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lunedì 16 marzo 2015

8 settembre 1943. La Crisi armistiziale.

Alle Origini della Guerra di Liberazione

L'uscita dell'Italia dalla guerra dichiarata il 10 giugno 1940 con la firma, il 3 settembre  1943 a Cassibile del cosiddetto 'armistizio corto si impose come una necessita prima militare poi morale per porre fine ad una guerra senza più speranze di vittoria, senza alcuna possibilità, nemmeno remota, di conseguire gli obbiettivi politici e strategici che si volevano ottenere. Non è qui la sede di disquisire dell'errore alleato di imporre la resa incondizionata, errore fuori d'ogni logica strategica e militare, oltre che irrazionale dal punto di vista politico, che fu pagato nei mesi successivi molto duramente dagli Alleati stessi.  Qui si vuole sottolineare l'errore italiano che, data la situazione non fu quello di accettare la resa senza condizioni, ma di aver gestito le trattative armistiziali, i tempi e i modi e l'attuazione dell'armistizio,  con incertezza, con paure, con secondi fini, con riserve mentali, con modi e tempi troppo lunghi per sperare in un successo. L'uscita dalla guerra fu condotta come la guerra: con insipienza, con scarsezza di vedute, con strategie di basso profilo che portarono ad errori su errori fino a sfociare in quella che oggi  rappresenta una delle date più buie della nostra Storia Patria. Tanto che si può affermare che prima di una sconfitta militare e politica, l'8 settembre fu prima di tutto una disfatta morale.[1]
Scrive Stefani "Il tessuto con­nettivo spirituale e morale, faticosamente costruito dal 1848 in poi, subì una lacerazione ampia e profonda, di difficile e lunga rimargi­nazione, le cui cicatrici sono ancora visibili. Il disorientamento fu gra­vissimo e generale. Molti mali morali dei quali l'Italia, a quarant'an­ni dall'evento, continua a soffrire ebbero origine da quella catastro­fe. Il marasma spirituale e morale non fu minore di quello politico e militare. Entrò in crisi la stessa coscienza unitaria della nazione, messa in grave pericolo dalla divisione in due tronconi del territorio nazionale, uno alla mercé degli angloamericani, l'altro dei tedeschi. I valori tradizionali, per la cui affermazione e difesa si erano battute intere generazioni ed avevano sacrificato la vita centinaia di migliaia dì soldati, persero, nella coscienza di molti, credibilità ed affidabili­tà. La sedizione di Mussolini e dei fascisti, decisi a continuare la lotta a fianco dei nazisti, provocò la guerra civile. Nuovamente terra di do­minio degli stranieri, l'Italia sembrò tornare alle forme deteriori del periodo medioevale. La depressione spirituale e morale incentivò l'ob­nubilamento di molte coscienze, indusse a scelte opportunistiche e di comodo, favorì la fuga dalle responsabilità. Nel vuoto spirituale e morale, singoli e gruppi, in buona parte, non seguirono che l'impul­so di interessi contingenti e materiali, ignorando i diritti e le ragioni della Patria, e si ebbe così un processo di dissoluzione che parve inar­restabile, ma che per grazia di Dio non lo fu."

In Italia le forze tedesche erano quantitativamente inferiori a quelle italiane, e così pure all'estero. Come vedremo, addirittura in Albania vi erano sei divisioni italiane contro nessuna tedesca e, dato ancora più rimarchevole, i soldati germanici non superavano le poche centinaia, contro un totale dei soldati italiani  sull'ordine dei 118 mila.
Non si può parlare di superiorità quantitativa tedesca né in Albania, né  altrove. Riferita alla qualità dei mezzi blindo­corazzati e dei mezzi meccanici di trasporto, la superiorità dei tede­schi era invece quasi ovunque di un qualche rilievo, ma occorre ag­giungere che, mentre essi si giovarono sempre con grande profitto del­l'elevato grado di mobilità delle loro unità, raramente sentirono il bi­sogno dì fare ricorso a formazioni massive di carri armati e di mezzi blindati, dei quali si servirono essenzialmente per esercitare minac­ce potenziali utilizzando in genere reparti di livello modesto. Scrive ancora Stefani "Più che alla disponibilità di ottimi carri armati, cannoni, pezzi controcarri e contraerei, la superiorità qualitativa dei tedeschi fu espressa dalla loro abilità tattica, dalla loro flessibilità ordinativa e dalla perfezione del­le loro tecniche d'impiego, comprese quelle di carattere psicologico. Altro fattore della superiorità tedesca fu la capacità del personale mi­litare addetto a compiti territoriali, logistici e burocratici a trasfor­marsi rapidamente, al momento del bisogno, in soldati combattenti, professionalmente non meno abili di quelli inquadrati nelle unità di impiego tattico. Niente di simile nella pletora di scritturali, magazzi­nieri, piantoni, attendenti dell'esercito italiano e neppure nei repar­ti di difesa territoriale o di truppe ai depositi, sebbene non siano mancati, da parte di queste ultime, episodi brillanti di resistenza imperniata su fattori morali più che sostenuta da adeguata perizia pro­fessionale.
 Oltre che possedere un elevato grado di addestramento, le unità tedesche erano state psicologicamente preparate all'aggressio­ne ed al ricorso alla sorpresa, all'astuzia, all'inganno, alla rapidità del­le azioni."

