giovedì 25 aprile 2019
mercoledì 24 aprile 2019
9 settembre 1943. La Paura
La Crisi armistiziale del settembre 1943
Il Re, La Famiglia Reale, il Governo di Badoglio
lasciano la Capitale
Perché?
Tutte le medaglie d’oro concesse per la difesa di Roma mostrano il valore militare dei singoli per la difesa della Capiate. Sono le operazioni che si sono
svolte, come detto, tra la notte del 9 settembre e la sera del 10 settembre,
ovvero nelle ore convulse seguite alla proclamazione dell’armistizio in cui è
maturata la decisione della Corona e del Governo di lasciare la capitale. Nell
ultime ore della sera dell’8 settembre la situazione era così drammatica, dal
punto di vista tedesco che tutti i responsabili, a prescindere dall’incarico,
avevano deciso di partire per il nord e lasciare la capitale italiana con
qualsiasi mezzo; in gran parte erano impegnati a bruciare i documenti più
compromettenti e a cercare di portare con se le cose più preziose, In pratica
una situazione disperata. Tutto questo era così evidente che a Fiumicino i
tedeschi fanno saltare in aria i ponti radio, segno evidente che hanno deciso
di abbandonare le posizioni. Ma Kesserling, al contrario di tutti i tedeschi
presenti, e con questo si conquisterà la fiducia di Hitler per il resto della
guerra, decide di non abbandonare i suoi soldati al loro destino, ovvero nel
migliore dei casi alla prigionia. Quella di Kesserling, dal punto di vista
militare è una figura da prendere in esame e studiare. Un comandante non
abbandona i suoi sottoposti e lotta fino all’estremo. Fin dalle prime ore
reagisce allo sconforto generale e non decide minimamente di fuggire verso
nord; nel contempo il suo superiore, il Maresciallo Rommel ha già dato ordine
di ripiegare verso le Alpi. Nella notte unità tedesche compiono un colpo di
mano e si impossessano del Deposito carburanti di Mezzocammino alle porte di
Roma. Un grande deposito: con questa benzina i mezzi tedeschi saranno riforniti
con continuità. Si hanno i primi scontri, dovuti alla aggressività dei soldati
tedeschi, sollecitati dagli ordini di Kesserling. Una delle ipotesi si salvezza
per il Re la famiglia Reale e il Governo studiata in precedenza era la via
Fiumicino-Sardegna, ove erano schierate ingenti forze italiane. Kesserling
schiera la sua divisione paracadutisti lungo la litoranea lazionale e blocca
questa via di fuga. I ponti radio fatti saltare a Fiumicino hanno anche questo
significato: con la Sardegna non si comunica e la via è bloccata. All’alba del
9 settembre la Divisione Ariete è schierata tra Manziana e Monterosi.
Qui una
colonna corazzata tedesca è fermata dall’eroismo di un sottotenente del Genio,
che fa saltare il ponte, bloccandola, e perde la vita. E’ il s,ten Rosso, medaglia
d’oro. I combattimenti si accendono in tutta la periferia di Roma, ma
soprattutto nelle zone della Cecchignola, Ardeatina, Prenestrina, Casilina. I
Granatieri di Sardegna, schierati tra l’Eur e la Magliana tengono testa ai
tedeschi. Per tutta la giornata del 9 settembre le posizioni italiane, pur
attaccate dai tedeschi, tengono e danno copertura. L’incertezza regna sovrana.
Sui sta decidendo se rimanere e, quindi resistere, oppure cercare una via di
fuga. Si sceglie questa soluzione. Come i tedeschi alla Rommel fuggono verso
nord e cercano di mettersi al sicuro, cosi il Re, la famiglia Reale ed il
Governo fanno altrettanto. Tra le file italiane non vi è un Kesserling che
decide di rimanere e resistere. La partenza del Re della Famiglia reale, di
parte del Governo è l’inizio dello sfaldamento. A Roma rimangono il ministro
della Guerra, Sirici, ed il ministro dell’Interno, Ricci, ma entrambi non sanno
che fare, scollegati completamente dal Re e dal Primo ministro Badoglio. Il
Comando Supremo, con Ambrosio, segue Badoglio ed il Re, dovrebbero rimanere il
Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Roatta, e soprattutto il Comandante del
Corpo d’Armata motocorazzato, Carboni. Tutti sono risucchiati in questa fuga
verso est. Nella giornata del 10 si riuniscono anche esponenti dei partiti
antifascisti, per imbastire una qualche linea di azione, ma non si ha alcun
esito. Si arriva anche a chiedere una distribuzione generale di armi alla
popolazione civile, in una sorta di sollevazione popolare che avrebbe messo in
difficoltà i tedeschi. Esempio di questo è Raffaele Persichetti, granatiere,
grande invalido, civile che si unisce ai suoi ex commilitoni prende e combatte
a Porta san Paolo. Non si ha il coraggio di questo atto estremamente rivoluzionario,
Dare le armi al popolo, ed i depositi ne sono pieni, significa delegittimare il
potere regio che in quel momento, davanti al nemico, è assente, ma ancora
legittimamente riconosciuto. Tutte le medaglie d’oro concesse in questi giorni,
a Luigi Perna, a Camillo Sabatini, a Romolo FUgazza, a Franco Vannetti Donninia, Nunzio Incannamorte, hanno il significato di
quello che si doveva fare di fronte al nemico.
La giornata del 10 passa in questo
equilibrio, di valore dimostrato sul campo da parte di ufficiali “che hanno
reagito ad attacchi venuti da qualsiasi altra provenienza” come dice il
messaggio di Badoglio che sono seguiti dall’impegno nel combattimento dei
soldati, sino a quando non arriva l’ordine di resa o di disarmo.
Nel dopoguerra il tema della mancata
difesa di Roma darà vita a roventissime polemiche che ancora oggi non si sono
sopite. E’ una ferita nella storia della Nazione non emarginata, Interessante
sarebbe analizzare, per non entrare nel groviglio inestricabile delle
ricostruzioni a posteriori, questo assioma: nel momento in cui i tedeschi, con
Rommel in testa avevano deciso di ritirarsi sulle Alpi, se il Re, la Famiglia
Reale, il Governo fossero rimasti a Roma, ed avessero reagito alla Kesserling
davanti al “tutto è perduto”, quale verso avrebbe preso la storia recente d’Italia?.
E se questo non è avvenuto, quale ne è la ragione?
Se la ragione dell’abbandono di Roma
discende dal fatto che il Re, la Famiglia reale ed il Governo, non avevamo più
alcun ragione di difendere e morire per una Italia, quella del previlegio,
della oppressione, della mancanza di libertà, e della sopraffazione e delle
leggi razziali, che ormai si era dissolta dopo una guerra perduta, e perduta
male, si cade in una versione di “sinistra” che è di parte. Una versione che
genera una controversione, quella della morte della Patria, del raggiungimento
di zone sicure per continuare a lottare ed altre giustificazioni redatte a
posteriori.
Se prendiamo la versione che Ruggero
Zangrandi a posto alla attenzione di tutti negli anni sessanta del secolo
scorso, in cui si ricostruisce momento per momento tutta la vicenda
armistiziale in cui si sostiene che esisteva un accordo tra i tedeschi e il
Governo Italiano, con d’accordo il Re, per attirare gli Alleati in una
gigantesca trappola; fingere di firmare un armistizio qualsiasi, fingere di
fermare uno sbarco alleato che si sarebbe dovuto effettuare o a Anzio o a Civitavecchia,
chiedere l’invio di una divisione paracadutisti su Roma, ed altro. Al momento
opportuno, gli Italiani non avrebbero riconosciuto gli accordi, avrebbero
combattuto gli Alleati e si sarebbe tutto risolto in un loro grande scacco. Si
dimostrava che era impossibile sbarcare in Europa. Questa sconfitta aveva il
significato strategico di proporre una conferenza di pace generale, dopo
quattro anni di guerra, in cui alla Germania veniva riconosciuto il ruolo di
potenza europea dominante, la URSS avrebbe riconosciuta la sua sopravvivenza,
gli Stati Uniti avrebbero avuto l’interesse a concentrarsi sul Pacifico per
sconfiggere il Giappone e dominare oltre le Americhe anche l’Asia, con la Gran
Bretagna abbandonata al suo destino nell’orbita statunitense. L’Italia doveva
fare il primo passo su questa strada. Gli alleati comprendono il gioco degli
Italiani, sbarcano a Salerno, anticipano la data dello sbarco e gettano Roma nel caos. Da qui
si capisce la fuga dalla capitale. Il gioco non era riuscito ed ora si temevano
le conseguenze.
