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venerdì 12 aprile 2019

Il Primo fronte della Guerra di LIberazione


Il Fronte del Sud: 
Primo Raggruppamento Motorizzato, Corpo Italiano di Liberazione, Gruppi di Combattimento

Osvaldo Biribicchi




Parlare di “fronte del sud” significa parlare degli avvenimenti che hanno investito l’Italia dopo l’8 settembre 1943, la data in cui è stata annunciata la richiesta di armistizio agli Alleati da parte del governo italiano. Per poter parlare e meglio comprendere il contributo dato alla Guerra di Liberazione ed alla Campagna d’Italia dai combattenti inquadrati nelle Unità regolari dell’Esercito, inclusi i Carabinieri, della Marina e dell’Aeronautica, della Guardia di Finanza e dal personale del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana in particolare dell’Esercito attraverso il Primo Raggruppamento Motorizzato, il Corpo Italiano di Liberazione ed infine con i Gruppi di Combattimento, è necessario un sintetico inquadramento temporale dei principali avvenimenti politici e militari che hanno preceduto e poi portato il governo italiano a chiedere l’armistizio.
La guerra, iniziata dall’Italia il 10 giugno 1940, dopo la tragica ritirata dalla Russia e la resa delle truppe italo-tedesche in Nord Africa il 12 maggio 1943 volgeva inevitabilmente alla sua conclusione. Di ciò erano consapevoli il governo fascista, il Re e milioni di italiani ormai stanchi di lutti ed inutili sacrifici. Prolungare un conflitto ormai perduto avrebbe significato solamente aggravare la già critica situazione economica e sociale, rinviare la sconfitta finale, esporre l’Italia ad ulteriori perdite di vite umane e distruzioni apocalittiche. Fu in questa atmosfera che gli anglo-americani si prepararono ad invadere la penisola italiana. La caduta di Lampedusa e Pantelleria l’11 ed il 12 giugno 1943 fu la premessa dello sbarco in Sicilia degli anglo-americani che avvenne il 10 luglio tra Siracusa e Licata, in attuazione della operazione “Husky”.
Iniziava la cosiddetta Campagna d’Italia che per i tedeschi invece sarebbe iniziata la sera dell’8 settembre 1943 nel momento in cui Badoglio annunciò l’armistizio. Per entrambi terminerà il 2 maggio 1945 con la firma, nella Reggia di Caserta, della resa di tutte le forze tedesche in Italia.
In Sicilia gli italiani dopo una iniziale resistenza non riuscirono a contenere le soverchianti forze da sbarco degli Alleati. Il 12 luglio, la linea di difesa costiera italo-tedesca fu sfondata.  Pochi giorni dopo, il 19, Mussolini si incontrò a Feltre con Hitler con l’intenzione di esporre all’alleato la drammatica situazione in cui versava l’Italia e l’impossibilità a poter continuare la guerra. Di fronte ad Hitler, determinato a proseguire ad oltranza la lotta fino alle estreme conseguenze, Mussolini che ormai aveva esaurito ogni energia non trovò la forza di esporre ciò che i suoi più stretti collaboratori, fra questi il capo di stato maggiore generale Ambrosio, gli avevano suggerito.
Il giorno in cui si svolsero i colloqui italo-tedeschi di Feltre, Roma venne bombardata pesantemente, (dalle ore 11,05 alle 14,20) da circa 200 bombardieri Alleati che, in sei successive ondate, colpirono in modo particolare soprattutto i quartieri popolari di San Lorenzo e Tiburtino, sedi di importanti scali ferroviari, Prenestino, Tuscolano e Casal Bertone. Fu colpito anche il Cimitero del Verano. Le vittime accertate furono 1.486.
L’impatto sul morale della popolazione già provata fu notevole; il Papa Pio XII uscì dal Vaticano e si recò nei luoghi del bombardamento invocando la pace e la fine del conflitto.
Mentre in Sicilia le forze italo-tedesche continuavano a combattere contro gli anglo-americani che il 22 luglio entravano a Palermo, prima grande città europea a cadere in mano degli Alleati, il 5 agosto a Catania ed il 16 agosto a Messina ponendo fine all’operazione “Husky”, negli ambienti monarchici e fascisti prendeva corpo l’idea di far cadere il governo e cercare di uscire dalla guerra per salvaguardare l’integrità nazionale.
La perdita della Sicilia nel giro di poche settimane nonché il nuovo bombardamento di Roma il 13 agosto 1943 evidenziarono un dato incontrovertibile: l’Italia non era più in grado di difendersi.
La ricerca di una pace separata con gli anglo-americani cercando al tempo stesso di contenere e neutralizzare la prevedibile reazione tedesca divenne affannosa, impossibile.
