle Nazione Unite;
convocare il popolo, al cessare delle ostilità, per decidere sulla forma istituzionale dello Stato[19].
Solo i CLN del Sud, che sono esenti dalla lotta armata ed esclusi dal potere, fanno della battaglia istituzionale la loro ragion d’essere. Nel Sud c’è una debole opposizione repubblicana, il conservatorismo illuminato che fa capo a benedetto Croce, ostile al sovrano quanto favorevole all’istituto, cerca abilmente di indirizzare l’avversione popolare sulla persona del vecchio sovrano, designato come capro espiatorio. Il croce è favorevole alla abdicazione del re a favore del figlio, al suo ritorno a Roma[20].
Continua il Croce “… dalle notizie che ho ricevuto e da documenti che ho visto, ho tratto ilo convincimento che il re e il servitorame che lo circonda, pensano alla salvazione della monarchia mercè del sostegno che troverebbe nel grosso degli ex fascisti, che essa protegge come può, affinché non siano molestati”.
Sono i giorni in cui Vittorio Emanuele non esita a brigare perché nel governo di Brindisi entri Dino Grandi[21].
Il problema della monarchia è riproposto con urgenza dallo sbarco alleato ad Anzio: la guerra ha raggiunto il Lazio, si pensa al ritorno dei poteri nella capitale storica, si pensa alla scelta istituzionale.
Nei cinque mesi di lotta la disposizione delle forze si è rovesciata: il Nord prudente all’inizio, ha ora verso la monarchia durezze giacobine; il Sud già oltranzista, indulge a compromessi sempre più vicini alla capitolazione.
Il 28 gennaio 1944 si apre a Bari il congresso dei partiti antifascisti e, due giorni prima dell’inizio, il CLNAI invia al Congresso stesso un messaggio dove si ribadisce l’urgenza della costituzione di un governo, alla liberazione di Roma, che rappresenti i CLN, assuma tutti poteri costituzionali fino a quando il popolo italiano non potrà liberamente decidere sulle forme istituzionali dello Stato e respinga ogni compromesso e patteggiamento col regime fascista che lo hanno sostenuto.
A Nord i partiti comunista, azionista e socialista rinunciano a chiedere l’immediata decadenza della monarchia perché sono fiduciosi che la guerra partigiana legherà alla repubblica masse sempre più vaste.
A Sud invece, i moderati si sono messi al rimorchio di Croce che, lontano dall’Italia industriale, ha della resistenza una idea vaga, risorgimentale. Egli ritiene che la monarchia sia ancora necessaria a uno Stato liberale e tenta di salvarla sacrificando il monarca “responsabile delle sciagure del Paese” persuadendolo alla abdicazione di fatto grazie alla formula della luogotenenza.
Nel Sud le sinistre hanno scarsa penetrazione nelle campagne, i moderati, invece, contano sulla reste degli interessi e delle servitù economiche, godono l’appoggio del governo e degli Alleati e sono il gruppo più autorevole al Congresso di Bari.
Essi non esigono un governo “emanazione del CLN” è sufficiente che sia “antifascista” che abbia “l’appoggio delle masse popolari”, ad uso delle quali propongono una “Giunta esecutiva permanente”, di emanazione del CLN, ma con funzioni puramente consultive.
Al nuovo esecutivo chiedono di “intensificare lo sforzo bellico e di preparare le elezioni per l’Assemblea Costituente”[22].
E’ la tesi che prevale al Congresso di Bari.
Il contrasto è netto: di fronte al Nord che vuole rompere con il vecchi Stato, c’è un Sud pago di un rimpasto[23].
Guido Dorso e l’episodio di Avellino
Il Raggruppamento, partito dalle Puglie, arriva ad Avellino dopo un trasferimento di tre giorni in una giornata di pioggia battente. Una folla plaudente, incurante della pioggia è ad aspettare i soldati italiani; dal balcone della Prefettura, insieme a quelle Alleate, pende anche la bandiera italiana.