Accanto a questi elementi tecnici, occorre sottolineare che i germanici non rinunciarono all'arma dell'inganno. A riprova che ricorsero in larga misura alla ma­lafede, al ricatto, al tradimento della parola data, al terrore, alla minac­cia ed all'effettuazione di rappresaglie degne di barbari, non è altro che la continuazione di un'alleanza sempre gestita in modo scorretto ed anormale. I punti di de­bolezza delle unità italiane, dislocate in patria e nei territori occupa­ti, erano la grande diluizione degli schieramenti ed il disequilibrato frazionamento dei reparti, aggravati in taluni settori dal frammischia­mento con le unità tedesche. Sebbene diverso da unità ad unità, il mo­rale era generalmente basso e l'improvvisa notizia dell'armistizio non giovò al mantenimento dei vincoli disciplinari nei reparti. Nessuno, in definitiva, può contestare che nel pomeriggio dell'8 settembre la situazione strategica e militare italiana fosse difficile, delicata, incerta e minacciata da gravi pericoli ovunque, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che entro 72 ore, l'esercito italiano, come tale, sarebbe scomparso da tutti i campi di battaglia, ad eccezione della aliquota della 7^ Armata dislocata in Calabria, in Basilicata e nelle Puglie, del­le forze esistenti in Sardegna ed in Corsica e di poche unità che resi­stettero più a lungo nelle isole greche, nonché della divisione "Perugia" che in armi resistette nel sud dell'Albania, fino al 1 ottobre 1943 nella attesa di un aiuto che non venne e che fu abbandonata alla reazione tedesca.

