venerdì 12 aprile 2019
Il Primo fronte della Guerra di LIberazione
Il Fronte del
Sud:
Primo Raggruppamento Motorizzato, Corpo Italiano di Liberazione, Gruppi di
Combattimento
Osvaldo Biribicchi
Parlare
di “fronte del sud” significa parlare degli avvenimenti che hanno investito
l’Italia dopo l’8 settembre 1943, la data in cui è stata annunciata la
richiesta di armistizio agli Alleati da parte del governo italiano. Per poter
parlare e meglio comprendere il contributo dato alla Guerra di Liberazione ed
alla Campagna d’Italia dai combattenti inquadrati nelle Unità regolari
dell’Esercito, inclusi i Carabinieri, della Marina e dell’Aeronautica, della
Guardia di Finanza e dal personale del Corpo Militare della Croce Rossa
Italiana in particolare dell’Esercito attraverso il Primo Raggruppamento Motorizzato, il Corpo Italiano di Liberazione ed infine con i Gruppi di Combattimento, è necessario un sintetico inquadramento temporale
dei principali avvenimenti politici e militari che hanno preceduto e poi portato
il governo italiano a chiedere l’armistizio.
La
guerra, iniziata dall’Italia il 10 giugno 1940, dopo la tragica ritirata dalla
Russia e la resa delle truppe italo-tedesche in Nord Africa il 12 maggio 1943 volgeva
inevitabilmente alla sua conclusione. Di ciò erano consapevoli il governo
fascista, il Re e milioni di italiani ormai stanchi di lutti ed inutili
sacrifici. Prolungare un conflitto ormai perduto avrebbe significato solamente
aggravare la già critica situazione economica e sociale, rinviare la sconfitta
finale, esporre l’Italia ad ulteriori perdite di vite umane e distruzioni apocalittiche.
Fu in questa atmosfera che gli anglo-americani si prepararono ad invadere la
penisola italiana. La caduta di Lampedusa e Pantelleria l’11 ed il 12 giugno
1943 fu la premessa dello sbarco in Sicilia degli anglo-americani che avvenne il
10 luglio tra Siracusa e Licata, in attuazione della operazione “Husky”.
Iniziava
la cosiddetta Campagna d’Italia che
per i tedeschi invece sarebbe iniziata la sera dell’8 settembre 1943 nel
momento in cui Badoglio annunciò l’armistizio. Per entrambi terminerà il 2
maggio 1945 con la firma, nella Reggia di Caserta, della resa di tutte le forze
tedesche in Italia.
In
Sicilia gli italiani dopo una iniziale resistenza non riuscirono a contenere le
soverchianti forze da sbarco degli Alleati. Il 12 luglio, la linea di difesa
costiera italo-tedesca fu sfondata. Pochi
giorni dopo, il 19, Mussolini si incontrò a Feltre con Hitler con l’intenzione
di esporre all’alleato la drammatica situazione in cui versava l’Italia e
l’impossibilità a poter continuare la guerra. Di fronte ad Hitler, determinato
a proseguire ad oltranza la lotta fino alle estreme conseguenze, Mussolini che
ormai aveva esaurito ogni energia non trovò la forza di esporre ciò che i suoi
più stretti collaboratori, fra questi il capo di stato maggiore generale
Ambrosio, gli avevano suggerito.
Il
giorno in cui si svolsero i colloqui italo-tedeschi di Feltre, Roma venne bombardata
pesantemente, (dalle ore 11,05 alle 14,20) da circa 200 bombardieri Alleati
che, in sei successive ondate, colpirono in modo particolare soprattutto i
quartieri popolari di San Lorenzo e Tiburtino, sedi di importanti scali
ferroviari, Prenestino, Tuscolano e Casal Bertone. Fu colpito anche il Cimitero
del Verano. Le vittime accertate furono 1.486.
L’impatto
sul morale della popolazione già provata fu notevole; il Papa Pio XII uscì dal
Vaticano e si recò nei luoghi del bombardamento invocando la pace e la fine del
conflitto.
Mentre
in Sicilia le forze italo-tedesche continuavano a combattere contro gli
anglo-americani che il 22 luglio entravano a Palermo, prima grande città
europea a cadere in mano degli Alleati, il 5 agosto a Catania ed il 16 agosto a
Messina ponendo fine all’operazione “Husky”, negli ambienti monarchici e
fascisti prendeva corpo l’idea di far cadere il governo e cercare di uscire
dalla guerra per salvaguardare l’integrità nazionale.
La
perdita della Sicilia nel giro di poche settimane nonché il nuovo bombardamento
di Roma il 13 agosto 1943 evidenziarono un dato incontrovertibile: l’Italia non
era più in grado di difendersi.
La
ricerca di una pace separata con gli anglo-americani cercando al tempo stesso
di contenere e neutralizzare la prevedibile reazione tedesca divenne affannosa,
impossibile.