Un gioco troppo grande di Lei, che si
è tradotto in un disastro totale, che giustifica la rabbia dei tedeschi contro
gli Italiani , che nel settembre 1943 avevano capito che la guerra non l’avrebbero
mai vinta, e cercavano soluzioni diplomatiche. La fuga dalla rabbia tedesca è l’unica
soluzione. Per attuarla, Zangrandi sostiene che si ha un accordo tra il Governo
Italiano e Kesserling: una tregua di 48 ore, in cui i tedeschi non vengono
attaccati dagli italiani e il Governo ha la via di fuga protetta o non
molestata dai tedeschi. Kesserling manda le sue divisioni da Roma a Salerno a
fronteggiare gli Alleati, il Re, la Famiglia reale e il Governo la possibilità
di raggiungere indisturbati Pescara e poi Brindisi in mezzo a forze tedesche
che non li attaccano. La tesi di Zangrandi non è accettata perché è basa solo
su aspetti indiziari, non documentali, come se simili accordi si possono mettere
nero su bianchi a futura memoria. E quindi non accettata
Se invece mettiamo alla delle scelte
del re, della famiglia Reale e del Governo di Badoglio un semplice concetto,
allora tutto è più chiaro.
Alla base di tutto vi è la paura.
Come i tedeschi, quasi tutti tranne
Kesserling, alla sera dell’8 settembre scappavano tutti al nord per paura di
essere fatti a pezzi dagli Italiani, così il Re la Famiglia Reale il Governo,
non avendo fiducia nelle proprie forze armate né in nessun altro, terrorizzati
di cadere in mano tedesca come prigionieri, e devono dare conto di accordi
inconfessabili non trovano altra soluzione che scappare, abbandonando tutti e
tutti e mettersi al sicuro per salvare il salvabile. Una folle corsa verso la
salvezza che non ha giustificazione se non la irrazionalità della paura.
giovedì 18 aprile 2019
Le Medaglie d'Oro della Difesa di Roma settembre 1943
Si riportano le biografie delle medaglie d'oro della Difesa di Roma
Ettore Rosso
Sottotenente,
nato a Gropparello (Piacenza) nel 1920
CXXXIV
Battaglione misto genio, Divisone Corazzata 2Ariete”
Monterosi, 9
settembre 1943
Figlio del direttore di un piccolo
centro petrolifero in provincia di Piacenza, conseguita la maturità scientifica
si iscrisse nella facoltà di ingegneria nel Politecnico di Milano. Entrata l’Italia
in guerra, nel giugno 1940, rinunciava al beneficio del ritardo nella
prestazione del servizio militare come studente universitario per arruolarsi,
nel marzo 1942, nel 3° reggimento genio. Promosso sergente in aprile,
nell’agosto successivo partiva col IV battaglione artieri per la Slovenia.
Rimpatriato un mese dopo ed ammesso alla Scuola allievi ufficiali di Pavia,
venne nominato sottotenente nel maggio 1942. Rientrato al 3° reggimento genio,
fu assegnato alla 134ª compagnia artieri del CXXXIV battaglione misto
mobilitato destinato alla Divisione corazzata “Ariete”. Alla data
dell’armistizio era dislocato con il suo pl. guastatori sulla via Cassia nei
pressi di Monterosi. Medaglia d’Oro al Valor Militare
Orlando de Tommaso
Capitano, nato ad
Oria (Brindisi) nel 1897, Legione Allievi Carabinieri,
Magliana di Roma,
9 settembre 1943
Compiuti i primi studi ad Oria, si
trasferì con la famiglia a Taranto dove conseguì la maturità classica. Chiamato
alle armi nel settembre 1916 ed assegnato al 1° reggimento genio, poco dopo fu
ammesso alla Scuola Militare di Modena in qualità di allievo ufficiale di
complemento. Nominato aspirante ufficiale nell’aprile 1917, raggiunse in zona
d’operazione il 265° reggimento fanteria “Lecce” col quale combatte a Raccogliano,
al Vippacco e sul Faiti durante la 11ª battaglia dell’Isonzo. Sottotenente nel
luglio dello stesso anno e tenente nel marzo 1918, prestò successivamente
servizio nel 79° reggimento di marcia, nel 32° fanteria mobilitato e nel 240°
reggimento Brigata “Pesaro”. Congedato nel giugno 1920, l’anno dopo si arruolò
nel corpo della R. Guardia e allo scioglimento di esso, fu trasferito col grado
di tenente in s.p.e. nell’arma dei Carabinieri dal 1° febbraio 1923. Dopo avere
comandata la stazione di Tagliacozzo, fu messo a disposizione della leg.
territoriale di Roma dall’agosto 1924 e nel 1930 ottenne un encomio per l’opera
di soccorso prestato nella zona di Melfi colpita dal terremoto. Passato alla
leg. di Milano nel Marzo 1932, con la promozione a capitano, nel 1937, ritornò
a Roma, alla leg. allievi. Dal giugno 1940 al febbraio 1941, fu assegnato al
Comando Superiore dei Carabinieri dello S.M. mobilitato. Il 9 settembre 1943,
al comando della 4ª compagnia del II battaglione, inviato a rinforzo della
Divisione “Granatieri di Sardegna” duramente impegnata alla Magliana, alle
porte di Roma, contro la Divisione paracadutisti germanica, sacrificava la vita
nel tentativo di soccorrere un carabiniere ferito nello strenuo combattimento
al caposaldo n. 5. Medaglia d’Oro al Valor Militare
Udino Bombieri
Sergente
Maggiore, nato a Grezzana (Verona) nel 1915
10° Reggimento
Lancieri Vittorio Emanuele II,
Bracciano, 9
settembre 1943
Iniziò il servizio militare quale
allievo sottufficiale nel Reggimento “Cavalleggeri Guide” (carri veloci) nel
maggio 1937 venendo promosso sergente il 15 marzo 1938. Fu in Albania con il 3°
gr. carri leggeri dal 6 aprile al 13 luglio 1939. Richiamato alle armi il 16
gennaio 1941 presso unità carriste ed autoblinde, ebbe la promozione a sergente
maggiore il 22 novembre 1942. Frequentò presso il 2° reggimento genio minatori
a Verona il 6° corso di addestramento alla guerra d’arresto dal 17 al 30
gennaio 1943; ed ottenuta la nomina di comandante di carri semoventi fu
assegnato l’8° squadrone, III gr. del reggimento “Lancieri Vittorio Emanuele
II”. Medaglia d’Oro al Valor Militare
Vincenzo Pandolfo
Capitano, nato a
Palermo nel 1910
1° Reggimento
Granatieri di Sardegna,
Roma Acqua
Acetosa Porta San Paolo, 9 settembre 1943
Allievo ufficiale di complemento
nella scuola di Moncalieri nel 1930, fu nominato sottotenente nel maggio 1931,
assegnato al 1° reggimento gran. Congedato nel febbraio 1932, riprese gli studi
interrotti nell’Università di Roma conseguendo la laurea in economia e
commercio nel 1939. Fu poi funzionario dell’Ispettorato per la difesa del
risparmio ed esercizio del credito nonché insegnante di ragioneria e matematica
nel Istituto “Meschini”. Promosso tenente nel 1935 mentre era in congedo, fu
richiamato nell’agosto 1942 nel 1° reggimento gran. mobilitato e lo raggiunse
in Croazia dove si trovava assumendo il comando prima della 12ª compagnia e poi
della 10ª. Rientrato col reparto a Roma alla fine di novembre dello stesso anno
era promosso capitano nel marzo 1943. All’armistizio dell’8 settembre era col
reggimento schierato a difesa di Roma sulla via Laurentina comandante del 6°
caposaldo. Medaglia d’Oro al Valor Militare
Vincenzo Fioritto
Sottotenente fanteria
in s.p.e., nato a Roma nel 1921, 4° reggimento carrista
Roma, viale
Ardeatino, 10 settembre 1943
Figlio di ufficiale superiore del genio,
studente in giurisprudenza nell’Università di Roma, che gli conferì nel 1946 la
laurea “ad honorem”, entrò, nel 1940, all’Accademia Militare di Modena
uscendone sottotenente di fanteria in s.p.e. nel 1942. Assegnato prima al 32°
reggimento fanteria carrista, passò poi, nell’agosto dello stesso anno, al 4°
Reggimento carrista. Alla dichiarazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943,
prestava servizio in Roma. Fedele al motto del suo reggimento “Ferrea mole,
ferreo cuore”, offrì a Porta San Paolo nella difesa di Roma l’esempio più
luminoso di attaccamento al dovere e di amor di Patria. Medaglia d’Oro al Valor
Militare[1]
Luigi Perna
Sottotenente
complemento fanteria, nato a Avellino nel 1921, 1° reggimento “Granatieri di
Sardegna”
Ponte della Magliana-
Esposizione Universale – La Montagnola, 8-10 settembre 1943
Figlio di un valoroso ufficiale dei
granatieri cinque volte decorato al valore fu nominato sottotenente di
complemento nel maggio 1942. Assegnato al 41° fanteria della Divisione
“Modena”, raggiungeva il reggimento sul fronte greco. Ferito nell’ottobre dello
stesso anno e rimpatriato, poi trasferito a domanda dal 10 luglio 1943 al 1°
reggimento granatieri dove gli affidarono il comando del pl. esploratori del I
battaglione. Giovane studioso, portato all’indagine storica e all’amore per le
lettere, era iscritto nella facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma,
che gli conferì nel 1946 la laurea “ad honorem” alla memoria. Medaglia d’Oro al
Valor Militare[2]
Camillo Sabatini
Capitano s.p.e.