Gli italiani che solo tre anni prima si aspettavano, secondo la martellante propaganda del regime, una guerra rapida e vittoriosa, con lo sbarco degli Alleati sul suolo patrio persero ogni volontà combattiva; stanchi della guerra volevano la pace e tornare a vivere normalmente. In sostanza, non ci fu una reazione popolare all’invasione come ci fu dopo la disfatta di Caporetto. In questa cornice di avvilimento nazionale iniziarono a ricostituirsi clandestinamente i partiti tradizionali ai quali si aggiunse il Partito d’Azione che si rifaceva agli ideali del movimento clandestino Giustizia e Libertà. La fronda all’interno del fascismo faceva capo a Ciano, Grandi e Bottai protagonisti della riunione del Gran Consiglio del Fascismo, convocata da Mussolini dopo il fallimentare vertice di Feltre, il 24 luglio 1943 conclusasi a tarda notte con l’approvazione di un Ordine del Giorno (il cosiddetto Ordine del Giorno Grandi) in cui si ordinava al Capo del Governo di rimettere ogni potere nelle mani del Re. Tutti erano convinti che una volta rimosso Mussolini, eventualmente sostituto dallo stesso Grandi ex ambasciatore a Londra, ci sarebbero state concrete possibilità di intavolare trattative con gli Alleati per una pace onorevole, salvando l’integrità nazionale, la monarchia ed il fascismo stesso.  
Il 25 luglio, una data che rimarrà ben incisa nella storia recente d’Italia, Mussolini si recò presso la residenza del Re, a Villa Savoia, per partecipargli la decisione del Gran Consiglio. Vittorio Emanuele III, dopo oltre 22 anni di stretta collaborazione, lo fece arrestare dai carabinieri ed affidò il Governo al Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, ex Capo di Stato Maggiore Generale, che nel suo proclama agli italiani dichiarò: «Per ordine di S.M. il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua …  La consegna ricevuta è chiara e precisa… chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento o tenti di turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito». In pratica si assistette ad un rivolgimento tutto interno all’ambiente monarchico-fascista, la monarchia che per oltre venti anni aveva sostenuto e collaborato con il fascismo lo abbandonava a sé stesso, togliendogli ogni potere. Questo è uno dei punti cruciali di quello che sarà il momento delle scelte all’indomani della crisi armistiziale del settembre e le sue tragiche conseguenze.
Pietro Badoglio formò un governo di militari ed alti funzionari dello Stato, tutti fino a poche ore prima di “provata fede fascista”, ma ora autenticamente monarchici.
È interessante notare un aspetto singolare di questa vicenda: a seguito dell’arresto del duce non ci fu nessuna reazione da parte degli iscritti al Partito Nazionale Fascista, nessuno scese in piazza a manifestare solidarietà a Mussolini, Piazza Venezia il 26 luglio 1943 rimase vuota. Nessuno si schierò in difesa del proprio capo, né la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN), i fascisti in armi, né la 1^ divisione Camicie Nere “M”, unità potentemente armata composta da militi di sicura fede fascista.
Il Governo Badoglio, nei primi tre giorni di vita con tre decreti cancellò tutta l’organizzazione del Partito Nazionale Fascista, ne incorporò i beni e le proprietà ed assorbì la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale nel Regio Esercito. In pratica, la destituzione di Mussolini non aprì alcuna crisi nel fascismo ma ne sanzionò la dissoluzione già in atto.
Il compito immediato del nuovo governo fu quello di far uscire l’Italia dalla guerra nel più breve tempo possibile, un compito delicato e difficilissimo nella consapevolezza che sarebbe stato impossibile uscirne col consenso dell’alleato germanico più che mai intenzionato a proseguirla sino alle estreme conseguenze ed al tempo stesso determinato a servirsi del territorio italiano come fascia di sicurezza per tenere lontano dai propri confini meridionali gli Alleati.  
Il Governo di Pietro Badoglio fu un'altra tragedia nazionale, una di quelle sciagure che ancora oggi incidono sul tessuto sociale italiano.
Nel momento in cui si presentò al Paese con il suo proclama, il Capo del Governo tendeva da un lato a rassicurare ingenuamente i tedeschi (“la guerra continua”) i quali invece non avevano nessun dubbio sulla volontà del nuovo governo di uscirne, dall’altro minacciare gli antifascisti in particolare i partiti di sinistra dei quali si temevano iniziative di tipo rivoluzionario. In pratica Badoglio, pur decretando la immediata scarcerazione dei prigionieri politici ed abolendo istituzioni fasciste come il famigerato Tribunale speciale, rinviava al termine del conflitto la ricostituzione legale dei partiti politici riproponendosi una semplice restaurazione dello status quo prefascista come se il ventennio di complicità della corona potesse essere cancellato. A Berlino si era visto con stupore il liquefarsi in poche ore di un regime che si credeva “granitico”; stupore ancora maggiore nel constatare che Mussolini si era lasciato andare senza nessuna resistenza e soprattutto nessun fascista aveva impugnato le armi per difendere il simbolo stesso del fascismo. Passata la meraviglia tutti constatarono che il cambio del vertice politico-militare a Roma significava, soprattutto alla luce della situazione disperata in cui si trovava l’Italia, un reale proposito di trovare una qualsivoglia situazione per uscire dalla guerra. Tolto dalla scena Mussolini, che l’aveva voluta, questo sarebbe stato più facile da realizzare. Solo Badoglio si faceva illusioni con le sue dichiarazioni, non considerando che avrebbe solo suscitato diffidenza, poca credibilità e rabbia repressa nei tedeschi, rabbia che esploderà con l’inizio della loro occupazione dell’Italia.