Gli
italiani che solo tre anni prima si aspettavano, secondo la martellante
propaganda del regime, una guerra rapida e vittoriosa, con lo sbarco degli
Alleati sul suolo patrio persero ogni volontà combattiva; stanchi della guerra
volevano la pace e tornare a vivere normalmente. In sostanza, non ci fu una
reazione popolare all’invasione come ci fu dopo la disfatta di Caporetto. In
questa cornice di avvilimento nazionale iniziarono a ricostituirsi
clandestinamente i partiti tradizionali ai quali si aggiunse il Partito
d’Azione che si rifaceva agli ideali del movimento clandestino Giustizia e
Libertà. La fronda all’interno del fascismo faceva capo a Ciano, Grandi e
Bottai protagonisti della riunione del Gran Consiglio del Fascismo, convocata
da Mussolini dopo il fallimentare vertice di Feltre, il 24 luglio 1943 conclusasi
a tarda notte con l’approvazione di un Ordine del Giorno (il cosiddetto Ordine
del Giorno Grandi) in cui si ordinava al Capo del Governo di rimettere ogni
potere nelle mani del Re. Tutti erano convinti che una volta rimosso Mussolini,
eventualmente sostituto dallo stesso Grandi ex ambasciatore a Londra, ci
sarebbero state concrete possibilità di intavolare trattative con gli Alleati
per una pace onorevole, salvando l’integrità nazionale, la monarchia ed il
fascismo stesso.
Il
25 luglio, una data che rimarrà ben incisa nella storia recente d’Italia,
Mussolini si recò presso la residenza del Re, a Villa Savoia, per partecipargli
la decisione del Gran Consiglio. Vittorio Emanuele III, dopo oltre 22 anni di
stretta collaborazione, lo fece arrestare dai carabinieri ed affidò il Governo
al Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, ex Capo di Stato Maggiore Generale, che
nel suo proclama agli italiani dichiarò: «Per ordine di S.M. il Re e Imperatore
assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua … La consegna ricevuta è chiara e precisa…
chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento o tenti di
turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito». In pratica si assistette ad un rivolgimento tutto
interno all’ambiente monarchico-fascista, la monarchia che per oltre venti anni
aveva sostenuto e collaborato con il fascismo lo abbandonava a sé stesso, togliendogli
ogni potere. Questo è uno dei punti cruciali di quello che sarà il momento
delle scelte all’indomani della crisi armistiziale del settembre e le sue
tragiche conseguenze.
Pietro
Badoglio formò un governo di militari ed alti funzionari dello Stato, tutti fino
a poche ore prima di “provata fede fascista”, ma ora autenticamente monarchici.
È
interessante notare un aspetto singolare di questa vicenda: a seguito dell’arresto
del duce non ci fu nessuna reazione da parte degli iscritti al Partito
Nazionale Fascista, nessuno scese in piazza a manifestare solidarietà a
Mussolini, Piazza Venezia il 26 luglio 1943 rimase vuota. Nessuno si schierò in
difesa del proprio capo, né la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN), i
fascisti in armi, né la 1^ divisione Camicie Nere “M”, unità potentemente
armata composta da militi di sicura fede fascista.
Il
Governo Badoglio, nei primi tre giorni di vita con tre decreti cancellò tutta
l’organizzazione del Partito Nazionale Fascista, ne incorporò i beni e le
proprietà ed assorbì la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale nel Regio
Esercito. In pratica, la destituzione di Mussolini non aprì alcuna crisi nel
fascismo ma ne sanzionò la dissoluzione già in atto.
Il
compito immediato del nuovo governo fu quello di far uscire l’Italia dalla
guerra nel più breve tempo possibile, un compito delicato e difficilissimo
nella consapevolezza che sarebbe stato impossibile uscirne col consenso
dell’alleato germanico più che mai intenzionato a proseguirla sino alle estreme
conseguenze ed al tempo stesso determinato a servirsi del territorio italiano
come fascia di sicurezza per tenere lontano dai propri confini meridionali gli
Alleati.
Il
Governo di Pietro Badoglio fu un'altra tragedia nazionale, una di quelle
sciagure che ancora oggi incidono sul tessuto sociale italiano.
Nel
momento in cui si presentò al Paese con il suo proclama, il Capo del Governo tendeva
da un lato a rassicurare ingenuamente i tedeschi (“la guerra continua”) i quali invece non avevano nessun dubbio
sulla volontà del nuovo governo di uscirne, dall’altro minacciare gli
antifascisti in particolare i partiti di sinistra dei quali si temevano
iniziative di tipo rivoluzionario. In pratica Badoglio, pur decretando la
immediata scarcerazione dei prigionieri politici ed abolendo istituzioni
fasciste come il famigerato Tribunale speciale, rinviava al termine del
conflitto la ricostituzione legale dei partiti politici riproponendosi una
semplice restaurazione dello status quo prefascista come se il ventennio di
complicità della corona potesse essere cancellato. A Berlino si era visto con
stupore il liquefarsi in poche ore di un regime che si credeva “granitico”;
stupore ancora maggiore nel constatare che Mussolini si era lasciato andare
senza nessuna resistenza e soprattutto nessun fascista aveva impugnato le armi per
difendere il simbolo stesso del fascismo. Passata la meraviglia tutti
constatarono che il cambio del vertice politico-militare a Roma significava,
soprattutto alla luce della situazione disperata in cui si trovava l’Italia, un
reale proposito di trovare una qualsivoglia situazione per uscire dalla guerra.