cavalleria, nato a Roma nel 1914, reggimento “Lancieri di Montebello”
Roma, via Ostiense -
Porta San Paolo, 9-10 settembre 1943
Figlio
di ufficiale superiore dei carabinieri, dopo aver frequentato il liceo classico
dell’Istituto “Massimo” di Roma, entrò nell’Accademia Militare di Modena nel
1935 uscendone sottotenente di cavalleria due anni più tardi. Assegnato al
reggimento “Lancieri Vittorio Emanuele II” e frequentata la Scuola di
applicazione a Pinerolo, fu promosso tenente nel 1939. Fu poi comandato come
istruttore all’Accademia di Modena e il 10 giugno 1940 alla dichiarazione di
guerra, a domanda, rientrò al reggimento mobilitato. Dal gennaio 1941 frequentò
il 1° corso per ufficiali delle unità carriste presso il Centro addestrativo di
Roma, dopodiché, fu nominato istruttore al Centro addestramento autoblindo
della Scuola di applicazione di cavalleria, dove rimase anche col grado di
capitano. Trasferito nell’aprile 1943 al Reggimento “Lancieri di Montebello”
della Divisione corazzata “Ariete”, assumeva il comando del 5° squadrone
semoventi da 47/32. Medaglia d’Oro al Valor Militare[3]
Romolo Fugazza
Capitano di
cavalleria in s.p.e., nato a Milano nel 1913, reggimento “Lancieri di
Montebello”
Roma, Porta San Paolo,
10 settembre 1943
Allievo
dell’Accademia Militare di Modena, fu nominato sottotenente di cavalleria il 1°
ottobre 1935 nel Reggimento “Lancieri di Firenze”. Promosso tenente
nell’ottobre 1937, due anni dopo partiva per la Libia destinato al II gr squadroni
“Savari”. Entrata l’Italia nella seconda guerra mondiale, ottenne nel luglio
1941 di passare al 132° reggimento fanteria carrista dove fu assegnato al LII
battaglione carri 13/40 del rgpt. esplorante C.A.M. Promosso capitano nel
gennaio 1942, partecipò all’offensiva italo-tedesca in Marmarica e raggiunse El
Alamein col rgpt celere A.S. Rimpatriato nell'ottobre dello stesso anno, fu
trasferito a Roma al Reggimento “Lancieri di Montebello”.
Medaglia d’Oro al
Valor Militare[4]
Franco Vannetti Donnini
Capitano s.p.e., nato
a Prato (Firenze) nel 1917, reggimento “Genova Cavalleria”
Roma, Porta San
Paolo, 10 settembre 1943
Discendente
da antica famiglia di origine fiorentina, dopo aver conseguito a Treviso la
maturità classica, fu ammesso nel ottobre 1935 all’Accademia Militare di Modena
e nel settembre 1937 ne uscì sottotenente di cavalleria. Assegnato al “Savoia
Cavalleria” e frequentata la Scuola d’applicazione, a Pinerolo e a Tor di
Quinto, fu promosso tenente nel ottobre 1939. Nel giugno 1940 partecipò alle
operazioni di guerra alla frontiera occidentale e dal 7 al 18 aprile 1941 a
quelle svoltesi alla frontiera jugoslava. Nell’agosto dello stesso anno, partì
per la Russia dove dette prova di valore e di capacità in una gloriosa carica
sul fiume Jaly nell’ottobre successivo. Promosso capitano, sempre in “Savoia”,
nel giugno 1942, rimpatriò nel novembre successivo per avvicendamento. Ancora
convalescente volle essere coi suoi dragoni del “Genova Cavalleria” nella
battaglia per la difesa di Roma. Medaglia d’Oro al Valor Militare[5]
Raffaele Persichetti
Tenente complemento,
nato a Roma nel 1915, 1° reggimento “Granatieri di Sardegna”
Roma, Porta San
Paolo, 8-10 settembre 1943
Figlio di eminente chirurgo della capitale,
conseguì a soli 22 anni la laurea in lettere nell’Università di Roma e per
quattro anni fu insegnante di storia dell’arte nel Liceo “Visconti” e nel Liceo
dell’Istituto “De Merode”. Ammesso al corso per allievi ufficiali di
complemento a Spoleto e nominato aspirante nel luglio 1938, fu assegnato al 1°
reggimento granatieri. Promosso sottotenente e trattenuto alle armi nel 1939,
partecipò nel giugno 1940 alle operazioni di guerra svoltesi alla frontiera
alpina occidentale e dal 1° gennaio 1941 a quelle svoltesi alla frontiera
greco-albanese. Rimpatriato per grave malattia contratta al fronte, fu
collocato in congedo assoluto dal 8 maggio 1942. Medaglia d’Oro al Valor
Militare[6]
Nunzio Incannamorte
Capitano s.p.e., nato
a Gravina (Bari) nel 1913, 235° reggimento artiglieria c.c.,600° gruppo
semoventi 105/25
Stazione Radio Prato
Smeraldo, 9-10 settembre 1943
Sottotenente
di complemento del 3° reggimento artiglieria pesante campale nel 1934, si
dimetteva dal grado per entrare all’Accademia a Torino. Nominato sottotenente
effettivo nell’ottobre 1936 e frequentata la Scuola di applicazione d’arma fu
promosso tenente nel 1938 ed assegnato al I gr. obici da 100/17 del 17°
reggimento artiglieria della Divisione “Sforzesca”. Partecipò nel giugno 1940
alle operazioni di guerra sulla frontiera alpina occidentale e nel luglio
successivo fu trasferito al 5° artiglieria contraerei assegnato al IV gr da
75/48 Skoda. Passò poi, dal maggio 1941, al II gr da 75/46 c.a. mobilitato,
allora dislocato a Castellammare di Stabia e con lo stesso gr, nel luglio
successivo, per la Russia. Capitano dal 1° gennaio 1942, merita un encomio dal
comandante della “Pasubio” sul fronte russo e rimpatriò nel marzo 1943,
destinato al deposito del 131° reggimento artiglieria della Divisione corazzata
“Centauro”. Trasferito poco dopo nel 235° reggimento artiglieria carabinieri
della Divisione “Ariete” ed assegnato al 600° gr semoventi da 105/25 assumeva
il comando di una btr che venne impiegata nella difesa di Roma dopo la
dichiarazione dell'armistizio. Medaglia d’Oro al Valor Militare[7]
[1]
Il Testo della motivazione è su: www.istitutonastroazzurro.org/consulta
l’archivio dititale/Vincenzo/Fioritto/Esercito/1943/Medaglia d’Oro.