Ma sotto l’apparenza dell’accoglienza calorosa e spontanea, Avellino è destinata ben presto a rivelarsi un vero disastro. Impera la miseria, c’è carenza di viveri, di beni, di ogni cosa e la gente si arrangia come può. La città è semidistrutta. Il viale dei platani, sulla strada per Napoli, reca i segni del passaggio dei mezzi corazzati; alberi secolari sono stati abbattuti, tutt’intorno vi sono cumuli di macerie. “Scugnizzi” seminudi e stracciati vagano scalzi, infastidendo le truppe, cercando di infilarsi fra gli automezzi, di carpire caramelle, pane, sigarette.
Ad Avellino ogni entusiasmo scompare, ogni buona volontà viene meno. Ci si deve fermare in quel luogo una ventina di giorni soltanto, ma basta questo breve periodo per mandare a monte tutto il lavoro preparatorio. Nella zona regna sovrano il contrabbando, il mercato nero, il sordido traffico di piccolo cabotaggio: i mali di sempre di aderto meridione immiserito e privo di prospettive.
Quest’atmosfera contagia in breve tutti gli uomini del Raggruppamento.
Trattandosi di una compagine di volontari, continuano ad affluire dei candidati che mettono la propria firma, vengono vestiti da capo a piedi e la mattina dopo sono già spariti nel micidiale caos di quei giorni. Ciò avverrà soprattutto per il battaglione complementi di stanza a Casagiove nei pressi di Caserta.
Molte, moltissime sono le diserzioni. Si arraffa la rozza coperta da campo, diventata all’improvviso un bene prezioso, si mettono le mani su quattro carabattole e si va a vendere tutto in città, guardandosi bene dal tornare poi al reparto. Si approfitta della situazione di caos, si pesca nel torbido, è gente che ha perso ogni fiducia, ogni rispetto – e non avrebbe potuto essere altrimenti – non ha alcuna voglia di rimettersi a combattere.
Non mancano ad Avellino anche i prevenuti, quelli che vedono nel I Raggruppamento Motorizzato unicamente dei “Badogliani”, gente che inalbera lo scudetto sabaudo sul petto. Basta prendere e sfogliare il n.6 dell’organo del Comitato Irpino del Fronte Nazionale di Liberazione. In questo sesto numero, uscito il 4 dicembre 1943, c’è un articolo a firma Antonio Meccanico in cui, fra l’altro, si legge:
“… non possiamo permettere che sul nostro sangue si speculi e si cerino miti e compromessi: si sappia una volta per sempre che noi non ci lasceremo cucire patacche sul petto (allusione allo scudetto, simbolo del Raggruppamento), né ci faremo irreggimentare in compagnie di ventura; sappiamo l’importanza che avrebbe per gli sfruttatori una cieca frenesia bellica, e le conseguenze disastrose di una falsa “union sacrèe” edificata sulla nostra euforia, perciò non ci prestiamo al gioco …”[24].
Inoltre diviene famoso quel periodo anche per i fatti accaduti a seguito dell’articolo pubblicato il 13 novembre 1943 sul numero 3 dell’ “Irpinia Libera”da Guido Dorso ed intitolato “Ruit Mora”![25].
Tale articolo provocò le ire di numerosi allievi ufficiali bersaglieri del Raggruppamento che invasero l’abitazione del Dorso protestando contro il contenuto dell’articolo stesso che offendeva i loro sentimenti monarchici e legittimisti.
Guido Dorso calmò i giovani spiegando loro che erano ancora ammalati di fascismo; poco dopo fu visitato da un gruppo di ufficiali che richiesero una smentita di quanto scritto pena l’applicazione di sanzioni materiali.
Soltanto la notizia che Dorso aveva notificato l’accaduto al Governatore americano fece smettere tale atteggiamento di alcuni uomini del Reparto Bersaglieri.
Subito dopo la partenza delle truppe italiane da Avellino, la stampa internazionale impadronitasi della notizia, potette segnalare il risorgere del fascismo in Italia.
La propaganda monarchica nell’esercito.