Tolto dalla scena Mussolini, che l’aveva voluta, questo sarebbe stato più
facile da realizzare. Solo Badoglio si faceva illusioni con le sue
dichiarazioni, non considerando che avrebbe solo suscitato diffidenza, poca
credibilità e rabbia repressa nei tedeschi, rabbia che esploderà con l’inizio
della loro occupazione dell’Italia.
La
popolazione pensando che con la caduta del fascismo la guerra sarebbe finita scese
spontaneamente ed ingenuamente nelle piazze d’Italia a manifestare
pacificamente la propria gioia. Il nuovo governo, nel quadro di una tragica
farsa, fedele al proclama del suo capo represse sistematicamente nel sangue
tali manifestazioni, quasi a voler rassicurare l’alleato tedesco che avrebbe
continuato la guerra al suo fianco nonostante l’avvicendamento alla guida del
governo. L’ordine pubblico fu mantenuto con una brutalità mai vista prima. A
Milano si ebbero 23 morti e 87 feriti per le manifestazioni dal 26 al 30
luglio, a Bari 17 morti e 36 feriti per la manifestazione del 28 luglio, a
Reggio Emilia con 9 morti e 30 feriti, sempre per una manifestazione del 28
luglio. Durante i 45 giorni del governo badogliano si hanno 83 italiani morti e
516 feriti. Un bilancio tanto tragico quanto inutile.
Al
riguardo per dare un’idea della gravissima situazione è il caso di ricordare le
disposizioni che il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Generale Roatta,
diede per mantenere l’ordine pubblico. Tali disposizioni prevedevano di aprire
il fuoco senza preavviso sui manifestanti ed il ricorso anche ai mortai ed
artiglierie “come se si procedesse contro
truppe nemiche”.
Il
comportamento ambiguo, le incertezze ed i ritardi con cui il Governo Badoglio
avviò contatti segreti con gli Alleati per trovare una possibilità di accordo
furono così tanti e persistenti che ingenerarono dubbi crescenti sulle reali
intenzioni, per motivi chiaramente opposti, sia negli anglo-americani che nei
tedeschi.
Badoglio,
che non voleva rivelare ad Hitler le proprie intenzioni, non predispose nulla
dal punto di vista militare per evitare l’afflusso in Italia, dopo la
destituzione di Mussolini, di ingenti forze tedesche. Dal 26 luglio al 18
agosto, infatti, in attuazione del piano di operazioni Alarico predisposto già da maggio del 1943, affluirono in Italia
attraverso il Brennero il Passo di Tarvisio e gli altri valichi alpini 17
divisioni e 2 brigate tedesche in rinforzo a quelle già presenti. Formalmente
queste truppe scendevano in Italia in aiuto degli italiani in realtà si
predisponevano ad occuparla nel caso in cui il governo Badoglio si fosse
ritirato dalla guerra.
Il
piano Alarico, aggiornato costantemente con l’evolversi degli eventi,
prevedeva: l’occupazione dell’Italia e dei territori presidiati dagli italiani
nella penisola balcanica ed in Francia; la liberazione di Mussolini;
l’occupazione di Roma ed il ripristino del governo fascista; il disarmo
dell’esercito italiano laddove questo si fosse opposto e la cattura della
flotta.
In
questo scenario il 31 luglio il governo italiano decideva, segretamente come
detto per evitare di allarmare i tedeschi già sospettosi dopo il 25 luglio, di
iniziare colloqui ufficiali mediante i normali canali diplomatici con gli
Alleati.
A
fine agosto 1943, il generale Castellano concordò il testo di armistizio
passato alla storia come “Armistizio
Corto”, un documento ambiguo (tra l’altro non vi era alcun cenno al
trattamento dei prigionieri italiani in mano alleata), approvato da Badoglio il
quale sperava di poterlo rinegoziare da posizioni migliori in futuro.
Nelle
ore pomeridiane del 3 settembre 1943, sotto una tenda piantata negli aranceti
nella piana di Cassibile in Sicilia, veniva firmato l’armistizio poi annunciato
da Eisenhower da Radio Algeri alle ore 16,30 dell’8 settembre 1943. Badoglio,
sconcertato in quanto si aspettava erroneamente l’annuncio non prima del 12
settembre, si risolse a proclamarlo con una trasmissione che l’EIAR (Ente
Italiano Audizioni Radiofoniche, la progenitrice della odierna RAI) mise in
onda alle 19,45.
All’annuncio
dell’armistizio, ai tedeschi non restò che mettere in atto senza più indugi il
piano “Alarico”.
In
un clima di grandissima confusione, iniziò quella che è passata alla storia
come la fuga di Pescara. Il Re, Badoglio ed i massimi vertici militari
abbandonarono precipitosamente Roma per raggiungere Pescara e quindi Ortona per
imbarcarsi su una nave militare, il Baionetta,
che li avrebbe sbarcati a Brindisi la mattina dell’11 settembre.