[2]
Il Testo della motivazione è su: www.istitutonastroazzurro.org/consulta
l’archivio dititale/Luigi/Perna/Esercito/1943/Medaglia d’Oro.
[3]
Il Testo della motivazione è su: www.istitutonastroazzurro.org/
consulta l’archivio digitale/ Camillo/ Sabatini/ Esercito/ 1943/ Medaglia
d’Oro.
[4]
Il Testo della motivazione è su: www.istitutonastroazzurro.org/
consulta l’archivio digitale/ Romolo/ Fugazza/ Esercito/ 1943/ Medaglia
d’Oro.
[5]
Il Testo della motivazione è su: www.istitutonastroazzurro.org/
consulta l’archivio digitale/ Franco/ Vannetti Donnini/ Esercito/ 1943/
Medaglia d’Oro. Altre decorazioni: Medaglia d’Argento al Valor Militare (Fronte
russo, ottobre 1941).
[6]
Il Testo della motivazione è su: www.istitutonastroazzurro.org/
consulta l’archivio digitale/ Raffaele/ Persichetti/ Esercito/ 1943/
Medaglia d’Oro.
[7]
Il Testo della motivazione è su: www.istitutonastroazzurro.org/
consulta l’archivio digitale/ Nunzio/Incannamorte/ Esercito/ 1943/ Medaglia
d’Oro.
venerdì 12 aprile 2019
Il Primo fronte della Guerra di LIberazione
Il Fronte del
Sud:
Primo Raggruppamento Motorizzato, Corpo Italiano di Liberazione, Gruppi di
Combattimento
Osvaldo Biribicchi
Parlare
di “fronte del sud” significa parlare degli avvenimenti che hanno investito
l’Italia dopo l’8 settembre 1943, la data in cui è stata annunciata la
richiesta di armistizio agli Alleati da parte del governo italiano. Per poter
parlare e meglio comprendere il contributo dato alla Guerra di Liberazione ed
alla Campagna d’Italia dai combattenti inquadrati nelle Unità regolari
dell’Esercito, inclusi i Carabinieri, della Marina e dell’Aeronautica, della
Guardia di Finanza e dal personale del Corpo Militare della Croce Rossa
Italiana in particolare dell’Esercito attraverso il Primo Raggruppamento Motorizzato, il Corpo Italiano di Liberazione ed infine con i Gruppi di Combattimento, è necessario un sintetico inquadramento temporale
dei principali avvenimenti politici e militari che hanno preceduto e poi portato
il governo italiano a chiedere l’armistizio.
La
guerra, iniziata dall’Italia il 10 giugno 1940, dopo la tragica ritirata dalla
Russia e la resa delle truppe italo-tedesche in Nord Africa il 12 maggio 1943 volgeva
inevitabilmente alla sua conclusione. Di ciò erano consapevoli il governo
fascista, il Re e milioni di italiani ormai stanchi di lutti ed inutili
sacrifici. Prolungare un conflitto ormai perduto avrebbe significato solamente
aggravare la già critica situazione economica e sociale, rinviare la sconfitta
finale, esporre l’Italia ad ulteriori perdite di vite umane e distruzioni apocalittiche.
Fu in questa atmosfera che gli anglo-americani si prepararono ad invadere la
penisola italiana. La caduta di Lampedusa e Pantelleria l’11 ed il 12 giugno
1943 fu la premessa dello sbarco in Sicilia degli anglo-americani che avvenne il
10 luglio tra Siracusa e Licata, in attuazione della operazione “Husky”.
Iniziava
la cosiddetta Campagna d’Italia che
per i tedeschi invece sarebbe iniziata la sera dell’8 settembre 1943 nel
momento in cui Badoglio annunciò l’armistizio. Per entrambi terminerà il 2
maggio 1945 con la firma, nella Reggia di Caserta, della resa di tutte le forze
tedesche in Italia.
In
Sicilia gli italiani dopo una iniziale resistenza non riuscirono a contenere le
soverchianti forze da sbarco degli Alleati. Il 12 luglio, la linea di difesa
costiera italo-tedesca fu sfondata. Pochi
giorni dopo, il 19, Mussolini si incontrò a Feltre con Hitler con l’intenzione
di esporre all’alleato la drammatica situazione in cui versava l’Italia e
l’impossibilità a poter continuare la guerra. Di fronte ad Hitler, determinato
a proseguire ad oltranza la lotta fino alle estreme conseguenze, Mussolini che
ormai aveva esaurito ogni energia non trovò la forza di esporre ciò che i suoi
più stretti collaboratori, fra questi il capo di stato maggiore generale
Ambrosio, gli avevano suggerito.
Il
giorno in cui si svolsero i colloqui italo-tedeschi di Feltre, Roma venne bombardata
pesantemente, (dalle ore 11,05 alle 14,20) da circa 200 bombardieri Alleati
che, in sei successive ondate, colpirono in modo particolare soprattutto i
quartieri popolari di San Lorenzo e Tiburtino, sedi di importanti scali
ferroviari, Prenestino, Tuscolano e Casal Bertone. Fu colpito anche il Cimitero
del Verano. Le vittime accertate furono 1.486.
L’impatto
sul morale della popolazione già provata fu notevole; il Papa Pio XII uscì dal
Vaticano e si recò nei luoghi del bombardamento invocando la pace e la fine del
conflitto.
Mentre
in Sicilia le forze italo-tedesche continuavano a combattere contro gli
anglo-americani che il 22 luglio entravano a Palermo, prima grande città
europea a cadere in mano degli Alleati, il 5 agosto a Catania ed il 16 agosto a
Messina ponendo fine all’operazione “Husky”, negli ambienti monarchici e
fascisti prendeva corpo l’idea di far cadere il governo e cercare di uscire
dalla guerra per salvaguardare l’integrità nazionale.
La
perdita della Sicilia nel giro di poche settimane nonché il nuovo bombardamento
di Roma il 13 agosto 1943 evidenziarono un dato incontrovertibile: l’Italia non
era più in grado di difendersi.
La
ricerca di una pace separata con gli anglo-americani cercando al tempo stesso
di contenere e neutralizzare la prevedibile reazione tedesca divenne affannosa,
impossibile.
Gli
italiani che solo tre anni prima si aspettavano, secondo la martellante
propaganda del regime, una guerra rapida e vittoriosa, con lo sbarco degli
Alleati sul suolo patrio persero ogni volontà combattiva; stanchi della guerra
volevano la pace e tornare a vivere normalmente. In sostanza, non ci fu una
reazione popolare all’invasione come ci fu dopo la disfatta di Caporetto. In
questa cornice di avvilimento nazionale iniziarono a ricostituirsi
clandestinamente i partiti tradizionali ai quali si aggiunse il Partito
d’Azione che si rifaceva agli ideali del movimento clandestino Giustizia e
Libertà. La fronda all’interno del fascismo faceva capo a Ciano, Grandi e
Bottai protagonisti della riunione del Gran Consiglio del Fascismo, convocata
da Mussolini dopo il fallimentare vertice di Feltre, il 24 luglio 1943 conclusasi
a tarda notte con l’approvazione di un Ordine del Giorno (il cosiddetto Ordine
del Giorno Grandi) in cui si ordinava al Capo del Governo di rimettere ogni
potere nelle mani del Re. Tutti erano convinti che una volta rimosso Mussolini,
eventualmente sostituto dallo stesso Grandi ex ambasciatore a Londra, ci
sarebbero state concrete possibilità di intavolare trattative con gli Alleati
per una pace onorevole, salvando l’integrità nazionale, la monarchia ed il
fascismo stesso.
Il
25 luglio, una data che rimarrà ben incisa nella storia recente d’Italia,
Mussolini si recò presso la residenza del Re, a Villa Savoia, per partecipargli
la decisione del Gran Consiglio. Vittorio Emanuele III, dopo oltre 22 anni di
stretta collaborazione, lo fece arrestare dai carabinieri ed affidò il Governo
al Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, ex Capo di Stato Maggiore Generale, che
nel suo proclama agli italiani dichiarò: «Per ordine di S.M. il Re e Imperatore
assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua … La consegna ricevuta è chiara e precisa…
chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento o tenti di
turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito». In pratica si assistette ad un rivolgimento tutto
interno all’ambiente monarchico-fascista, la monarchia che per oltre venti anni
aveva sostenuto e collaborato con il fascismo lo abbandonava a sé stesso, togliendogli
ogni potere. Questo è uno dei punti cruciali di quello che sarà il momento
delle scelte all’indomani della crisi armistiziale del settembre e le sue
tragiche conseguenze.