La popolazione pensando che con la caduta del fascismo la guerra sarebbe finita scese spontaneamente ed ingenuamente nelle piazze d’Italia a manifestare pacificamente la propria gioia. Il nuovo governo, nel quadro di una tragica farsa, fedele al proclama del suo capo represse sistematicamente nel sangue tali manifestazioni, quasi a voler rassicurare l’alleato tedesco che avrebbe continuato la guerra al suo fianco nonostante l’avvicendamento alla guida del governo. L’ordine pubblico fu mantenuto con una brutalità mai vista prima. A Milano si ebbero 23 morti e 87 feriti per le manifestazioni dal 26 al 30 luglio, a Bari 17 morti e 36 feriti per la manifestazione del 28 luglio, a Reggio Emilia con 9 morti e 30 feriti, sempre per una manifestazione del 28 luglio. Durante i 45 giorni del governo badogliano si hanno 83 italiani morti e 516 feriti. Un bilancio tanto tragico quanto inutile.
Al riguardo per dare un’idea della gravissima situazione è il caso di ricordare le disposizioni che il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Generale Roatta, diede per mantenere l’ordine pubblico. Tali disposizioni prevedevano di aprire il fuoco senza preavviso sui manifestanti ed il ricorso anche ai mortai ed artiglierie “come se si procedesse contro truppe nemiche”.
Il comportamento ambiguo, le incertezze ed i ritardi con cui il Governo Badoglio avviò contatti segreti con gli Alleati per trovare una possibilità di accordo furono così tanti e persistenti che ingenerarono dubbi crescenti sulle reali intenzioni, per motivi chiaramente opposti, sia negli anglo-americani che nei tedeschi.
Badoglio, che non voleva rivelare ad Hitler le proprie intenzioni, non predispose nulla dal punto di vista militare per evitare l’afflusso in Italia, dopo la destituzione di Mussolini, di ingenti forze tedesche. Dal 26 luglio al 18 agosto, infatti, in attuazione del piano di operazioni Alarico predisposto già da maggio del 1943, affluirono in Italia attraverso il Brennero il Passo di Tarvisio e gli altri valichi alpini 17 divisioni e 2 brigate tedesche in rinforzo a quelle già presenti. Formalmente queste truppe scendevano in Italia in aiuto degli italiani in realtà si predisponevano ad occuparla nel caso in cui il governo Badoglio si fosse ritirato dalla guerra.
Il piano Alarico, aggiornato costantemente con l’evolversi degli eventi, prevedeva: l’occupazione dell’Italia e dei territori presidiati dagli italiani nella penisola balcanica ed in Francia; la liberazione di Mussolini; l’occupazione di Roma ed il ripristino del governo fascista; il disarmo dell’esercito italiano laddove questo si fosse opposto e la cattura della flotta.
In questo scenario il 31 luglio il governo italiano decideva, segretamente come detto per evitare di allarmare i tedeschi già sospettosi dopo il 25 luglio, di iniziare colloqui ufficiali mediante i normali canali diplomatici con gli Alleati.
A fine agosto 1943, il generale Castellano concordò il testo di armistizio passato alla storia come “Armistizio Corto”, un documento ambiguo (tra l’altro non vi era alcun cenno al trattamento dei prigionieri italiani in mano alleata), approvato da Badoglio il quale sperava di poterlo rinegoziare da posizioni migliori in futuro.
Nelle ore pomeridiane del 3 settembre 1943, sotto una tenda piantata negli aranceti nella piana di Cassibile in Sicilia, veniva firmato l’armistizio poi annunciato da Eisenhower da Radio Algeri alle ore 16,30 dell’8 settembre 1943. Badoglio, sconcertato in quanto si aspettava erroneamente l’annuncio non prima del 12 settembre, si risolse a proclamarlo con una trasmissione che l’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, la progenitrice della odierna RAI) mise in onda alle 19,45.
All’annuncio dell’armistizio, ai tedeschi non restò che mettere in atto senza più indugi il piano “Alarico”.
In un clima di grandissima confusione, iniziò quella che è passata alla storia come la fuga di Pescara. Il Re, Badoglio ed i massimi vertici militari abbandonarono precipitosamente Roma per raggiungere Pescara e quindi Ortona per imbarcarsi su una nave militare, il Baionetta, che li avrebbe sbarcati a Brindisi la mattina dell’11 settembre.