Nelle
stesse ore in cui il convoglio con le massime cariche dello Stato si dirigeva
indisturbato verso la costa adriatica le forze armate italiane, disorientate ed
in mancanza di disposizioni operative chiare e precise iniziavano a sfaldarsi
progressivamente, la corazzata “Roma” con a bordo l’ammiraglio Bergamini veniva
affondata nelle acque della Maddalena da aerei tedeschi e nella capitale già
avvenivano i primi scontri tra reparti dell’esercito italiano, a cui si unirono
civili armati, e tedeschi.
Il
9 settembre la 5^ armata americana al comando del generale Clark sbarcava nel
golfo di Salerno dove incontrava una accanita difesa tedesca.
Nel
momento in cui il re ed il capo del governo sbarcarono a Brindisi nacque il
cosiddetto Regno del Sud, che sarebbe
terminato con la liberazione di Roma il
4 giugno 1944, per garantire formalmente la continuità la sovranità
dello Stato italiano.
Il
12 settembre 1943, in attuazione del piano di Hitler, paracadutisti tedeschi
liberavano Mussolini tenuto prigioniero in un albergo sul Gran Sasso, in
Abruzzo.
Le
forze armate lasciate senza istruzioni operative si sfaldarono; i tedeschi
nell’ambito della già citata operazione Alarico, catturarono e
disarmarono in Italia ed all’estero oltre 600.000 soldati italiani che,
rifiutandosi di collaborare, furono subito inviati nei campi d’internamento in
Germania.
Alcuni
reparti dislocati fuori dai confini (in Corsica, nei Balcani, nelle isole Jonie
ecc.) riuscirono ad unirsi alle forze partigiane locali che combattevano contro
i tedeschi, altri opposero a questi una strenua resistenza, come a Cefalonia e
Corfù dove una volta arresisi dopo giorni di accaniti combattimenti i soldati
italiani furono barbaramente trucidati dai tedeschi. Per primo fu fucilato il
generale Gandin, quindi, gli altri ufficiali compresi quelli della Marina,
della Guardia di Finanza ed alcuni medici.
Nell’Italia
liberata - il cosiddetto Regno del Sud – il governo Badoglio, che il 13
settembre 1943 dichiarò guerra alla Germania, esercitava una sovranità limitata
a causa dell’occupazione anglo-americana.
Sul
piano politico, il 9 settembre si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale
(CLN), composto dai partiti antifascisti che ora rinascevano mettendo da parte
le loro profonde divergenze in vista dello scopo comune. In una prima fase il
CLN si oppose al governo Badoglio ed al re, ritenuti complici del fascismo.
Questa situazione di stallo fu superata nel marzo del 1944 con il ritorno
dall’Unione Sovietica, dopo venti anni, del segretario del Partito Comunista
Italiano Palmiro Togliatti. In un discorso tenuto subito dopo, noto come la
«svolta di Salerno», il leader comunista sostenne che occorreva mettere da
parte le pregiudiziali contro Badoglio e il re fino a che non si fosse giunti
alla completa liberazione del Paese. Poco dopo, il 22 aprile 1944, si formò il
secondo governo Badoglio, detto anche governo di unità nazionale, composto dai
rappresentanti dei partiti del CLN.
Con
la liberazione di Roma Vittorio Emanuele III trasferì i suoi poteri al figlio
Umberto, nominandolo luogotenente generale del regno e furono gli stessi
partiti antifascisti a designare il nuovo presidente del consiglio nella
persona di Ivanoe Bonomi.
Si
demandava così al futuro giudizio popolare la sorte della monarchia, per tanti
anni legatasi ed identificatasi col fascismo, si conveniva sull’opportunità di
una tregua istituzionale che permettesse di concentrare tutti gli sforzi nella
lotta contro i tedeschi, e si realizzava intanto una formula politica molto più
aderente alla volontà del Paese per quanto la rappresentatività dei partiti
potesse essere solo presunta, data l’impossibilità di procedere a regolari
elezioni.
In
tutto questo periodo e fino alla completa liberazione del suolo nazionale, nei
territori sotto il controllo tedesco e della Repubblica Sociale Italiana il
dispotismo nazifascista fu validamente contrastato dalla quasi unanime
resistenza passiva delle popolazioni e dalla valorosa resistenza attiva delle
formazioni partigiane. In particolare le brigate partigiane istituite,
trasformando le bande sorte per lo più spontaneamente dopo l’armistizio e l’occupazione
tedesca, dai comandi militari dei partiti politici. Fra queste possiamo
ricordare le brigate Garibaldi, del
Partito Comunista; le brigate Giustizia e
Libertà, ispirate agli ideali del Partito d’Azione; le brigate Matteotti del Partito Socialista; le Fiamme verdi e le Brigate del
Popolo (dette anche Brigate cattoliche) dei democristiani; le Mazzini dei repubblicani. Vi erano
infine le brigate autonome che
comprendevano elementi di diversa origine e tendenza non dipendenti dai comandi
militari dei partiti ma tutte unite nella lotta contro il fascismo. Nelle città
agivano i Gruppi di Azione Patriottica
(G.A.P.) prevalentemente comunisti articolati in squadre agilissime di pochi elementi
che con fredda e matura determinazione attaccavano i nazifascisti con azioni
rapidissime anche in pieno giorno.