Stefani scrive " senza nessuna grande batta­glia ‑ l'unica ingaggiata venne fatta sospendere, ordinando il rompe­te le righe alle grandi unità dei corpi d'armata di Roma, nella sua fa­se decisiva, quando era ancora prevedibile il successo ‑ 52 divisio­ni 16, ancorché di efficienza e di capacità combattiva ridotte, cessa­rono di esistere dopo che la gran parte dei comandi d'armata e di cor­po d'armata che le inquadravano o si erano autosciolti, od erano stati catturati, o avevano cercato e raggiunto intese con i tedeschi. Spesso fu il disarmo morale dell'alto a provocare quello materiale del basso. Molte, dunque, furono le concause della disfatta militare, ma è fuori della obiettività storica chi non vi inserisce la pronta disponibilità di molti comandanti e stati maggiori di livello elevato alla trattativa con i tedeschi. Può non essere priva di fondamento la tesi che, dalle pre­cedenti direttive delle autorità militari centrali, molti comandi peri­ferici elevati possano avere dedotto che l'armistizio fosse stato con­cordato con gli stessi tedeschi. Come spiegare diversamente, si chie­sero molti comandanti, che per 45 giorni si era tollerato l'ininterrot­to afflusso di forze germaniche nella penisola e nei territori occupati e che a queste era stato consentito di assumere lo schieramento più idoneo e vantaggioso per incapsulare, intrappolare e paralizzare al momento voluto le unità italiane, e di farla da padrone sulle vie di comunicazione e sui centri nodali dei trasporti? E che cosa dire del­l'ambiguità di tutte le direttive ricevute dai comandi di grande unità dal 10 agosto in poi e dello stesso proclama del maresciallo Badoglio?"
" Le responsabilità dei vertici ‑ sostiene Filippo Stefani ‑ furono enormi, ma molte rinunzie aprioristiche alla lotta da parte di alti comandi periferici sulla base di valutazioni precipitose, agita­te, di comodo, o sulla base di presunzioni infondate e comunque di per sé prive di riscontro obiettivo, o volute giustificare con la neces­sità di evitare massicci bombardamenti aerei sulle città ovvero scon­tri giudicati frettolosamente perduti in partenza, furono fuori della logica operativa e ispirate più dall'istinto dell'autoconservazione che non dall'esame ponderato delle contingenze. Vi furono sbandamenti e abbandoni da parte di singoli e di interi reparti; non vi furono am­mutinamenti e diserzioni in massa. L'ordine di cessare il fuoco, di con­segnare le armi, di rompere le righe partì quasi sempre dall'alto. Là dove i comandanti vollero, ripresero subito alla mano le loro unità e repressero rapidamente con opera di persuasione la confusione mora­le, il disordine e le fughe in uniforme o in abiti civili. Attribuire lo sfa­celo al basso tono morale ed alla scarsa volontà dei soldati di conti­nuare a combattere a fronte rovesciata, significa generalizzare i casi particolari. La grandissima maggioranza delle grandi e delle minori unità deposero le armi o perché materialmente sopraffatte o in obbe­dienza agli ordini dei comandi gerarchici superiori. La disponibilità alla lotta contro i tedeschi era molto più elevata di quanto gli alti co­mandi avessero valutato. Anche reparti e soldati della milizia imbrac­ciarono le armi contro i tedeschi."
 Il quadro che emerge all'indomani di questa disfatta fu che ognuno dei soldati italiani dovette decidere secondo coscienza, secondo le opportunità e secondo le circostante, spesso portato dall'onda del caso.
Vi furono coloro che accettarono gli ordini e quindi si arresero ai tedeschi, per poi essere avviati in Germania e in Polonia in quei campi di concentramento ove furono considerati alla stessa stregua dei prigionieri sovietici e poco al di sopra degli israeliti. Questa resa fu riscattata dal plebiscitario rifiuto di collaborare con i germanici e i fascisti della RSI, di fatto con questo rifiuto, deligittamondola. Coloro che riuscirono, con vari mezzi, a raggiungere il territorio metropolitano, per coloro che erano all'estero o le loro famiglie se in Patria. Coloro che aderirono alla vecchia alleanza dando vita all'ultima stagione del fascismo, o, se all'estero, inquadrati in reparti ausiliari dell'esercito tedesco, con divisa tedesca, impiegati per lo più contro i movimenti di resistenza locali. Coloro che presero la via della montagna, dando vita alla resistenza, in Italia, o entrando nei movimenti locali di resistenza se all'estero, come accadde in Francia, in Jugoslavia, in Grecia e in Albania. Sono coloro che presero le armi per non accettare la tragedia dell'armistizio. Gli Internati, i "Fedeli "alla vecchia alleanza, i Non aderenti e i Non combattenti, i Combattenti contro l'alleanza nazifascismo ecco che cosa divennero i soldati italiani all'indomani dell'armistizio, subito dopo il momento delle scelte, scelte che non potevano essere rimandate.