Nelle stesse ore in cui il convoglio con le massime cariche dello Stato si dirigeva indisturbato verso la costa adriatica le forze armate italiane, disorientate ed in mancanza di disposizioni operative chiare e precise iniziavano a sfaldarsi progressivamente, la corazzata “Roma” con a bordo l’ammiraglio Bergamini veniva affondata nelle acque della Maddalena da aerei tedeschi e nella capitale già avvenivano i primi scontri tra reparti dell’esercito italiano, a cui si unirono civili armati, e tedeschi.
Il 9 settembre la 5^ armata americana al comando del generale Clark sbarcava nel golfo di Salerno dove incontrava una accanita difesa tedesca.
Nel momento in cui il re ed il capo del governo sbarcarono a Brindisi nacque il cosiddetto Regno del Sud, che sarebbe terminato con la liberazione di Roma il 4 giugno 1944, per garantire formalmente la continuità la sovranità dello Stato italiano.
Il 12 settembre 1943, in attuazione del piano di Hitler, paracadutisti tedeschi liberavano Mussolini tenuto prigioniero in un albergo sul Gran Sasso, in Abruzzo.
Le forze armate lasciate senza istruzioni operative si sfaldarono; i tedeschi nell’ambito della già citata operazione Alarico, catturarono e disarmarono in Italia ed all’estero oltre 600.000 soldati italiani che, rifiutandosi di collaborare, furono subito inviati nei campi d’internamento in Germania.
Alcuni reparti dislocati fuori dai confini (in Corsica, nei Balcani, nelle isole Jonie ecc.) riuscirono ad unirsi alle forze partigiane locali che combattevano contro i tedeschi, altri opposero a questi una strenua resistenza, come a Cefalonia e Corfù dove una volta arresisi dopo giorni di accaniti combattimenti i soldati italiani furono barbaramente trucidati dai tedeschi. Per primo fu fucilato il generale Gandin, quindi, gli altri ufficiali compresi quelli della Marina, della Guardia di Finanza ed alcuni medici.
Nell’Italia liberata - il cosiddetto Regno del Sud – il governo Badoglio, che il 13 settembre 1943 dichiarò guerra alla Germania, esercitava una sovranità limitata a causa dell’occupazione anglo-americana.
Sul piano politico, il 9 settembre si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), composto dai partiti antifascisti che ora rinascevano mettendo da parte le loro profonde divergenze in vista dello scopo comune. In una prima fase il CLN si oppose al governo Badoglio ed al re, ritenuti complici del fascismo. Questa situazione di stallo fu superata nel marzo del 1944 con il ritorno dall’Unione Sovietica, dopo venti anni, del segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti. In un discorso tenuto subito dopo, noto come la «svolta di Salerno», il leader comunista sostenne che occorreva mettere da parte le pregiudiziali contro Badoglio e il re fino a che non si fosse giunti alla completa liberazione del Paese. Poco dopo, il 22 aprile 1944, si formò il secondo governo Badoglio, detto anche governo di unità nazionale, composto dai rappresentanti dei partiti del CLN.
Con la liberazione di Roma Vittorio Emanuele III trasferì i suoi poteri al figlio Umberto, nominandolo luogotenente generale del regno e furono gli stessi partiti antifascisti a designare il nuovo presidente del consiglio nella persona di Ivanoe Bonomi.
Si demandava così al futuro giudizio popolare la sorte della monarchia, per tanti anni legatasi ed identificatasi col fascismo, si conveniva sull’opportunità di una tregua istituzionale che permettesse di concentrare tutti gli sforzi nella lotta contro i tedeschi, e si realizzava intanto una formula politica molto più aderente alla volontà del Paese per quanto la rappresentatività dei partiti potesse essere solo presunta, data l’impossibilità di procedere a regolari elezioni.
In tutto questo periodo e fino alla completa liberazione del suolo nazionale, nei territori sotto il controllo tedesco e della Repubblica Sociale Italiana il dispotismo nazifascista fu validamente contrastato dalla quasi unanime resistenza passiva delle popolazioni e dalla valorosa resistenza attiva delle formazioni partigiane. In particolare le brigate partigiane istituite, trasformando le bande sorte per lo più spontaneamente dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca, dai comandi militari dei partiti politici. Fra queste possiamo ricordare le brigate Garibaldi, del Partito Comunista; le brigate Giustizia e Libertà, ispirate agli ideali del Partito d’Azione; le brigate Matteotti del Partito Socialista; le Fiamme verdi e le Brigate del Popolo (dette anche Brigate cattoliche) dei democristiani; le Mazzini dei repubblicani. Vi erano infine le brigate autonome che comprendevano elementi di diversa origine e tendenza non dipendenti dai comandi militari dei partiti ma tutte unite nella lotta contro il fascismo. Nelle città agivano i Gruppi di Azione Patriottica (G.A.P.) prevalentemente comunisti articolati in squadre agilissime di pochi elementi che con fredda e matura determinazione attaccavano i nazifascisti con azioni rapidissime anche in pieno giorno.