La
lotta partigiana trovò il suo indispensabile organo coordinatore, che le
permise di assumere un ruolo politico che si proiettava oltre il termine del
conflitto, nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) formatosi il 9 settembre
1943 a Roma, subito dopo l’annuncio dell’armistizio, dal Comitato delle opposizioni al fascismo. In esso confluirono le
rappresentanze dei partiti comunista, socialista, d’Azione, democristiano,
liberale e democratico del lavoro. Il CLN, che ebbe funzioni ed importanza naturalmente
maggiore nell’Italia rimasta sotto la dominazione nazifascista che non nell’Italia
liberata dagli Alleati, rivendicò e si assunse la responsabilità di
rappresentare il popolo italiano nel momento tragico che vedeva i tedeschi
aggredire la patria e la monarchia incapace di impedirne l’occupazione. Da quel
momento, il CLN assolse le funzioni di governo clandestino e diresse la
Resistenza, con delega a rappresentare l’autorità legittima dello Stato nei
territori occupati dal nemico. Nella prima riunione, la mattina del 9
settembre, il CLN elesse a suo presidente Ivanoe Bonomi e decise di
strutturarsi in organismo centrale con analoghe rappresentanze partitiche
periferiche in tutta Italia.
Il
CLN, in sostanza, rappresentò una risposta concreta alla disgregazione dello
Stato ed all'assoluta incapacità dimostrata dalla monarchia e dal suo governo
di assolvere al compito di difendere la sovranità del territorio nazionale e la
vita stessa della popolazione. La sua composizione rappresentava una rottura
evidente con lo Stato rappresentato dal re e da Badoglio che avevano permesso e
sostenuto il fascismo e la sua guerra: a parte Bonomi e Casati, già in politica
prima della dittatura e poi ritiratisi a vita privata, gli altri membri del CLN
erano tutti esponenti dell'antifascismo che avevano pagato la propria
opposizione con il carcere, il confino e l'esilio.
Se
a Roma agiva il comitato centrale del CLN, il coordinamento della lotta armata
veniva assunto dal CLN Alta Italia con sede a Milano.
Successivamente
nel giugno del 1944, quando a Roma si era già insediato il primo governo di
unità antifascista diretta emanazione del CLN con alla guida Ivanoe Bonomi, con
l’intensificarsi della lotta partigiana che «aveva assunto una vastità ed
importanza che la qualificavano come un effettivo contributo italiano alla
lotta contro il nazi-fascismo»[1],
il comando militare del CLN Alta Italia fu trasformato in Corpo Volontari della
Libertà (CVL). Tale struttura più rispondente alle mutate esigenze operative,
la prima ad essere riconosciuta sia dal Governo italiano sia dagli Alleati,
ebbe il compito di coordinare e pianificare le operazioni militari delle diverse
forze partigiane presenti sul campo.
Alla
guida del CVL il governo Bonomi designò Raffaele Cadorna, generale
dell'esercito. Cadorna fu affiancato dai vicecomandanti Ferruccio Parri
(Partito d'Azione) e Luigi Longo (Partito Comunista), esponenti di spicco dei
due partiti politici che maggiormente vollero l'inquadramento delle forze
partigiane in una struttura omogenea. Gli altri componenti del CVL furono, in
questa fase, che sarà quella conclusiva, Giovanni Battista Stucchi (Partito
Socialista), nominato capo di stato maggiore; Enrico Mattei (Democrazia Cristiana);
Mario Argenton (Partito Liberale e formazioni autonome), aggiunti al capo di
stato maggiore.
Il
CVL concordò con i comandi alleati l'offensiva sulla linea Gotica e
l'insurrezione nazionale che, nella primavera del 1945, portò alla Liberazione
dell'Italia settentrionale. In pratica il CVL elaborò una linea
politico-militare comune per le varie brigate partigiane e costituì il braccio
armato della Resistenza, mentre il CLN ne rappresentava la mente politica.
Il
comando generale del CVL fu sciolto il 15 giugno 1945. Il suo impegno consentì
al partigianato italiano, unico a livello europeo, di giungere alla pace
«avendo alla sua testa un comando rappresentativo di tutte le forze
protagoniste della lotta». Con la legge del 21 marzo 1958, n. 285, il CVL ottenne
il riconoscimento giuridico di corpo militare regolarmente inquadrato nelle
forze armate italiane.