Pietro
Badoglio formò un governo di militari ed alti funzionari dello Stato, tutti fino
a poche ore prima di “provata fede fascista”, ma ora autenticamente monarchici.
È
interessante notare un aspetto singolare di questa vicenda: a seguito dell’arresto
del duce non ci fu nessuna reazione da parte degli iscritti al Partito
Nazionale Fascista, nessuno scese in piazza a manifestare solidarietà a
Mussolini, Piazza Venezia il 26 luglio 1943 rimase vuota. Nessuno si schierò in
difesa del proprio capo, né la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN), i
fascisti in armi, né la 1^ divisione Camicie Nere “M”, unità potentemente
armata composta da militi di sicura fede fascista.
Il
Governo Badoglio, nei primi tre giorni di vita con tre decreti cancellò tutta
l’organizzazione del Partito Nazionale Fascista, ne incorporò i beni e le
proprietà ed assorbì la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale nel Regio
Esercito. In pratica, la destituzione di Mussolini non aprì alcuna crisi nel
fascismo ma ne sanzionò la dissoluzione già in atto.
Il
compito immediato del nuovo governo fu quello di far uscire l’Italia dalla
guerra nel più breve tempo possibile, un compito delicato e difficilissimo
nella consapevolezza che sarebbe stato impossibile uscirne col consenso
dell’alleato germanico più che mai intenzionato a proseguirla sino alle estreme
conseguenze ed al tempo stesso determinato a servirsi del territorio italiano
come fascia di sicurezza per tenere lontano dai propri confini meridionali gli
Alleati.
Il
Governo di Pietro Badoglio fu un'altra tragedia nazionale, una di quelle
sciagure che ancora oggi incidono sul tessuto sociale italiano.
Nel
momento in cui si presentò al Paese con il suo proclama, il Capo del Governo tendeva
da un lato a rassicurare ingenuamente i tedeschi (“la guerra continua”) i quali invece non avevano nessun dubbio
sulla volontà del nuovo governo di uscirne, dall’altro minacciare gli
antifascisti in particolare i partiti di sinistra dei quali si temevano
iniziative di tipo rivoluzionario. In pratica Badoglio, pur decretando la
immediata scarcerazione dei prigionieri politici ed abolendo istituzioni
fasciste come il famigerato Tribunale speciale, rinviava al termine del
conflitto la ricostituzione legale dei partiti politici riproponendosi una
semplice restaurazione dello status quo prefascista come se il ventennio di
complicità della corona potesse essere cancellato. A Berlino si era visto con
stupore il liquefarsi in poche ore di un regime che si credeva “granitico”;
stupore ancora maggiore nel constatare che Mussolini si era lasciato andare
senza nessuna resistenza e soprattutto nessun fascista aveva impugnato le armi per
difendere il simbolo stesso del fascismo. Passata la meraviglia tutti
constatarono che il cambio del vertice politico-militare a Roma significava,
soprattutto alla luce della situazione disperata in cui si trovava l’Italia, un
reale proposito di trovare una qualsivoglia situazione per uscire dalla guerra.
Tolto dalla scena Mussolini, che l’aveva voluta, questo sarebbe stato più
facile da realizzare. Solo Badoglio si faceva illusioni con le sue
dichiarazioni, non considerando che avrebbe solo suscitato diffidenza, poca
credibilità e rabbia repressa nei tedeschi, rabbia che esploderà con l’inizio
della loro occupazione dell’Italia.
La
popolazione pensando che con la caduta del fascismo la guerra sarebbe finita scese
spontaneamente ed ingenuamente nelle piazze d’Italia a manifestare
pacificamente la propria gioia. Il nuovo governo, nel quadro di una tragica
farsa, fedele al proclama del suo capo represse sistematicamente nel sangue
tali manifestazioni, quasi a voler rassicurare l’alleato tedesco che avrebbe
continuato la guerra al suo fianco nonostante l’avvicendamento alla guida del
governo. L’ordine pubblico fu mantenuto con una brutalità mai vista prima. A
Milano si ebbero 23 morti e 87 feriti per le manifestazioni dal 26 al 30
luglio, a Bari 17 morti e 36 feriti per la manifestazione del 28 luglio, a
Reggio Emilia con 9 morti e 30 feriti, sempre per una manifestazione del 28
luglio. Durante i 45 giorni del governo badogliano si hanno 83 italiani morti e
516 feriti. Un bilancio tanto tragico quanto inutile.
Al
riguardo per dare un’idea della gravissima situazione è il caso di ricordare le
disposizioni che il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Generale Roatta,
diede per mantenere l’ordine pubblico. Tali disposizioni prevedevano di aprire
il fuoco senza preavviso sui manifestanti ed il ricorso anche ai mortai ed
artiglierie “come se si procedesse contro
truppe nemiche”.
Il
comportamento ambiguo, le incertezze ed i ritardi con cui il Governo Badoglio
avviò contatti segreti con gli Alleati per trovare una possibilità di accordo
furono così tanti e persistenti che ingenerarono dubbi crescenti sulle reali
intenzioni, per motivi chiaramente opposti, sia negli anglo-americani che nei
tedeschi.
Badoglio,
che non voleva rivelare ad Hitler le proprie intenzioni, non predispose nulla
dal punto di vista militare per evitare l’afflusso in Italia, dopo la
destituzione di Mussolini, di ingenti forze tedesche. Dal 26 luglio al 18
agosto, infatti, in attuazione del piano di operazioni Alarico predisposto già da maggio del 1943, affluirono in Italia
attraverso il Brennero il Passo di Tarvisio e gli altri valichi alpini 17
divisioni e 2 brigate tedesche in rinforzo a quelle già presenti. Formalmente
queste truppe scendevano in Italia in aiuto degli italiani in realtà si
predisponevano ad occuparla nel caso in cui il governo Badoglio si fosse
ritirato dalla guerra.
Il
piano Alarico, aggiornato costantemente con l’evolversi degli eventi,
prevedeva: l’occupazione dell’Italia e dei territori presidiati dagli italiani
nella penisola balcanica ed in Francia; la liberazione di Mussolini;
l’occupazione di Roma ed il ripristino del governo fascista; il disarmo
dell’esercito italiano laddove questo si fosse opposto e la cattura della
flotta.
In
questo scenario il 31 luglio il governo italiano decideva, segretamente come
detto per evitare di allarmare i tedeschi già sospettosi dopo il 25 luglio, di
iniziare colloqui ufficiali mediante i normali canali diplomatici con gli
Alleati.
A
fine agosto 1943, il generale Castellano concordò il testo di armistizio
passato alla storia come “Armistizio
Corto”, un documento ambiguo (tra l’altro non vi era alcun cenno al
trattamento dei prigionieri italiani in mano alleata), approvato da Badoglio il
quale sperava di poterlo rinegoziare da posizioni migliori in futuro.
Nelle
ore pomeridiane del 3 settembre 1943, sotto una tenda piantata negli aranceti
nella piana di Cassibile in Sicilia, veniva firmato l’armistizio poi annunciato
da Eisenhower da Radio Algeri alle ore 16,30 dell’8 settembre 1943. Badoglio,
sconcertato in quanto si aspettava erroneamente l’annuncio non prima del 12
settembre, si risolse a proclamarlo con una trasmissione che l’EIAR (Ente
Italiano Audizioni Radiofoniche, la progenitrice della odierna RAI) mise in
onda alle 19,45.
All’annuncio
dell’armistizio, ai tedeschi non restò che mettere in atto senza più indugi il
piano “Alarico”.
In
un clima di grandissima confusione, iniziò quella che è passata alla storia
come la fuga di Pescara. Il Re, Badoglio ed i massimi vertici militari
abbandonarono precipitosamente Roma per raggiungere Pescara e quindi Ortona per
imbarcarsi su una nave militare, il Baionetta,
che li avrebbe sbarcati a Brindisi la mattina dell’11 settembre.