La lotta partigiana trovò il suo indispensabile organo coordinatore, che le permise di assumere un ruolo politico che si proiettava oltre il termine del conflitto, nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) formatosi il 9 settembre 1943 a Roma, subito dopo l’annuncio dell’armistizio, dal Comitato delle opposizioni al fascismo. In esso confluirono le rappresentanze dei partiti comunista, socialista, d’Azione, democristiano, liberale e democratico del lavoro. Il CLN, che ebbe funzioni ed importanza naturalmente maggiore nell’Italia rimasta sotto la dominazione nazifascista che non nell’Italia liberata dagli Alleati, rivendicò e si assunse la responsabilità di rappresentare il popolo italiano nel momento tragico che vedeva i tedeschi aggredire la patria e la monarchia incapace di impedirne l’occupazione. Da quel momento, il CLN assolse le funzioni di governo clandestino e diresse la Resistenza, con delega a rappresentare l’autorità legittima dello Stato nei territori occupati dal nemico. Nella prima riunione, la mattina del 9 settembre, il CLN elesse a suo presidente Ivanoe Bonomi e decise di strutturarsi in organismo centrale con analoghe rappresentanze partitiche periferiche in tutta Italia.
Il CLN, in sostanza, rappresentò una risposta concreta alla disgregazione dello Stato ed all'assoluta incapacità dimostrata dalla monarchia e dal suo governo di assolvere al compito di difendere la sovranità del territorio nazionale e la vita stessa della popolazione. La sua composizione rappresentava una rottura evidente con lo Stato rappresentato dal re e da Badoglio che avevano permesso e sostenuto il fascismo e la sua guerra: a parte Bonomi e Casati, già in politica prima della dittatura e poi ritiratisi a vita privata, gli altri membri del CLN erano tutti esponenti dell'antifascismo che avevano pagato la propria opposizione con il carcere, il confino e l'esilio.
Se a Roma agiva il comitato centrale del CLN, il coordinamento della lotta armata veniva assunto dal CLN Alta Italia con sede a Milano.
Successivamente nel giugno del 1944, quando a Roma si era già insediato il primo governo di unità antifascista diretta emanazione del CLN con alla guida Ivanoe Bonomi, con l’intensificarsi della lotta partigiana che «aveva assunto una vastità ed importanza che la qualificavano come un effettivo contributo italiano alla lotta contro il nazi-fascismo»[1], il comando militare del CLN Alta Italia fu trasformato in Corpo Volontari della Libertà (CVL). Tale struttura più rispondente alle mutate esigenze operative, la prima ad essere riconosciuta sia dal Governo italiano sia dagli Alleati, ebbe il compito di coordinare e pianificare le operazioni militari delle diverse forze partigiane presenti sul campo.
Alla guida del CVL il governo Bonomi designò Raffaele Cadorna, generale dell'esercito. Cadorna fu affiancato dai vicecomandanti Ferruccio Parri (Partito d'Azione) e Luigi Longo (Partito Comunista), esponenti di spicco dei due partiti politici che maggiormente vollero l'inquadramento delle forze partigiane in una struttura omogenea. Gli altri componenti del CVL furono, in questa fase, che sarà quella conclusiva, Giovanni Battista Stucchi (Partito Socialista), nominato capo di stato maggiore; Enrico Mattei (Democrazia Cristiana); Mario Argenton (Partito Liberale e formazioni autonome), aggiunti al capo di stato maggiore.
Il CVL concordò con i comandi alleati l'offensiva sulla linea Gotica e l'insurrezione nazionale che, nella primavera del 1945, portò alla Liberazione dell'Italia settentrionale. In pratica il CVL elaborò una linea politico-militare comune per le varie brigate partigiane e costituì il braccio armato della Resistenza, mentre il CLN ne rappresentava la mente politica.
Il comando generale del CVL fu sciolto il 15 giugno 1945. Il suo impegno consentì al partigianato italiano, unico a livello europeo, di giungere alla pace «avendo alla sua testa un comando rappresentativo di tutte le forze protagoniste della lotta». Con la legge del 21 marzo 1958, n. 285, il CVL ottenne il riconoscimento giuridico di corpo militare regolarmente inquadrato nelle forze armate italiane.