Dopo
questa parentesi dedicata al CVL, riprendiamo la Campagna d’Italia condotta dagli anglo-americani i quali al fine di
costringere l’Italia alla resa e piegare il morale della popolazione,
intensificarono i bombardamenti aerei in tutta Italia. Furono particolarmente
colpite Napoli, Salerno, Foggia e i grandi centri industriali del nord come
Bologna, Torino, Genova e soprattutto Milano che fu bombardata da 916 bombardieri
della RAF i quali sganciarono 4.284 tonnellate di bombe su tutta l’area della
città nelle notti dell’8, del 13, del 15 e 16 agosto 1943 che colpirono il 50%
degli edifici dei quali il 15% gravemente danneggiato. Le vittime furono 2.000,
250.000 i senza tetto, oltre 250.000 gli sfollati. I principali monumenti
milanesi furono semidistrutti, il teatro La Scala fu centrato in pieno da una
bomba di grosse dimensioni.
A queste città vanno aggiunte anche decine di
paesi piccoli e grandi che non erano sede né di fabbriche né di caserme. Vicino
Roma, per esempio, nel piccolo paese di Frascati ove si trovava il quartier
generale di Kesselring, 130 bombardieri americani l’8 settembre 1943
sganciarono 1300 bombe che causarono 500 morti tra i civili e 200 fra i
militari tedeschi.
Il
tributo pagato dai civili a causa dei bombardamenti aerei nel corso di tutta la
guerra fu altissimo.
Secondo
l’Istituto Centrale di Statistica, i morti civili per bombardamenti aerei
furono 18.376 dal 10 giugno 1940 al 7 settembre 1943 e 41.420 dall’8 settembre
1943 al 25 aprile 1945.
A
partire dall’8 settembre 1943 e fino all’8 maggio 1945 si sviluppò la Guerra di
Liberazione nazionale conseguente alla caduta del Fascismo combattuta non solo,
come detto, dalle Brigate partigiane e dai GAP ma anche dalle Forze Armate,
dall’Arma dei Carabinieri e dalla Guardia di Finanza. I reparti ed i singoli militari
a tutti i livelli diedero, seppure in condizioni psicologiche ed operative
estremamente sfavorevoli, un’eccezionale prova di responsabilità e di saldezza che
va ben oltre la semplicistica espressione “tutti a casa” utilizzata per
indicare in modo poco lusinghiero il comportamento dei militari dopo le confuse
ed ambigue vicende armistiziali.
La
maggior parte dei reparti oppose resistenza e difese gli obiettivi assegnati. Dopo
l’8 settembre 1943 e fino al termine del conflitto, oltre 600.000 militari furono
internati dai tedeschi; la vita di questi soldati, per quanto non paragonabile
a quella dei campi di sterminio, era durissima, l’alimentazione era ridotta al
minimo necessario. A questi militari, provati nel fisico e nello spirito,
venivano offerte alternative allettanti: lavorare per i tedeschi ed ottenere un
trattamento soddisfacente oppure aderire alla Repubblica Sociale e tornare in
Italia a combattere contro gli anglo-americani.
La
maggioranza di loro resistette a questa tentazione e respinse le proposte
entrando, a pieno diritto, con il loro sacrificio fra i combattenti della
Resistenza. 500.000 operarono inquadrati nei reparti regolari co-belligeranti,
mentre 500.000 prigionieri in mano agli Alleati optarono di cooperare come
lavoratori. Senza tener conto di quanti persero la vita nei campi di prigionia,
il tributo di sangue pagato da coloro che parteciparono allo sforzo bellico
alleato fu pesantissimo: circa 95.000 morti e dispersi e 20.000 feriti. Un
sacrificio che contribuì a risollevare le sorti del Paese consentendogli di
riconquistare la libertà e la democrazia.
Ebbene,
in quel periodo convulso e travagliato gli Alleati acconsentirono non senza diffidenza
e dietro insistente richiesta degli italiani, che volevano concorrere
attivamente alla liberazione del Paese dall’occupazione tedesca, alla
costituzione di una unità combattente.
Il
27 settembre 1943 in Puglia diciannove giorni dopo l’armistizio nasceva il 1o Raggruppamento Motorizzato,
l’embrione del nuovo esercito, formato con unità prelevate dal LI Corpo
d’Armata e dalle Divisioni Legnano, Piceno e Mantova oltre a 2 battaglioni e due sezioni Carabinieri. L’unità fu
posta al comando del generale Dapino.
Intanto, la situazione politico-militare progrediva
rapidamente: il 29 settembre fu
firmato l’Armistizio Lungo o
armistizio di Malta l'atto con il quale vennero precisate le condizioni della
resa senza condizioni già contenute genericamente nell'armistizio di Cassibile
(armistizio corto) che rimarrà in vigore fino al 10 febbraio 1947 quando il
Primo Ministro De Gasperi firmerà a Parigi il Trattato di pace.
Con la firma
del cosiddetto armistizio lungo l’Italia liberata fu costretta a fornire agli
anglo-americani tutto ciò che rimaneva delle proprie risorse finanziarie ed
infrastrutturali. L’attività amministrativa del governo Badoglio fu sottoposta
al diretto controllo degli Alleati.