Della disponibilità alla lotta contro i tedeschi dettero prova, a cominciare da Roma, anche semplici cittadini che inviarono propri comitati pres­so i comandi delle grandi unità complesse, o quelli della difesa territo­riale, per chiedere armi al fine di affiancarsi ai soldati. A Roma, a To­rino, a Milano ed altrove i comandi ritennero di non poter aderire alle richieste, rifiutando un concorso che sarebbe stato quanto mai vantag­gioso ai fini morali e quanto mai utile per anticipare i tempi di orga­nizzazione e di entrata in azione della resistenza
Stefani sottolinea "Qualora i vertici e molti altri capi fossero stati pronti a dare te­stimonianze, anche a costo della vita, della loro determinazione nel­l'opporsi ai tedeschi, malgrado la drammaticità di molte situazioni, forse gli eventi avrebbero seguito un corso diverso ‑ basti ricordare la difesa di Roma ‑ e certamente dalla inevitabile sconfitta‑disfatta, non sarebbero derivati il decadimento generale degli ideali e dei sen­timenti di amore della Patria, la diffidenza contro l'autorità e contro qualsiasi forma di guida disciplinata, il misconoscimento dell'onore, dell'obbedienza, dell'impegno, del dovere, dell'ordine e della discipli­na, il rifiuto dello spirito di sacrificio ‑ prìncipi basilari del soldato ‑ che furono le conseguenze più gravi dell'8 settembre e quelle che produssero la disfatta. Valori più o meno sfacciatamente messi in di­sparte, nell'imminenza del pericolo potenziale tedesco, da molti di co­loro che di tali qualità e virtù avrebbero dovuto essere il modello. La causa prima della disfatta fu la penuria di capi competenti e capaci, ricchi di senso del reale, di padronanza di se stessi, di disinteresse personale, di fede nella grandezza del compito, di dignità, di decisio­ne e di tenacia. Ancora peggio fu la mancata celebrazione in tempi posteriori di un processo a tutto lo staff politico e militare. Il silenzio su molte responsabilità venne interpretato come se non vi fosse stata materia per procedere. I processi celebrati a caldo a carico di alcuni generali non valsero a focalizzare le responsabilità a monte. Vi furo­no molti comandanti liberi da ogni colpa, ma ve ne furono altri ‑ che pure in precedenti occasioni avevano reso eminenti servigi alla Pa­tria in pace ed in guerra ‑ che avrebbero dovuto essere chiamati a giustificare il loro comportamento o la loro inerzia.
Per molto meno, nel 1849, era stato condannato e fucilato il generale Ramorino sul quale vennero scaricate, non tutte con fondamento, le responsabilità della sconfitta di Novara ed era stato sottoposto a giudizio del Sena­to del regno e degradato per inettitudine l'ammiraglio Pallion conte di Persano, battuto a Lissa il 20 luglio del 1866 dalla flotta dell'im­pero asburgico".

Si è d'accordo con Stefani che non è il caso, oggi, di intavolare processi o avviare istruttorie, ma, "sul piano storico, è necessario alzare i veli, ripudiare i falsi pudori, bandire gli eufemismi se si vogliono davvero restaurare tutti i valori che l'8 settembre vennero negletti e misconosciuti impu­nemente. Per coprire le responsabilità dei colpevoli furono enfatizzate la superiorità dei tedeschi, l'eccitazione prodotta dall'improvvisa noti­zia dell'armistizio, la disseminazione e la frammentarietà delle unità e degli schieramenti (che pure esisteva), l'insufficienza del tono mo­rale dei singoli e delle unità e la propensione generale a deporre le armi per fare ritorno alle proprie case. Parametri tutti indubbiamen­te presenti, ma che non bastano a spiegare l'8 settembre, senza dire che alcuni di essi erano l'effetto dell'insipienza e dell'imprevidenza dell'alto, e che tanto meno autorizzano a riversare sulla collettività dei gregari le colpe dei capi. Di queste ultime una delle più gravi fu proprio il non aver colto e l'aver trascurato l'anima dell'esercito, la quale, malgrado tutto, sopravviveva e là dove venne valorizzata dette prove luminose della sua vitalità. Altrimenti non vi sarebbero stati i tanti combattimenti ……, il rifiuto corale alla colla­borazione con i tedeschi degli internati militari nei campi di concen­tramento, l'avvio immediato della lotta clandestina armata, la cui or­ganizzazione militare iniziale fu opera esclusiva, o quasi, di ufficiali, sottufficiali, graduati e soldati delle forze armate, soprattutto dell'eser­cito; la ricomparsa, in prima linea, esattamente due mesi dopo (8 di­cembre), della prima formazione dell'esercito regolare sul costone di monte Lungo." Come, nella metà  di ottobre 1943 in Albania, vi erano cinquemila soldati italiani armati, ordinati nel Comando Italiano Truppe alla Montagna, comando organizzato e concordato con le Missioni Alleate in Albania e con il Comando dell'Esercito Liberazione Nazionale Albanese.
  Una configurazione diversa dell'8 settembre è pretestuosa o quanto meno reticente, se non addirittura deliberatamente falsa.
(massimo.coltrinari@libero.it)



[1] Una tesi sostenuta a  più riprese da Filippo Stefani a cui aderiamo, Cfr.Stefani F., La Storia
della dottrina e degli ordinamenti dell'Esercito Italiano - Dalla Guerra di Liberazione all'Arma atomica tattica, Ministero della Difesa, Stato Maggiore dell'esercito, Ufficio Storico, Roma, 1987,Volume III, Tomo 1°. In particolare vds. il cap. XLII "LA Disfatta. La Resisteza", paragrafo 3, a cui ci si è ispirati per il presente capitolo e a cui, per approfondimento, si rimanda.

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