Dopo questa parentesi dedicata al CVL, riprendiamo la Campagna d’Italia condotta dagli anglo-americani i quali al fine di costringere l’Italia alla resa e piegare il morale della popolazione, intensificarono i bombardamenti aerei in tutta Italia. Furono particolarmente colpite Napoli, Salerno, Foggia e i grandi centri industriali del nord come Bologna, Torino, Genova e soprattutto Milano che fu bombardata da 916 bombardieri della RAF i quali sganciarono 4.284 tonnellate di bombe su tutta l’area della città nelle notti dell’8, del 13, del 15 e 16 agosto 1943 che colpirono il 50% degli edifici dei quali il 15% gravemente danneggiato. Le vittime furono 2.000, 250.000 i senza tetto, oltre 250.000 gli sfollati. I principali monumenti milanesi furono semidistrutti, il teatro La Scala fu centrato in pieno da una bomba di grosse dimensioni.
 A queste città vanno aggiunte anche decine di paesi piccoli e grandi che non erano sede né di fabbriche né di caserme. Vicino Roma, per esempio, nel piccolo paese di Frascati ove si trovava il quartier generale di Kesselring, 130 bombardieri americani l’8 settembre 1943 sganciarono 1300 bombe che causarono 500 morti tra i civili e 200 fra i militari tedeschi.
Il tributo pagato dai civili a causa dei bombardamenti aerei nel corso di tutta la guerra fu altissimo.
Secondo l’Istituto Centrale di Statistica, i morti civili per bombardamenti aerei furono 18.376 dal 10 giugno 1940 al 7 settembre 1943 e 41.420 dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945.
A partire dall’8 settembre 1943 e fino all’8 maggio 1945 si sviluppò la Guerra di Liberazione nazionale conseguente alla caduta del Fascismo combattuta non solo, come detto, dalle Brigate partigiane e dai GAP ma anche dalle Forze Armate, dall’Arma dei Carabinieri e dalla Guardia di Finanza. I reparti ed i singoli militari a tutti i livelli diedero, seppure in condizioni psicologiche ed operative estremamente sfavorevoli, un’eccezionale prova di responsabilità e di saldezza che va ben oltre la semplicistica espressione “tutti a casa” utilizzata per indicare in modo poco lusinghiero il comportamento dei militari dopo le confuse ed ambigue vicende armistiziali.
La maggior parte dei reparti oppose resistenza e difese gli obiettivi assegnati. Dopo l’8 settembre 1943 e fino al termine del conflitto, oltre 600.000 militari furono internati dai tedeschi; la vita di questi soldati, per quanto non paragonabile a quella dei campi di sterminio, era durissima, l’alimentazione era ridotta al minimo necessario. A questi militari, provati nel fisico e nello spirito, venivano offerte alternative allettanti: lavorare per i tedeschi ed ottenere un trattamento soddisfacente oppure aderire alla Repubblica Sociale e tornare in Italia a combattere contro gli anglo-americani.
La maggioranza di loro resistette a questa tentazione e respinse le proposte entrando, a pieno diritto, con il loro sacrificio fra i combattenti della Resistenza. 500.000 operarono inquadrati nei reparti regolari co-belligeranti, mentre 500.000 prigionieri in mano agli Alleati optarono di cooperare come lavoratori. Senza tener conto di quanti persero la vita nei campi di prigionia, il tributo di sangue pagato da coloro che parteciparono allo sforzo bellico alleato fu pesantissimo: circa 95.000 morti e dispersi e 20.000 feriti. Un sacrificio che contribuì a risollevare le sorti del Paese consentendogli di riconquistare la libertà e la democrazia.
Ebbene, in quel periodo convulso e travagliato gli Alleati acconsentirono non senza diffidenza e dietro insistente richiesta degli italiani, che volevano concorrere attivamente alla liberazione del Paese dall’occupazione tedesca, alla costituzione di una unità combattente.
Il 27 settembre 1943 in Puglia diciannove giorni dopo l’armistizio nasceva il 1o Raggruppamento Motorizzato, l’embrione del nuovo esercito, formato con unità prelevate dal LI Corpo d’Armata e dalle Divisioni Legnano, Piceno e Mantova oltre a 2 battaglioni e due sezioni Carabinieri. L’unità fu posta al comando del generale Dapino.
Intanto, la situazione politico-militare progrediva rapidamente: il 29 settembre fu firmato l’Armistizio Lungo o armistizio di Malta l'atto con il quale vennero precisate le condizioni della resa senza condizioni già contenute genericamente nell'armistizio di Cassibile (armistizio corto) che rimarrà in vigore fino al 10 febbraio 1947 quando il Primo Ministro De Gasperi firmerà a Parigi il Trattato di pace.
 Con la firma del cosiddetto armistizio lungo l’Italia liberata fu costretta a fornire agli anglo-americani tutto ciò che rimaneva delle proprie risorse finanziarie ed infrastrutturali. L’attività amministrativa del governo Badoglio fu sottoposta al diretto controllo degli Alleati.