Il 13 ottobre il governo Badoglio, al fine di
chiarire la propria condotta politico-militare e sciogliere ogni dubbio agli
Alleati, dichiarò guerra alla Germania. A partire da questa data, l’Italia assunse
la posizione di “cobelligerante” ovvero non fu più considerata nemica ma
neanche alleata nel senso stretto del termine ed i combattenti regolari
italiani, fino a quel momento considerati dai tedeschi alla stregua di banditi,
da un punto di vista giuridico rientrarono nella legalità
L’8 dicembre 1943 il 1o Raggruppamento Motorizzato ebbe il battesimo del fuoco a Monte Lungo in
Campania nella provincia di Caserta. L’attacco non riuscì a conseguire
l’obiettivo prefissato e fu ripetuto, questa volta con successo, il 16 dicembre
con il supporto degli americani.
Dopo questa azione assunse il comando dell’unità
operativa il generale Umberto Utili che il 31 marzo 1944 la guidò in un’altra
battaglia importante della Guerra di Liberazione quella di Monte Marrone
della catena montuosa delle Mainarde al confine tra Lazio e Molise.
Nel frattempo a sud di Roma tra Anzio e Nettuno gli
Alleati sbarcati a gennaio del 1944 per aggirare rapidamente le difese tedesche
del Garignano erano rimasti bloccati. Solo quattro mesi dopo, il 24 maggio, gli
americani riuscirono a sfondare il fronte tedesco. Roma fu liberata il 4
giugno.
Dopo i successi di Monte Lungo e di Monte Marrone
gli Alleati autorizzarono la trasformazione del 1° raggruppamento motorizzato
in una unità più consistente. Il 18 aprile 1944 nasceva il Corpo Italiano
di Liberazione (C.I.L.) con una consistenza di 25000 uomini, espressione
della ferma volontà italiana di impegnarsi al fianco degli Alleati contro i
tedeschi.
Operò
prima sulle Mainarde, inquadrato nel Corpo di Spedizione Francese, poi sul
litorale adriatico alle dipendenze del V Corpo d’Armata britannico.
Il
C.I.L. affrontò tre cicli operativi dalla metà di aprile alla fine di agosto 1944
risalendo la penisola dal Sangro al Metauro.
Il
primo ciclo lo possiamo inquadrare nel periodo 18-31 maggio, nella zona
delle Mainarde come detto.
Il
secondo dal 1° giugno al 16 agosto
nel settore adriatico che si concretizzò in una avanzata di 350 chilometri. Nei
giorni dall’8 all’11 giugno il CIL liberò Chieti, successivamente raggiunse l’Aquila
e Teramo, città sgomberate dal nemico poche ore prima dell’arrivo delle
avanguardie italiane. Il 17 giugno il CIL passò alle dipendenze del Corpo d’Armata
polacco; il giorno seguente venne liberata Ascoli Piceno, il 30 giugno
Macerata.
Nel
periodo 6-9 luglio si svolse la battaglia di Filottrano propedeutica alla liberazione di Ancona che avvenne il
18 luglio.
Il
terzo ed ultimo ciclo, 17-31 agosto, fu
quello più breve caratterizzato dallo spostamento verso la media ed alta
collina marchigiana dei settori di combattimento; tra il 28 ed il 30 agosto furono
liberate Urbino e Pegli, ove il CIL concluse la sua attività operativa.
Il 24 settembre 1944 il Corpo Italiano di
Liberazione veniva sciolto[2] e con
i suoi reparti fu avviata la costituzione dei gruppi di combattimento «Legnano»
e «Folgore» che si sarebbero affiancati agli altri quattro autorizzati dagli
Alleati: «Cremona», «Friuli», «Mantova» e «Piceno» armati ed equipaggiati con
materiale inglese. Il gruppo di combattimento «Piceno» fu trasformato in centro
di addestramento complementi e pertanto non prese parte ai combattimenti. Dei
cinque gruppi operativi quattro, il «Cremona» il «Friuli» il «Folgore» ed il «Legnano»,
furono effettivamente impiegati in combattimento nel periodo 14 gennaio – 23
marzo 1945 mentre il «Mantova» rimase in riserva.
Il
Gruppo di Combattimento era un’unità
organica di livello divisionale con un organico di 9.500 uomini inquadrata in
una Grande Unità anglo-americana. Nei comandi dei gruppi di combattimento furono
inserite delle unità di collegamento britanniche le British Liaison Units (B.L.U.)
che operavano agli ordini dei comandanti alleati. Queste unità avevano
inizialmente il duplice compito di facilitare i collegamenti tra i comandi
alleati ed italiani nonché controllare questi ultimi verso i quali gli
anglo-americani nutrivano ancora scarsa fiducia. Successivamente, di fronte
all’impegno, al valore ed al sacrificio dei soldati italiani queste riserve
furono spazzate via lasciando il posto ai più ampi attestati di stima ed
amicizia da parte degli Alleati.
All’inizio
del 1945 la sconfitta della Germania appariva ormai inesorabile. La Campagna d’Italia
volgeva al termine ed uno degli obiettivi principali era quello di impedire, in
vista del dopoguerra, che i tedeschi distruggessero ciò che di ancora
efficiente era rimasto dell’apparato industriale nel nord Italia.