Nelle
stesse ore in cui il convoglio con le massime cariche dello Stato si dirigeva
indisturbato verso la costa adriatica le forze armate italiane, disorientate ed
in mancanza di disposizioni operative chiare e precise iniziavano a sfaldarsi
progressivamente, la corazzata “Roma” con a bordo l’ammiraglio Bergamini veniva
affondata nelle acque della Maddalena da aerei tedeschi e nella capitale già
avvenivano i primi scontri tra reparti dell’esercito italiano, a cui si unirono
civili armati, e tedeschi.
Il
9 settembre la 5^ armata americana al comando del generale Clark sbarcava nel
golfo di Salerno dove incontrava una accanita difesa tedesca.
Nel
momento in cui il re ed il capo del governo sbarcarono a Brindisi nacque il
cosiddetto Regno del Sud, che sarebbe
terminato con la liberazione di Roma il
4 giugno 1944, per garantire formalmente la continuità la sovranità
dello Stato italiano.
Il
12 settembre 1943, in attuazione del piano di Hitler, paracadutisti tedeschi
liberavano Mussolini tenuto prigioniero in un albergo sul Gran Sasso, in
Abruzzo.
Le
forze armate lasciate senza istruzioni operative si sfaldarono; i tedeschi
nell’ambito della già citata operazione Alarico, catturarono e
disarmarono in Italia ed all’estero oltre 600.000 soldati italiani che,
rifiutandosi di collaborare, furono subito inviati nei campi d’internamento in
Germania.
Alcuni
reparti dislocati fuori dai confini (in Corsica, nei Balcani, nelle isole Jonie
ecc.) riuscirono ad unirsi alle forze partigiane locali che combattevano contro
i tedeschi, altri opposero a questi una strenua resistenza, come a Cefalonia e
Corfù dove una volta arresisi dopo giorni di accaniti combattimenti i soldati
italiani furono barbaramente trucidati dai tedeschi. Per primo fu fucilato il
generale Gandin, quindi, gli altri ufficiali compresi quelli della Marina,
della Guardia di Finanza ed alcuni medici.
Nell’Italia
liberata - il cosiddetto Regno del Sud – il governo Badoglio, che il 13
settembre 1943 dichiarò guerra alla Germania, esercitava una sovranità limitata
a causa dell’occupazione anglo-americana.
Sul
piano politico, il 9 settembre si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale
(CLN), composto dai partiti antifascisti che ora rinascevano mettendo da parte
le loro profonde divergenze in vista dello scopo comune. In una prima fase il
CLN si oppose al governo Badoglio ed al re, ritenuti complici del fascismo.
Questa situazione di stallo fu superata nel marzo del 1944 con il ritorno
dall’Unione Sovietica, dopo venti anni, del segretario del Partito Comunista
Italiano Palmiro Togliatti. In un discorso tenuto subito dopo, noto come la
«svolta di Salerno», il leader comunista sostenne che occorreva mettere da
parte le pregiudiziali contro Badoglio e il re fino a che non si fosse giunti
alla completa liberazione del Paese. Poco dopo, il 22 aprile 1944, si formò il
secondo governo Badoglio, detto anche governo di unità nazionale, composto dai
rappresentanti dei partiti del CLN.
Con
la liberazione di Roma Vittorio Emanuele III trasferì i suoi poteri al figlio
Umberto, nominandolo luogotenente generale del regno e furono gli stessi
partiti antifascisti a designare il nuovo presidente del consiglio nella
persona di Ivanoe Bonomi.
Si
demandava così al futuro giudizio popolare la sorte della monarchia, per tanti
anni legatasi ed identificatasi col fascismo, si conveniva sull’opportunità di
una tregua istituzionale che permettesse di concentrare tutti gli sforzi nella
lotta contro i tedeschi, e si realizzava intanto una formula politica molto più
aderente alla volontà del Paese per quanto la rappresentatività dei partiti
potesse essere solo presunta, data l’impossibilità di procedere a regolari
elezioni.
In
tutto questo periodo e fino alla completa liberazione del suolo nazionale, nei
territori sotto il controllo tedesco e della Repubblica Sociale Italiana il
dispotismo nazifascista fu validamente contrastato dalla quasi unanime
resistenza passiva delle popolazioni e dalla valorosa resistenza attiva delle
formazioni partigiane. In particolare le brigate partigiane istituite,
trasformando le bande sorte per lo più spontaneamente dopo l’armistizio e l’occupazione
tedesca, dai comandi militari dei partiti politici. Fra queste possiamo
ricordare le brigate Garibaldi, del
Partito Comunista; le brigate Giustizia e
Libertà, ispirate agli ideali del Partito d’Azione; le brigate Matteotti del Partito Socialista; le Fiamme verdi e le Brigate del
Popolo (dette anche Brigate cattoliche) dei democristiani; le Mazzini dei repubblicani. Vi erano
infine le brigate autonome che
comprendevano elementi di diversa origine e tendenza non dipendenti dai comandi
militari dei partiti ma tutte unite nella lotta contro il fascismo. Nelle città
agivano i Gruppi di Azione Patriottica
(G.A.P.) prevalentemente comunisti articolati in squadre agilissime di pochi elementi
che con fredda e matura determinazione attaccavano i nazifascisti con azioni
rapidissime anche in pieno giorno.
La
lotta partigiana trovò il suo indispensabile organo coordinatore, che le
permise di assumere un ruolo politico che si proiettava oltre il termine del
conflitto, nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) formatosi il 9 settembre
1943 a Roma, subito dopo l’annuncio dell’armistizio, dal Comitato delle opposizioni al fascismo. In esso confluirono le
rappresentanze dei partiti comunista, socialista, d’Azione, democristiano,
liberale e democratico del lavoro. Il CLN, che ebbe funzioni ed importanza naturalmente
maggiore nell’Italia rimasta sotto la dominazione nazifascista che non nell’Italia
liberata dagli Alleati, rivendicò e si assunse la responsabilità di
rappresentare il popolo italiano nel momento tragico che vedeva i tedeschi
aggredire la patria e la monarchia incapace di impedirne l’occupazione. Da quel
momento, il CLN assolse le funzioni di governo clandestino e diresse la
Resistenza, con delega a rappresentare l’autorità legittima dello Stato nei
territori occupati dal nemico. Nella prima riunione, la mattina del 9
settembre, il CLN elesse a suo presidente Ivanoe Bonomi e decise di
strutturarsi in organismo centrale con analoghe rappresentanze partitiche
periferiche in tutta Italia.
Il
CLN, in sostanza, rappresentò una risposta concreta alla disgregazione dello
Stato ed all'assoluta incapacità dimostrata dalla monarchia e dal suo governo
di assolvere al compito di difendere la sovranità del territorio nazionale e la
vita stessa della popolazione. La sua composizione rappresentava una rottura
evidente con lo Stato rappresentato dal re e da Badoglio che avevano permesso e
sostenuto il fascismo e la sua guerra: a parte Bonomi e Casati, già in politica
prima della dittatura e poi ritiratisi a vita privata, gli altri membri del CLN
erano tutti esponenti dell'antifascismo che avevano pagato la propria
opposizione con il carcere, il confino e l'esilio.
Se
a Roma agiva il comitato centrale del CLN, il coordinamento della lotta armata
veniva assunto dal CLN Alta Italia con sede a Milano.
Successivamente
nel giugno del 1944, quando a Roma si era già insediato il primo governo di
unità antifascista diretta emanazione del CLN con alla guida Ivanoe Bonomi, con
l’intensificarsi della lotta partigiana che «aveva assunto una vastità ed
importanza che la qualificavano come un effettivo contributo italiano alla
lotta contro il nazi-fascismo»[1],
il comando militare del CLN Alta Italia fu trasformato in Corpo Volontari della
Libertà (CVL). Tale struttura più rispondente alle mutate esigenze operative,
la prima ad essere riconosciuta sia dal Governo italiano sia dagli Alleati,
ebbe il compito di coordinare e pianificare le operazioni militari delle diverse
forze partigiane presenti sul campo.
Alla
guida del CVL il governo Bonomi designò Raffaele Cadorna, generale
dell'esercito. Cadorna fu affiancato dai vicecomandanti Ferruccio Parri
(Partito d'Azione) e Luigi Longo (Partito Comunista), esponenti di spicco dei
due partiti politici che maggiormente vollero l'inquadramento delle forze
partigiane in una struttura omogenea. Gli altri componenti del CVL furono, in
questa fase, che sarà quella conclusiva, Giovanni Battista Stucchi (Partito
Socialista), nominato capo di stato maggiore; Enrico Mattei (Democrazia Cristiana);
Mario Argenton (Partito Liberale e formazioni autonome), aggiunti al capo di
stato maggiore.