Il 13 ottobre il governo Badoglio, al fine di chiarire la propria condotta politico-militare e sciogliere ogni dubbio agli Alleati, dichiarò guerra alla Germania. A partire da questa data, l’Italia assunse la posizione di “cobelligerante” ovvero non fu più considerata nemica ma neanche alleata nel senso stretto del termine ed i combattenti regolari italiani, fino a quel momento considerati dai tedeschi alla stregua di banditi, da un punto di vista giuridico rientrarono nella legalità
L’8 dicembre 1943 il 1o Raggruppamento Motorizzato ebbe il battesimo del fuoco a Monte Lungo in Campania nella provincia di Caserta. L’attacco non riuscì a conseguire l’obiettivo prefissato e fu ripetuto, questa volta con successo, il 16 dicembre con il supporto degli americani.
Dopo questa azione assunse il comando dell’unità operativa il generale Umberto Utili che il 31 marzo 1944 la guidò in un’altra battaglia importante della Guerra di Liberazione quella di Monte Marrone della catena montuosa delle Mainarde al confine tra Lazio e Molise.
Nel frattempo a sud di Roma tra Anzio e Nettuno gli Alleati sbarcati a gennaio del 1944 per aggirare rapidamente le difese tedesche del Garignano erano rimasti bloccati. Solo quattro mesi dopo, il 24 maggio, gli americani riuscirono a sfondare il fronte tedesco. Roma fu liberata il 4 giugno.
Dopo i successi di Monte Lungo e di Monte Marrone gli Alleati autorizzarono la trasformazione del 1° raggruppamento motorizzato in una unità più consistente. Il 18 aprile 1944 nasceva il Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.) con una consistenza di 25000 uomini, espressione della ferma volontà italiana di impegnarsi al fianco degli Alleati contro i tedeschi.
Operò prima sulle Mainarde, inquadrato nel Corpo di Spedizione Francese, poi sul litorale adriatico alle dipendenze del V Corpo d’Armata britannico.
Il C.I.L. affrontò tre cicli operativi dalla metà di aprile alla fine di agosto 1944 risalendo la penisola dal Sangro al Metauro.
Il primo ciclo lo possiamo inquadrare nel periodo 18-31 maggio, nella zona delle Mainarde come detto.
Il secondo dal 1° giugno al 16 agosto nel settore adriatico che si concretizzò in una avanzata di 350 chilometri. Nei giorni dall’8 all’11 giugno il CIL liberò Chieti, successivamente raggiunse l’Aquila e Teramo, città sgomberate dal nemico poche ore prima dell’arrivo delle avanguardie italiane. Il 17 giugno il CIL passò alle dipendenze del Corpo d’Armata polacco; il giorno seguente venne liberata Ascoli Piceno, il 30 giugno Macerata.
Nel periodo 6-9 luglio si svolse la battaglia di Filottrano propedeutica alla liberazione di Ancona che avvenne il 18 luglio.
Il terzo ed ultimo ciclo, 17-31 agosto, fu quello più breve caratterizzato dallo spostamento verso la media ed alta collina marchigiana dei settori di combattimento; tra il 28 ed il 30 agosto furono liberate Urbino e Pegli, ove il CIL concluse la sua attività operativa.
Il 24 settembre 1944 il Corpo Italiano di Liberazione veniva sciolto[2] e con i suoi reparti fu avviata la costituzione dei gruppi di combattimento «Legnano» e «Folgore» che si sarebbero affiancati agli altri quattro autorizzati dagli Alleati: «Cremona», «Friuli», «Mantova» e «Piceno» armati ed equipaggiati con materiale inglese. Il gruppo di combattimento «Piceno» fu trasformato in centro di addestramento complementi e pertanto non prese parte ai combattimenti. Dei cinque gruppi operativi quattro, il «Cremona» il «Friuli» il «Folgore» ed il «Legnano», furono effettivamente impiegati in combattimento nel periodo 14 gennaio – 23 marzo 1945 mentre il «Mantova» rimase in riserva.
Il Gruppo di Combattimento era un’unità organica di livello divisionale con un organico di 9.500 uomini inquadrata in una Grande Unità anglo-americana. Nei comandi dei gruppi di combattimento furono inserite delle unità di collegamento britanniche le British Liaison Units (B.L.U.) che operavano agli ordini dei comandanti alleati. Queste unità avevano inizialmente il duplice compito di facilitare i collegamenti tra i comandi alleati ed italiani nonché controllare questi ultimi verso i quali gli anglo-americani nutrivano ancora scarsa fiducia. Successivamente, di fronte all’impegno, al valore ed al sacrificio dei soldati italiani queste riserve furono spazzate via lasciando il posto ai più ampi attestati di stima ed amicizia da parte degli Alleati.  
All’inizio del 1945 la sconfitta della Germania appariva ormai inesorabile. La Campagna d’Italia volgeva al termine ed uno degli obiettivi principali era quello di impedire, in vista del dopoguerra, che i tedeschi distruggessero ciò che di ancora efficiente era rimasto dell’apparato industriale nel nord Italia.