Per poter oggi comprendere come veniva effettuata la propaganda tra le truppe occorre rivedere alcuni scritti di allora; nella loro interpretazione si può comprendere quello che avveniva ai reparti. Al termine del breve ma intenso ciclo operativo che aveva portato alla conquista di Montelungo, il comandante del Raggruppamento indirizzò alle truppe un vibrante ordine del giorno nel quale così concludeva “… Il Raggruppamento, cementato dalle prove subite, orgoglioso dei suoi successi, memore dei suoi caduti, diventerà uno strumento sempre più valido per la liberazione della Patria, sempre più degno di costituire il primo nucleo del risorto esercito italiano. E un giorno le gesta del 1° Raggruppamento saranno avvolte in una luce di leggenda …”[26].
Per controllare meglio i soldati fu intensificata l’assistenza morale alle truppe che fu prodigata razionalmente e con larghezza. Approfittando del periodo di riposo si cercò anzi di fare ad essa ogni possibile impulso prescrivendo intanto che tutti gli ufficiali si tenessero in continuo contatto con i militari dipendenti e che non si mancasse di tenere la truppa costantemente al corrente dei principali avvenimenti militari e politici – con i relativi filtri sull’informazione, provvedendo in pari tempo sia ad isolare quegli elementi che potessero esercitare una influenza deleteria sullo spirito della truppa sia a combattere “qualsiasi germe di sfiducia e di disorientamento”.
Si invitavano gli ufficiali di seguire tutta quella propaganda disgregatrice di certa stampa politica nonché di taluni elementi la quale, trovando facile appiglio nella incertezza delle coscienze, finiva con l’insinuare e diffondere il discredito sulle istituzioni e sui capi.
Altro importante fattore di disagio morale fra le truppe è la crisi di sfiducia che sta attraversando gran parte del nostro Paese.
La coscienza che il Paese, nel lungo periodo del regime fascista, sia stato ingannato da una falsa propaganda la visione della rovina alla quale esso è stato condotto, il senso dell’inutilità dei sacrifici compiuti rendono gli animi restii ad ascoltare qualsiasi nuova parola di fede. Governo, comandi militari e personalità politiche di ogni tendenza sono accomunati in una unica ondata di sfiducia.
A queste cause di minore resistenza dello spirito delle truppe, si aggiunge, nei giovani più colti, quali gli allievi ufficiali, il profondo disorientamento verificatosi, in animi diseducati da un ventennio di fascismo, dall’improvvisa caduta di tutti gli ideali che erano stati loro prospettati, e si prospettavano in continuazione, come i supremi valori morali. Essi sono meno disposti a vedere con realismo le condizioni e le possibilità del nostro Paese e ad affrontare per esso un sacrificio che appare loro sterile ed oscuro.
In molti militari c’è un turbamento di fronte alle voci di un possibile impiego di truppe italiane da parte dei tedeschi. Questo stato d’animo di perplessità e di incertezza rende inaccettabile a molti il pensiero di un’eventuale lotta civile[27].
Questi fattori di disagio morale non sono d’altra parte neutralizzati da quegli elementi che normalmente sorreggono lo spirito di una truppa: la consuetudine del dovere, il senso della stabilità delle istituzioni, la certezza del premio per chi adempie il proprio dovere e del castigo per chi vi si sottrae.
Il Raggruppamento non era in grado ancora di ritornare in linea; si attendevano i nuovi complementi che avrebbero aumentata la consistenza organica in quella di una vera divisione.
Tra le tante cose pensate in quel periodo per rivalorizzare i resti di quello che fu il I Raggruppamento, il comandante dello stesso propose, allo Stato Maggiore dell’esercito, di assegnare alla nuova unità il nome di “Vittorio Veneto” particolarmente significativo per il momento storico che si attraversava e soprattutto perché non si sarebbe prestato a discorsi speculativi.[28]
Continuando nella consultazione dell’opera sopra citata, possiamo leggere da un “memorandum” del Comando della V Armata Americana diretto al Capo di Stato Maggiore della V Armata in data 24 gennaio 1944: “Il generale Utili (nuovo comandante del I Raggruppamento Motorizzato) ha espresso il desiderio di spostare il 67° fanteria fuori della zona del Raggruppamento per non avvelenare gli animi del 68° fanteria che sta per giungere”.[29]
La popolazione meridionale ed i combattenti.
