La battaglia di Iwo Jima
di Anastasia Latini
Mentre in Europa l’inizio
del 1945 segnava il tramonto del Terzo Reich, la battaglia ancora infuriava
nell’Oceano Pacifico e gli
Stati Uniti stentavano a piegare la resistenza giapponese.
Una battaglia che per molti aspetti segnò il passo fu quella combattuta sull’isola di Iwo Jima, il cui esito fu immortalato dalla celebre
foto Raising the Flag on Iwo Jima scattata da Joe Rosenthal che gli
valse il Premio Pulitzer e che divenne una delle immagini più rappresentative della seconda
guerra mondiale.
Iwo Jima è un’isola appartenente all’arcipelago Volcano, all’epoca abitata da circa 1.200
persone, tutte evacuate per renderla una roccaforte della difesa giapponese
dopo l’arretramento del
fronte, dovuto alla pressione degli americani sugli arcipelaghi occupati.
Iwo Jima era un obiettivo strategico fondamentale per gli Stati
Uniti che si preparavano ad un’invasione
del territorio nazionale giapponese: l’isola
faceva parte della sottoprefettura di Ogasawara che a sua volta era parte dell’amministrazione metropolitana
di Tokyo, e la sua occupazione avrebbe procurato uno shock psicologico notevole
ai giapponesi.
Altre motivazioni risiedevano nella sua posizione: era ad una
distanza dalla capitale che permetteva di inviarvi gli aerei bombardieri B-29
con la scorta dei caccia North American P-51 Mustang, una scelta
necessaria visto che questi ultimi avevano bisogno di una base di
rifornimento in prossimità dell’obiettivo da raggiungere, e facendone a meno i caccia giapponesi
a difesa del territorio nipponico avrebbero costretto i Superfortess a
volare a quote molto elevate, rendendo impreciso il bombardamento.
Il problema del rifornimento è stato centrale nella scelta di occupare Iwo Jima, che
poteva diventare una base intermedia perfetta per il rifornimento dei B-59 di
stanza nelle isole Marianne, così
che fossero in grado di caricare più del doppio delle bombe, alleggeriti da meno carburante e
che in caso fossero stati colpiti potevano atterrarvi senza dover attraversare
un tratto consistente di oceano.
I giapponesi avevano dotato infine l’isola di due aeroporti, Motoyama 1 e 2, mentre un
terzo era in costruzione e venne in seguito completato proprio dalle forze
statunitensi che così potevano
contare di un’isola fortificata
e dotata di uno snodo aereo in pieno territorio nemico.
Nel giugno del 1944 la difesa di Iwo Jima veniva affidata al
generale Tadamichi Kuribayashi che doveva prepararsi a difenderla senza la
possibilità di ricevere
rinforzi in caso di attacco.
Da circa 5.000 uomini si arrivò ad una guarnigione di 22.000 soldati, supportati da un
consistente numero di cannoni antiaerei e anticarro, carri armati 97/Chi Ha e
95/Ha Go e mortai di ogni tipo.
Il vero capolavoro della difesa dell’isola tuttavia era la rete di tunnel e postazioni
sotterranee che il generale Kuribayashi fece costruire: 18 km di gallerie rese
possibili dalla conformazione vulcanica del terreno, che ne rese d’altro canto difficoltosa la
costruzione a causa dei vapori sulfurei che si sprigionavano durante gli scavi.
La struttura sotterranea collegava bunker, casematte, trincee
coperte e artiglierie, il tutto protetto da cemento armato e porte blindate e
reso pressoché invisibile
alle forze di invasione.
Questo fu il motivo che spinse i giapponesi a difesa dell’isola a non contrattaccare al
consueto bombardamento che precedeva lo sbarco, cosicché le postazioni degli artiglieri rimanessero celate fino all’inizio della battaglia.
L’esercito
nipponico poteva contare sulla preparazione e la superiorità strategica contro un nemico
che aveva dalla sua possibilità di
rifornimento quasi infinite e un maggior numero di uomini e mezzi da usare per
la conquista dell’avamposto.
Kuribayashi sfruttò
le ridotte dimensioni dell’isola,
che ha un’area di 20 km², una lunghezza di 8 km e una
larghezza di soli 730 m, predisponendo la divisione in tre settori di difesa: l’estremità meridionale in cui si trova il monte Suribachi, dotato di
postazioni fortificate, collegato alla parte settentrionale da uno stretto
istmo affidato alla fanteria, e infine le colline al centro e al nord dove si
concentrava il maggior numero di soldati, chiamato Meat Grinder (tritacarne).
La battaglia come previsto venne anticipata da un violento
bombardamento americano iniziato l’8
dicembre 1944 che proseguì in
crescendo fino al giorno dello sbarco, procurando comunque pochi danni all’organizzata rete di protezione
giapponese benché sia
stato il più intenso e
lungo operato dalla U.S. Navy in tutta la guerra.
Il piano difensivo di Kuribayashi prevedeva di iniziare l’azione contro gli invasori non
sulla spiaggia, ma lungo l’area
dove si trovavano le principali opere di difesa, carri armati, casematte e
postazioni di artiglieria.
Il 19 febbraio i marines della IV e V Divisione (con la
III nelle retrovie) sbarcarono sull’isola,
preceduti da intensi bombardamenti di sei corazzate e cinque incrociatori della
Marina e 120 aerei Vought e Curtiss, che disseminarono l’isola di bombe per ore prima che venisse dato il via libera
alle truppe di terra.
Un errore dei giapponesi fu nella tempistica, infatti si diede
il tempo ai marines di portare sull’isola tutto il necessario per costruire una testa di ponte
in grado di assicurare il rifornimento di uomini e mezzi; nonostante la
perfetta coordinazione del fuoco incrociato giapponese, sarebbe stato
impossibile cacciare indietro gli americani.
Il 23 febbraio il monte Suribachi e l’aeroporto Motoyama 1 erano caduti, grazie all’uso dei lanciafiamme e dei
carri armati Sherman dotati di questa arma che neutralizzò gli attacchi delle artiglierie
sotterranee dei giapponesi, provati già
da pesanti perdite dei primi giorni della battaglia.
Dal quinto giorno l’offensiva
statunitense si concentrò nella
zona centrale, la cosiddetta Meat Grinder, una delle maggiormente difese
e che non si prestavano ad un uso efficiente dei carri dato il terreno
roccioso.
Dopo un avanzamento a colpi di bombe a mano e lanciafiamme per
contrastare gli attacchi dalla rete sotterranea giapponese, i difensori uscirono
allo scoperto lanciandosi in un corpo a corpo tra i più sanguinosi del conflitto che si prolungò fino al 10 marzo.
Costretti a ripiegare lungo la costa nord-orientale, i
giapponesi sferrarono un attacco kamikaze a discapito del parere contrario del
generale Kuribayashi, che causò ulteriori
perdite alle poche forze nipponiche rimaste, le quali si disgregarono
definitivamente nell’ultima
fase della battaglia.
Il 26 marzo le truppe giapponesi avevano capitolato e
Kuribayashi era morto insieme alla maggior parte dei suoi soldati, su circa
22.000 uomini posti a difesa di Iwo Jima i morti erano superiori ai 18.000,
mentre dalla parte statunitense si attestavano intorno ai 6.000, più l’affondamento della portaerei Bismarck Sea ad opera di
un attacco kamikaze.
L’Operation
Detachment (Operazione Distacco) era durata 35 giorni, impegnando 70.000
soldati americani di cui 30.000 sul campo di battaglia, in uno scontro frontale
senza tregua tipico più del
primo conflitto mondiale che del secondo.