Il piano alleato prevedeva di sfondare le difese della linea Gotica con una manovra a tenaglia su Bologna, l’infiltrazione rapida di truppe nel cuore della valle Padana ed una contemporanea puntata offensiva su Venezia, Trieste, La Spezia e Genova.
L’offensiva venne lanciata il 9 aprile, preceduta da un intensissimo bombardamento di artiglieria ed aereo. Le difese tedesche, fisse ed ancorate al terreno, furono investite e travolte in più punti. Il 21 aprile Bologna fu raggiunta dalle unità polacche e delle unità dei Gruppi di Combattimento italiani che iniziarono a dilagare in pianura. La rotta tedesca assunse proporzioni sempre più gravi. Il 30 aprile gli Alleati entrarono a Torino, Milano e Venezia, due giorni dopo a Trieste.
La progressione delle forze alleate, con la contemporanea convergenza di tutte le forze insurrezionali che liberarono le grandi città prima dell’arrivo degli anglo-americani impedì la temuta distruzione generale minacciata dai tedeschi di ogni infrastruttura economicamente utile. L’annuncio della resa di tutte le forze tedesche in Italia, firmata il 29 aprile, fu annunciata il 2 maggio. In questi tre giorni elementi sbandati tedeschi in fuga commisero eccidi di inaudita ferocia.
La Campagna d’Italia terminava sei giorni prima della fine della guerra in Europa, convenzionalmente fissata l’8 maggio con la firma a Reims della resa generale tedesca.
La Guerra di Liberazione terminava il 25 aprile, nel giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamava l’insurrezione generale. Anche nelle date emerge la profonda differenza esistente tra Campagna d’Italia e Guerra di Liberazione.
Il senso della Campagna d’Italia vista dagli Alleati è racchiuso nelle parole del Generale Alexander:
«Quali che siano le valutazioni che possono farsi sull’importanza della Campagna, esse vanno espresse non in termini di terreno conquistato, poiché il terreno non era vitale, nel ristretto senso della parola, né per noi né per il nemico, ma considerando le conseguenze che essa ebbe sulla guerra nel suo complesso. Le armate alleate in Italia non vennero impegnate contro le principali armate nemiche, e i loro attacchi non furono diretti, come lo furono quelli degli alleati a ovest e dei russi ad est, contro il cuore della Patria tedesca e i centri nevralgici dell’esistenza nazionale della Germania. Il nostro ruolo fu subordinato e preparatorio.
Dieci mesi prima che da ovest venisse lanciato il grande assalto, la nostra invasione dell’Italia, all’inizio condotta con forze molto moderate, attirò in quelle remote regioni truppe che, se impiegate in Francia, avrebbero potuto far pendere la bilancia dall’altra parte.
Col progredire della Campagna, un sempre crescente numero di forze tedesche affluì a contrastarci il passo.
I supremi amministratori della strategia alleata ebbero sempre cura di provvedere affinché le nostre forze non superassero mai il minimo necessario a consentire di assolvere i nostri compiti; durante quei 20 mesi, non meno di 21 divisioni vennero sottratte al mio comando a beneficio di altri teatri d’operazioni. I tedeschi non operarono detrazioni paragonabili alle nostre.
Tranne che per un breve periodo della primavera del 1944, essi ebbero in Italia un numero di formazioni sempre superiore al nostro, e noi sapemmo fare così buon uso di quel breve ed eccezionale periodo che nell’estate del 1944, il momento critico della guerra, i tedeschi furono costretti a dirottare otto divisioni verso il nostro teatro d’operazioni secondario.
A quel tempo, quando l’importanza del nostro contributo strategico aveva raggiunto il suo punto massimo, 55 divisioni tedesche furono inchiodate nel Mediterraneo dalla minaccia, effettiva o potenziale, costituita dalle nostre armate in Italia. I dati comparati sulle perdite ci dicono la stessa storia. Da parte tedesca, esse ammontarono a 536.000 uomini. Le perdite alleate furono 312.000 uomini. La differenza è ancora più notevole se si considera che fummo sempre noi ad attaccare.
Quattro volte effettuammo quella che è la più difficile operazione della guerra, uno sbarco anfibio.
Tre volte lanciammo un’offensiva preordinata con la forza di un intero gruppo di armate. In nessun’altra parte di Europa i soldati affrontarono un terreno più difficile e avversari più decisi.
La conclusione è che la Campagna d’Italia assolse la sua missione strategica.»

Osvaldo Biribicchi è docente al Master di 1° LIvello in Storia Militare Contemporanea 1796 - 1960
presso Università N Cusano Telematica Roma ( www.unicusano.it(master)


[1] Marziano Brignoli, Raffaele Cadorna 1889-1973, Stato Maggiore Esercito-Ufficio Storico, Roma 1981 p. 106.
[2] Complessivamente il Corpo Italiano di Liberazione nel periodo aprile-agosto 1944 ebbe 377 caduti e 880 feriti.


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