Il I Raggruppamento Motorizzato si realizza, per volontà dei comandi militari badogliani, nell’angosciato e sconvolto regno del Sud “dominato allora – come ha scritto uno storico[30] – dalla fatalità degli avvenimenti” dove le popolazioni civili dopo il sommovimento politico del 25 luglio, la disfatta militare dell’8 settembre e l’invasione alleata, erano soggette a requisizioni e spogliazioni dei loro miseri beni da parte dei soldati Anglo-Americani che qui si erano insediati coi loro strepitosi mezzi meccanici[31].
Nel Raggruppamento il primo materiale umano, dirigente e subalterno, proveniva da alcuni reparti dell’esercito italiano fascista che una casuale dislocazione nelle Puglie, avanti l’armistizio, aveva risparmiato dall’uragano dissolvitore e dal fatidico “tutti a casa” . Gli alti comandi militari di Badoglio, fuggiti da Roma insieme al re, ponevano gli occhi sul 67° reggimento fanteria Legnano e sul 51° Battaglione bersaglieri Allievi Ufficiali per le truppe di linea; per il personale dirigente invece si attingeva dagli alti comandi della V Armata e dal 9° e 51° Corpo d’Armata, cioè dalle divisioni Legnano, Mantova e Piceno[32].
Si ricostituisce un compatto apparato della gerarchia militare, anche se nel suo interno permangono rivalità personalistiche legate alle vicende precedenti che esplodono in occasione della scelta del comandante della piccola unità in formazione. Rispunta così l’antico dissapore fra Roatta e Ambrosio i quali manovrano dietro le quinte a Brindisi: Roatta vuole il generale Zanussi, Ambrosio invece il generale Dapino. La spunta quest’ultimo finché di li a poco rientra il Maresciallo Messe dalla prigionia (per volere degli Alleati) ed il potere decisionale passa a lui che: sostituisce Dapino con il generale Utili; nomina il generale Taddeo Orlando sottosegretario alla guerra nel gabinetto Badoglio a fianco del comunista Mario Palermo.
Data l’origine etnica della maggior parte della truppa del Raggruppamento, vi fu una scarsa compenetrazione con le popolazioni civili meridionali, la stessa rigida differenza che ancora esisteva tra superiori ed inferiori, infatti la massima parte degli effettivi del 67° fanteria erano lombardi, anziani reduci quasi tutti dai fronti russo, africano e greco-albanese, stanchi della “naja” e difficili ad inserirsi nella vita e nell’animo dei “terroni”.
Questi soldati erano in stato di “crisi”, di “disorientamento di coscienze”, di “sbandamenti e diserzioni” sotto l’influenza, si disse, di “alcuni elementi incontrollabili” che fomenterebbero “il decadimento delle virtù civili”[33]. I soldati sono e si sentono staccati sia dagli ufficiali superiori che dalla popolazione civile.
Tra le popolazioni meridionali del cosiddetto “regno del sud” solo una piccola minoranza, che agisce attorno ad altrettanti focolai antifascisti di carattere intellettuale, dimostra una coscienza politica e perciò spesso si oppone ai reparti badogliani identificati con la monarchia o per lo meno al suo servizio.
In tali minoranze si nota l’effetto della propaganda di quei partiti antifascisti che avrebbero, di li a poco, affermato – nel congresso dei CLN dell’Italia meridionale tenutosi a Bari – la propria intransigenza repubblicana, almeno fino alla svolta di Salerno.
La grande massa, invece, della popolazione meridionale, fatta di contadini e mezzadri, per l’antica e tradizionale soggezione, restava in genere “fuori della storia” per usare una frase felice di Battaglia.