Il
piano alleato prevedeva di sfondare le difese della linea Gotica con una
manovra a tenaglia su Bologna, l’infiltrazione rapida di truppe nel cuore della
valle Padana ed una contemporanea puntata offensiva su Venezia, Trieste, La
Spezia e Genova.
L’offensiva
venne lanciata il 9 aprile, preceduta da un intensissimo bombardamento di
artiglieria ed aereo. Le difese tedesche, fisse ed ancorate al terreno, furono
investite e travolte in più punti. Il 21 aprile Bologna fu raggiunta dalle
unità polacche e delle unità dei Gruppi di Combattimento italiani che iniziarono
a dilagare in pianura. La rotta tedesca assunse proporzioni sempre più gravi.
Il 30 aprile gli Alleati entrarono a Torino, Milano e Venezia, due giorni dopo
a Trieste.
La
progressione delle forze alleate, con la contemporanea convergenza di tutte le
forze insurrezionali che liberarono le grandi città prima dell’arrivo degli
anglo-americani impedì la temuta distruzione generale minacciata dai tedeschi
di ogni infrastruttura economicamente utile. L’annuncio della resa di tutte le
forze tedesche in Italia, firmata il 29 aprile, fu annunciata il 2 maggio. In
questi tre giorni elementi sbandati tedeschi in fuga commisero eccidi di
inaudita ferocia.
La
Campagna d’Italia terminava sei giorni prima della fine della guerra in Europa,
convenzionalmente fissata l’8 maggio con la firma a Reims della resa generale
tedesca.
La
Guerra di Liberazione terminava il 25 aprile, nel giorno in cui il Comitato di
Liberazione Nazionale Alta Italia proclamava l’insurrezione generale. Anche
nelle date emerge la profonda differenza esistente tra Campagna d’Italia e
Guerra di Liberazione.
Il
senso della Campagna d’Italia vista dagli Alleati è racchiuso nelle parole del
Generale Alexander:
«Quali
che siano le valutazioni che possono farsi sull’importanza della Campagna, esse
vanno espresse non in termini di terreno conquistato, poiché il terreno non era
vitale, nel ristretto senso della parola, né per noi né per il nemico, ma
considerando le conseguenze che essa ebbe sulla guerra nel suo complesso. Le
armate alleate in Italia non vennero impegnate contro le principali armate
nemiche, e i loro attacchi non furono diretti, come lo furono quelli degli
alleati a ovest e dei russi ad est, contro il cuore della Patria tedesca e i
centri nevralgici dell’esistenza nazionale della Germania. Il nostro ruolo fu
subordinato e preparatorio.
Dieci
mesi prima che da ovest venisse lanciato il grande assalto, la nostra invasione
dell’Italia, all’inizio condotta con forze molto moderate, attirò in quelle
remote regioni truppe che, se impiegate in Francia, avrebbero potuto far
pendere la bilancia dall’altra parte.
Col
progredire della Campagna, un sempre crescente numero di forze tedesche affluì
a contrastarci il passo.
I
supremi amministratori della strategia alleata ebbero sempre cura di provvedere
affinché le nostre forze non superassero mai il minimo necessario a consentire
di assolvere i nostri compiti; durante quei 20 mesi, non meno di 21 divisioni
vennero sottratte al mio comando a beneficio di altri teatri d’operazioni. I
tedeschi non operarono detrazioni paragonabili alle nostre.
Tranne
che per un breve periodo della primavera del 1944, essi ebbero in Italia un
numero di formazioni sempre superiore al nostro, e noi sapemmo fare così buon
uso di quel breve ed eccezionale periodo che nell’estate del 1944, il momento
critico della guerra, i tedeschi furono costretti a dirottare otto divisioni
verso il nostro teatro d’operazioni secondario.
A
quel tempo, quando l’importanza del nostro contributo strategico aveva
raggiunto il suo punto massimo, 55 divisioni tedesche furono inchiodate nel
Mediterraneo dalla minaccia, effettiva o potenziale, costituita dalle nostre
armate in Italia. I dati comparati sulle perdite ci dicono la stessa storia. Da
parte tedesca, esse ammontarono a 536.000 uomini. Le perdite alleate furono
312.000 uomini. La differenza è ancora più notevole se si considera che fummo
sempre noi ad attaccare.
Quattro
volte effettuammo quella che è la più difficile operazione della guerra, uno
sbarco anfibio.
Tre
volte lanciammo un’offensiva preordinata con la forza di un intero gruppo di
armate. In nessun’altra parte di Europa i soldati affrontarono un terreno più
difficile e avversari più decisi.
La
conclusione è che la Campagna d’Italia assolse la sua missione strategica.»
Osvaldo Biribicchi è docente al Master di 1° LIvello in Storia Militare Contemporanea 1796 - 1960
presso Università N Cusano Telematica Roma ( www.unicusano.it(master)
[1]
Marziano Brignoli, Raffaele Cadorna
1889-1973, Stato Maggiore Esercito-Ufficio Storico, Roma 1981 p. 106.
[2]
Complessivamente il Corpo Italiano di
Liberazione nel periodo aprile-agosto 1944 ebbe 377 caduti e 880 feriti.
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