Il
CVL concordò con i comandi alleati l'offensiva sulla linea Gotica e
l'insurrezione nazionale che, nella primavera del 1945, portò alla Liberazione
dell'Italia settentrionale. In pratica il CVL elaborò una linea
politico-militare comune per le varie brigate partigiane e costituì il braccio
armato della Resistenza, mentre il CLN ne rappresentava la mente politica.
Il
comando generale del CVL fu sciolto il 15 giugno 1945. Il suo impegno consentì
al partigianato italiano, unico a livello europeo, di giungere alla pace
«avendo alla sua testa un comando rappresentativo di tutte le forze
protagoniste della lotta». Con la legge del 21 marzo 1958, n. 285, il CVL ottenne
il riconoscimento giuridico di corpo militare regolarmente inquadrato nelle
forze armate italiane.
Dopo
questa parentesi dedicata al CVL, riprendiamo la Campagna d’Italia condotta dagli anglo-americani i quali al fine di
costringere l’Italia alla resa e piegare il morale della popolazione,
intensificarono i bombardamenti aerei in tutta Italia. Furono particolarmente
colpite Napoli, Salerno, Foggia e i grandi centri industriali del nord come
Bologna, Torino, Genova e soprattutto Milano che fu bombardata da 916 bombardieri
della RAF i quali sganciarono 4.284 tonnellate di bombe su tutta l’area della
città nelle notti dell’8, del 13, del 15 e 16 agosto 1943 che colpirono il 50%
degli edifici dei quali il 15% gravemente danneggiato. Le vittime furono 2.000,
250.000 i senza tetto, oltre 250.000 gli sfollati. I principali monumenti
milanesi furono semidistrutti, il teatro La Scala fu centrato in pieno da una
bomba di grosse dimensioni.
A queste città vanno aggiunte anche decine di
paesi piccoli e grandi che non erano sede né di fabbriche né di caserme. Vicino
Roma, per esempio, nel piccolo paese di Frascati ove si trovava il quartier
generale di Kesselring, 130 bombardieri americani l’8 settembre 1943
sganciarono 1300 bombe che causarono 500 morti tra i civili e 200 fra i
militari tedeschi.
Il
tributo pagato dai civili a causa dei bombardamenti aerei nel corso di tutta la
guerra fu altissimo.
Secondo
l’Istituto Centrale di Statistica, i morti civili per bombardamenti aerei
furono 18.376 dal 10 giugno 1940 al 7 settembre 1943 e 41.420 dall’8 settembre
1943 al 25 aprile 1945.
A
partire dall’8 settembre 1943 e fino all’8 maggio 1945 si sviluppò la Guerra di
Liberazione nazionale conseguente alla caduta del Fascismo combattuta non solo,
come detto, dalle Brigate partigiane e dai GAP ma anche dalle Forze Armate,
dall’Arma dei Carabinieri e dalla Guardia di Finanza. I reparti ed i singoli militari
a tutti i livelli diedero, seppure in condizioni psicologiche ed operative
estremamente sfavorevoli, un’eccezionale prova di responsabilità e di saldezza che
va ben oltre la semplicistica espressione “tutti a casa” utilizzata per
indicare in modo poco lusinghiero il comportamento dei militari dopo le confuse
ed ambigue vicende armistiziali.
La
maggior parte dei reparti oppose resistenza e difese gli obiettivi assegnati. Dopo
l’8 settembre 1943 e fino al termine del conflitto, oltre 600.000 militari furono
internati dai tedeschi; la vita di questi soldati, per quanto non paragonabile
a quella dei campi di sterminio, era durissima, l’alimentazione era ridotta al
minimo necessario. A questi militari, provati nel fisico e nello spirito,
venivano offerte alternative allettanti: lavorare per i tedeschi ed ottenere un
trattamento soddisfacente oppure aderire alla Repubblica Sociale e tornare in
Italia a combattere contro gli anglo-americani.
La
maggioranza di loro resistette a questa tentazione e respinse le proposte
entrando, a pieno diritto, con il loro sacrificio fra i combattenti della
Resistenza. 500.000 operarono inquadrati nei reparti regolari co-belligeranti,
mentre 500.000 prigionieri in mano agli Alleati optarono di cooperare come
lavoratori. Senza tener conto di quanti persero la vita nei campi di prigionia,
il tributo di sangue pagato da coloro che parteciparono allo sforzo bellico
alleato fu pesantissimo: circa 95.000 morti e dispersi e 20.000 feriti. Un
sacrificio che contribuì a risollevare le sorti del Paese consentendogli di
riconquistare la libertà e la democrazia.
Ebbene,
in quel periodo convulso e travagliato gli Alleati acconsentirono non senza diffidenza
e dietro insistente richiesta degli italiani, che volevano concorrere
attivamente alla liberazione del Paese dall’occupazione tedesca, alla
costituzione di una unità combattente.
Il
27 settembre 1943 in Puglia diciannove giorni dopo l’armistizio nasceva il 1o Raggruppamento Motorizzato,
l’embrione del nuovo esercito, formato con unità prelevate dal LI Corpo
d’Armata e dalle Divisioni Legnano, Piceno e Mantova oltre a 2 battaglioni e due sezioni Carabinieri. L’unità fu
posta al comando del generale Dapino.
Intanto, la situazione politico-militare progrediva
rapidamente: il 29 settembre fu
firmato l’Armistizio Lungo o
armistizio di Malta l'atto con il quale vennero precisate le condizioni della
resa senza condizioni già contenute genericamente nell'armistizio di Cassibile
(armistizio corto) che rimarrà in vigore fino al 10 febbraio 1947 quando il
Primo Ministro De Gasperi firmerà a Parigi il Trattato di pace.
Con la firma
del cosiddetto armistizio lungo l’Italia liberata fu costretta a fornire agli
anglo-americani tutto ciò che rimaneva delle proprie risorse finanziarie ed
infrastrutturali. L’attività amministrativa del governo Badoglio fu sottoposta
al diretto controllo degli Alleati.
Il 13 ottobre il governo Badoglio, al fine di
chiarire la propria condotta politico-militare e sciogliere ogni dubbio agli
Alleati, dichiarò guerra alla Germania. A partire da questa data, l’Italia assunse
la posizione di “cobelligerante” ovvero non fu più considerata nemica ma
neanche alleata nel senso stretto del termine ed i combattenti regolari
italiani, fino a quel momento considerati dai tedeschi alla stregua di banditi,
da un punto di vista giuridico rientrarono nella legalità
L’8 dicembre 1943 il 1o Raggruppamento Motorizzato ebbe il battesimo del fuoco a Monte Lungo in
Campania nella provincia di Caserta. L’attacco non riuscì a conseguire
l’obiettivo prefissato e fu ripetuto, questa volta con successo, il 16 dicembre
con il supporto degli americani.
Dopo questa azione assunse il comando dell’unità
operativa il generale Umberto Utili che il 31 marzo 1944 la guidò in un’altra
battaglia importante della Guerra di Liberazione quella di Monte Marrone
della catena montuosa delle Mainarde al confine tra Lazio e Molise.
Nel frattempo a sud di Roma tra Anzio e Nettuno gli
Alleati sbarcati a gennaio del 1944 per aggirare rapidamente le difese tedesche
del Garignano erano rimasti bloccati. Solo quattro mesi dopo, il 24 maggio, gli
americani riuscirono a sfondare il fronte tedesco. Roma fu liberata il 4
giugno.
Dopo i successi di Monte Lungo e di Monte Marrone
gli Alleati autorizzarono la trasformazione del 1° raggruppamento motorizzato
in una unità più consistente. Il 18 aprile 1944 nasceva il Corpo Italiano
di Liberazione (C.I.L.) con una consistenza di 25000 uomini, espressione
della ferma volontà italiana di impegnarsi al fianco degli Alleati contro i
tedeschi.
Operò
prima sulle Mainarde, inquadrato nel Corpo di Spedizione Francese, poi sul
litorale adriatico alle dipendenze del V Corpo d’Armata britannico.