Nessun fermento operaio organizzato l’aveva, se non altro, scarsamente lievitata e pertanto ora si trovava in balia di un tragico fatalismo, di una disperazione inoperante, di un caos spaventoso che paralizzava ogni iniziativa [34][35], come tristemente notava Giaime Pintor in una sua famosa lettera[36]. Proprio Pintor era stato uno dei volenterosi che aveva tentato la formazione alternativa al Raggruppamento di bande volontarie autonome per collaborare con gli alleati nella guerra antitedesca e antifascista. Lo stesso Benedetto Croce aveva stilato un manifesto per la chiamata di quei volontari che avrebbero dovuto combattere all’insegna del “tricolore italiano”[37]. Ma senza alcun risultato.
Il Sud orientale restava completamente sordo, a differenza di quello occidentale che aveva dato le quattro giornate di Napoli[38]; non lo muoveva nemmeno quel ritenuto legame monarchico che praticamente in questo frangente non compariva; non lo scuotevano i fatti tragici della catastrofe della ferrovia Napoli-Potenza con 500 morti, né il ricordo di alcuni soprusi subiti dai tedeschi.
La classe militare badogliana partiva quindi inizialmente con questo grosso svantaggio - che poi risulterà agevolante nella realizzazione dei suoi piani – cioè manca di una parte vitale del Paese, sganciata dalla realtà popolare circostante e perfino priva della collaborazione delle “élites” antifasciste, le quali anzi le erano ostili.
La truppa, che si allineava all’inizio piuttosto passivamente e in parte forzatamente come classe subalterna, finiva per far blocco con la classe dirigente subendo quasi un processo di assorbimento[39].
La precarietà della situazione interna, militare e politica, ispira, di volta in volta, il comportamento alleato e di conseguenza si riflette sul tessuto umano del CIL oltrechè sulla gerarchia dello stato maggiore italiano, gerarchia che acquista lentamente coraggio nel contrastare l’intransigenza repubblicana dei partiti antifascisti e punta, attraverso l’apporto combattentistico, sul salvataggio della monarchia rilanciata dalla luogotenenza di Umberto. Un dato emerge – e resterà costante anche dopo la svolta dei Salerno – ossia l’ostilità segreta tra classe militare e classe politica.
Il flusso ideologico, serpeggiante più o meno scopertamente nei comandi militari con riflessi sui soldati, ha avuto pulsazioni diverse a seconda del “momento” politico e si può riassumere in tre fasi[40].
La prima fase comprende i tempi di rodaggio e di sperimentazione fino alla liberazione di Roma e appare contrassegnata dalle controspinte estrinseche del congresso di Bari e della “svolta” di Salerno. E’ forse la più importante perché la classe militare - favorita dal distacco pressoché totale con la popolazione del Sud – riesce ad orientare i soldati a quello spirito di restaurazione patriottica che resterà anche in seguito sotto l’etichetta della “apoliticità”.
La seconda fare invece, dalla liberazione di Roma alla costituzione dei Gruppi di Combattimento cioè fino alla Linea Gotica, si sviluppa nel contesto politico-sociale abruzzese e marchigiano, molto diverso da quello meridionale, in sincronia con la lotta partigiana al suo massimo culmine di compattezza democratica. In più, durante questa fase, si hanno significativi innesti di ex partigiani che riescono, all’interno del CIL, a creare le prime correnti di discussione politica prontamente represse dai comandanti militari.
La terza ed ultima fase, quella più vivace ma che dura troppo poco tempo per incidere sulla struttura, rappresenta un “vero momento” di autentica democratizzazione. Fu veramente una cosa troppo breve e coincise con l’impiego dei Gruppi di Combattimento nella zona padana-romagnola in stretta collaborazione con brigate partigiane e popolazione fino alla primavera del 1945.
Nei Gruppi di Combattimento, con l’arrivo di circa 20.000 volontari provenienti dall’Umbria, dalle Marche e dalla Toscana ed in massima parte con esperienza partigiana, si impose una ideologizzazione che fino allora l’apparato militare era riuscito a controllare se non proprio ad eliminare. A Cesano, dove i volontari furono inviati per un breve periodo di addestramento, ricevettero la visita di dirigenti comunisti, di capi partigiani e sottosegretari; visite che alimentarono la loro politicizzazione.