Il
C.I.L. affrontò tre cicli operativi dalla metà di aprile alla fine di agosto 1944
risalendo la penisola dal Sangro al Metauro.
Il
primo ciclo lo possiamo inquadrare nel periodo 18-31 maggio, nella zona
delle Mainarde come detto.
Il
secondo dal 1° giugno al 16 agosto
nel settore adriatico che si concretizzò in una avanzata di 350 chilometri. Nei
giorni dall’8 all’11 giugno il CIL liberò Chieti, successivamente raggiunse l’Aquila
e Teramo, città sgomberate dal nemico poche ore prima dell’arrivo delle
avanguardie italiane. Il 17 giugno il CIL passò alle dipendenze del Corpo d’Armata
polacco; il giorno seguente venne liberata Ascoli Piceno, il 30 giugno
Macerata.
Nel
periodo 6-9 luglio si svolse la battaglia di Filottrano propedeutica alla liberazione di Ancona che avvenne il
18 luglio.
Il
terzo ed ultimo ciclo, 17-31 agosto, fu
quello più breve caratterizzato dallo spostamento verso la media ed alta
collina marchigiana dei settori di combattimento; tra il 28 ed il 30 agosto furono
liberate Urbino e Pegli, ove il CIL concluse la sua attività operativa.
Il 24 settembre 1944 il Corpo Italiano di
Liberazione veniva sciolto[2] e con
i suoi reparti fu avviata la costituzione dei gruppi di combattimento «Legnano»
e «Folgore» che si sarebbero affiancati agli altri quattro autorizzati dagli
Alleati: «Cremona», «Friuli», «Mantova» e «Piceno» armati ed equipaggiati con
materiale inglese. Il gruppo di combattimento «Piceno» fu trasformato in centro
di addestramento complementi e pertanto non prese parte ai combattimenti. Dei
cinque gruppi operativi quattro, il «Cremona» il «Friuli» il «Folgore» ed il «Legnano»,
furono effettivamente impiegati in combattimento nel periodo 14 gennaio – 23
marzo 1945 mentre il «Mantova» rimase in riserva.
Il
Gruppo di Combattimento era un’unità
organica di livello divisionale con un organico di 9.500 uomini inquadrata in
una Grande Unità anglo-americana. Nei comandi dei gruppi di combattimento furono
inserite delle unità di collegamento britanniche le British Liaison Units (B.L.U.)
che operavano agli ordini dei comandanti alleati. Queste unità avevano
inizialmente il duplice compito di facilitare i collegamenti tra i comandi
alleati ed italiani nonché controllare questi ultimi verso i quali gli
anglo-americani nutrivano ancora scarsa fiducia. Successivamente, di fronte
all’impegno, al valore ed al sacrificio dei soldati italiani queste riserve
furono spazzate via lasciando il posto ai più ampi attestati di stima ed
amicizia da parte degli Alleati.
All’inizio
del 1945 la sconfitta della Germania appariva ormai inesorabile. La Campagna d’Italia
volgeva al termine ed uno degli obiettivi principali era quello di impedire, in
vista del dopoguerra, che i tedeschi distruggessero ciò che di ancora
efficiente era rimasto dell’apparato industriale nel nord Italia.
Il
piano alleato prevedeva di sfondare le difese della linea Gotica con una
manovra a tenaglia su Bologna, l’infiltrazione rapida di truppe nel cuore della
valle Padana ed una contemporanea puntata offensiva su Venezia, Trieste, La
Spezia e Genova.
L’offensiva
venne lanciata il 9 aprile, preceduta da un intensissimo bombardamento di
artiglieria ed aereo. Le difese tedesche, fisse ed ancorate al terreno, furono
investite e travolte in più punti. Il 21 aprile Bologna fu raggiunta dalle
unità polacche e delle unità dei Gruppi di Combattimento italiani che iniziarono
a dilagare in pianura. La rotta tedesca assunse proporzioni sempre più gravi.
Il 30 aprile gli Alleati entrarono a Torino, Milano e Venezia, due giorni dopo
a Trieste.
La
progressione delle forze alleate, con la contemporanea convergenza di tutte le
forze insurrezionali che liberarono le grandi città prima dell’arrivo degli
anglo-americani impedì la temuta distruzione generale minacciata dai tedeschi
di ogni infrastruttura economicamente utile. L’annuncio della resa di tutte le
forze tedesche in Italia, firmata il 29 aprile, fu annunciata il 2 maggio. In
questi tre giorni elementi sbandati tedeschi in fuga commisero eccidi di
inaudita ferocia.
La
Campagna d’Italia terminava sei giorni prima della fine della guerra in Europa,
convenzionalmente fissata l’8 maggio con la firma a Reims della resa generale
tedesca.
La
Guerra di Liberazione terminava il 25 aprile, nel giorno in cui il Comitato di
Liberazione Nazionale Alta Italia proclamava l’insurrezione generale. Anche
nelle date emerge la profonda differenza esistente tra Campagna d’Italia e
Guerra di Liberazione.
Il
senso della Campagna d’Italia vista dagli Alleati è racchiuso nelle parole del
Generale Alexander:
«Quali
che siano le valutazioni che possono farsi sull’importanza della Campagna, esse
vanno espresse non in termini di terreno conquistato, poiché il terreno non era
vitale, nel ristretto senso della parola, né per noi né per il nemico, ma
considerando le conseguenze che essa ebbe sulla guerra nel suo complesso. Le
armate alleate in Italia non vennero impegnate contro le principali armate
nemiche, e i loro attacchi non furono diretti, come lo furono quelli degli
alleati a ovest e dei russi ad est, contro il cuore della Patria tedesca e i
centri nevralgici dell’esistenza nazionale della Germania. Il nostro ruolo fu
subordinato e preparatorio.
Dieci
mesi prima che da ovest venisse lanciato il grande assalto, la nostra invasione
dell’Italia, all’inizio condotta con forze molto moderate, attirò in quelle
remote regioni truppe che, se impiegate in Francia, avrebbero potuto far
pendere la bilancia dall’altra parte.
Col
progredire della Campagna, un sempre crescente numero di forze tedesche affluì
a contrastarci il passo.
I
supremi amministratori della strategia alleata ebbero sempre cura di provvedere
affinché le nostre forze non superassero mai il minimo necessario a consentire
di assolvere i nostri compiti; durante quei 20 mesi, non meno di 21 divisioni
vennero sottratte al mio comando a beneficio di altri teatri d’operazioni. I
tedeschi non operarono detrazioni paragonabili alle nostre.
Tranne
che per un breve periodo della primavera del 1944, essi ebbero in Italia un
numero di formazioni sempre superiore al nostro, e noi sapemmo fare così buon
uso di quel breve ed eccezionale periodo che nell’estate del 1944, il momento
critico della guerra, i tedeschi furono costretti a dirottare otto divisioni
verso il nostro teatro d’operazioni secondario.
A
quel tempo, quando l’importanza del nostro contributo strategico aveva
raggiunto il suo punto massimo, 55 divisioni tedesche furono inchiodate nel
Mediterraneo dalla minaccia, effettiva o potenziale, costituita dalle nostre
armate in Italia. I dati comparati sulle perdite ci dicono la stessa storia. Da
parte tedesca, esse ammontarono a 536.000 uomini. Le perdite alleate furono
312.000 uomini. La differenza è ancora più notevole se si considera che fummo
sempre noi ad attaccare.
Quattro
volte effettuammo quella che è la più difficile operazione della guerra, uno
sbarco anfibio.
Tre
volte lanciammo un’offensiva preordinata con la forza di un intero gruppo di
armate. In nessun’altra parte di Europa i soldati affrontarono un terreno più
difficile e avversari più decisi.
La
conclusione è che la Campagna d’Italia assolse la sua missione strategica.»
Osvaldo Biribicchi è docente al Master di 1° LIvello in Storia Militare Contemporanea 1796 - 1960
presso Università N Cusano Telematica Roma ( www.unicusano.it(master)
[1]
Marziano Brignoli, Raffaele Cadorna
1889-1973, Stato Maggiore Esercito-Ufficio Storico, Roma 1981 p. 106.
[2]
Complessivamente il Corpo Italiano di
Liberazione nel periodo aprile-agosto 1944 ebbe 377 caduti e 880 feriti.
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