E’ con questo spirito che entrano nei Gruppi di Combattimento e si innestano sul vecchio tronco dell’esercito. A loro favore giocano una sentita solidarietà popolare nella zona romagnola d’impiego con esplicito carattere antifascista, la compattezza conservata nei reparti e il contatto con altre brigate partigiane mantenute autonome sotto il comando tattico militare, come nel ravennate la “Brigata Gordini” di Bulow e nel bolognese la “Brigata Maiella” di Trailo[41].
[1] Vedi appendice – allegato n. 30.
[2] Vedi appendice – allegato n. 30
[3] Vedi appendice – allegato n. 16.
[4] Vedi appendice – allegato n. 30.
[5] Vedi appendice – Allegato n. 17.
[6] AGOSTINO DEGLI ESPINOSA – Il regno del Sud – Ed. Riuniti, Roma, 1973, pag. 202.
[7] Vedi appendice – Allegato n. 18.
[8] Vedi appendice – Allegato n. 16.
[9] Vedi appendice – Allegato n. 19.
[10] Vedi appendice – Allegato n. 20.
[11] Vedi appendice – Allegato n. 21.
[12] Vedi appendice – Allegato n. 22.
[13] Vedi appendice – Allegato n. 23.
[14] vedi appendice – allegato n.24
[15] Roberto BATTAGLIA, op. cit..
[16] Giorgio BOCCA, op. cit..
[17] Ivanoe BONOMI, Diario di un anno: 2 giugno 1943 - 10 giugno 1944, Garzanti Editore, Milano 1947, pag. 130.
[18] Giorgio BOCCA, Opera citata, pag 95.
[19] Franco CATALANO, Storia del CLNAI, Laterza, Bari 1956 (Mozione del CLN di Roma, pubblicata da tutta la stampa clandestina), pag. 70.
[20] Benedetto CROCE, Quando l’Italia era tagliata in due, Laterza, Bari 1963, pag. 196.
[21] Franco CATALANO, Storia del CLNAI, Laterza, Bari, 1956, pag.68.
[22] Franco CATALANO, Storia del CLNAI, Laterza, Bari 1956, pag.111.
[23] Roberto BATTAGLIA, op.cit., pag. 259.
[24] Antonio RICCHEZZA, op. cit., pagg. 38 e 39.
[25] Vedi appendice - Allegato n. 25.
[26] MINISTERO DELLA DIFESA, op. cit., pag. 71.
[27] GABRIO LOMBARDI- Il corpo Italiano di Liberazione, pag. 34.
[28] MINISTERO DELLA DIFESA, op.cit,, pag. 81.
[29] Vedi Appendice – Allegato n. 26.
[30] ROBERTO BATTAGLIA, op. cit.
[31] AGOSTINO DEGLI ESPINOSA, op. cit..
[32] LORENZO BEDESCHI – L’ideologia politica del CIL – Aralia Editore, Urbino 1973, pag. 18.
[33] LORENZO BEDESCHI, op. cit., pag. 20.
[34] ROBERTO BATTAGLIA – op. cit., pagg. 307-313.
[35] AGOSTINO DEGLI ESPINOSA – op. cit.
[36] GIAIME PINTOR – Il sangue dell’Europa, Torino, Einaudi 1950, pagg. 119-120
[37] G. SPINI – I gruppi combattenti in Italia; un fallito tentativo di costituzione di un corpo di volontari nell’Italia meridionale, in “Il movimento di Liberazione in Italia”, nn. 34-35 1955, pagg. 80-119.
[38] CORRADO BARBAGALLO – Napoli contro il terrore nazista, Napoli Maone.
[39] LORENZO BEDESCHI – opera citata, pag. 22.
[40] LORENZO BEDESCHI – op. cit., pagg 26-27.
[41] LORENZO BEDESCHI, op. cit., pagg 27 e 47
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