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lunedì 4 gennaio 2010

La Prigionia in URSS.
Fu veramente così crudele?

Massimo Coltrinari

(info: massimo.coltrinari@uniroma1.it)

Attraverso l’analisi dei dati recentemente acquisti, nella considerazione delle peculiarità della guerra ad est, la prigionia in Urss può, con i dovuti presupposti, essere considerata come tutte le altre prigionie.

La prigionia in mano alla Urss è intesa, sia dalla storiografia recente che dalla pubblica opinione, ed anche a livello di studiosi e amanti delle cose storiche, come una delle più crudeli ed efferate. Questo approccio è dovuto alle violente polemiche del dopoguerra, alimentate anche dallo scontro ideologico e dalla scarsa conoscenza dei dati e quindi della realtà in cui questa prigionia si esplicò.
Dire che oltre l’86% dei prigionieri italiani caduti in mano alla Urss nell’arco di tempo che va dal dicembre 1942 al gennaio 1946 trovò la morte in prigionia, avvalora l’approccio sopra riportato. Infatti questo dato è stato sempre messo in relazione alla mortalità avutasi nelle altre prigionie.
La tabella I riporta i dati quantitativi delle altre prigionie, con relativo grafico esplicativo, in cui si evince che la mortalità della prigionia italiana in mano alla Gran Bretagna è del 2%, quella in mano agli Stati Uniti dell1%, cosi come quella in mano alla Francia. In mano alla Jugoslavia ed alla Romania si raggiunge la cifra del 9%, che è di gran lunga superiore a quella in mano alla Germania, che si attesta, anche essa, sull’ordine del 2%. La mortalità in mano alla Urss, invece, assume un dato veramente abnorme, ovvero dell’86%.

Occorreva dare una spiegazione a questo dato, altrimenti inspiegabile. Sicuramente doveva essere intervenuto un evento o più eventi concomitanti che, in modo anomalo, hanno inciso sulla mortalità di questa prigionia. O meglio sul mancato ritorno di tanti soldati caduti in mano alla Armata Rossa.

I parenti ed i familiari dei dispersi, memori di quanto accaduto all’indomani della Prima Guerra Mondiale, quando numerosi trentini e giuliani, inviati, nelle fila dell’Esercito Austro Ungarico, a combattere sul fronte orientale, ritornarono dopo anni e molti con la famiglia al seguito. Quindi in queste famiglie di dispersi si diffuse la convinzione che molti soldati italiani, subito dopo la ritirata o nell’immediato dopoguerra si fossero creati una famiglia russa ed avessero coscientemente rinunciato a ritornare in Patria. Tale ipotesi era sostenuta in modo indiretto dalle correnti filosovietiche ed alimentate dai soliti sciacalli che nelle grandi come nelle piccole tragedie imperversano.
Molti si rendevano conto, però che la percentuale degli assenti era troppo alta per potere accettare sena riserve le “volontario non ritorno”. Vi dovevano essere sicuramente altre cause.

Le correnti antisovietiche e specialmente cattoliche, di contro, sostenevano che, al pari dei prigionieri germanici e giapponesi, i prigionieri italiani erano trattenuti dai sovietici come schiavi ed impiegati nelle miniere estrattive o nell’immenso arcipelago “Gulag”. Ed anche qui la malafede, mista al citato sciacallaggio, non difettò.

Queste due tesi furono da sempre respinte da coloro che furono rimpatriati, cioè dai reduci dalla Prigionia sovietica. Coloro che riuscirono a superare le prove della prigionia in mano alla Urss, sostenendo che date le condizioni della Urss di Stalin era praticamente impossibile per un prigioniero delle forze dell’Asse, arrivato in Urss come oppressore e invasore, essere, da prigioniero integrato nella società collettivista. La NKVD, la polizia politica, non l’avrebbe mai permesso e nulla sfuggiva, in quegli anni alla NKVD. Di contro che grandi masse fossero trattenute come schiavi era un'altra diceria insostenibile, date le condizioni in cui si viveva nei campi di prigionia.

I reduci, con queste loro affermazioni, si scontravano sia con le correnti prosovietiche che con quelle antisovietiche e quindi erano attaccati da tutti. Ben presto lo scontro fu più che altro portato sul terreno ideologico, radicalizzandosi oltre misura.
In questo clima incandescente, i dati oggettivi venivano intepretati con occhio di parte. Anche se le polemiche si sono attenuate, a cinquant’anni di distanza, le posizioni in pratica sono le stesse. Ed è facile prevedere che anche questo articolo riceverà i pro i contro e le stesse critiche confezionate nel dopoguerra, contribuendo a quella informazione distorta che ancora oggi persiste.

Partendo da dati forniti da Governo Russo di recente (primi anni novanta) questi attestano che su 50.000 mila prigionieri dell’ARMIR in mano alla Urss, 40 mila sono morti in prigionia, ovvero dopo la cattura , intesa in tutte le sue fasi.[1]
Quindi su cento prigionieri, venti sopravvissero. Su questo dato si può riprendere, anche sulla scorta del Rapporto UNIRR che abbiamo posto a riferimento della nostra ricerca, la cifra dei mancanti al termine della ritirata, cifra che abbiamo individuato nello scorso numero e che ammonta a 95.000 uomini.

Dei 95.000 circa assenti alle bandiere al termine della ritirata, marzo 1943, risultano essere 25.000 sono morti nel corso della medesima, 70 mila sono stati catturati. Di questa massa di 70 mila, 10 mila sono sopravvissuti e sono stati rimpatriati entro il 1946. Dei mancanti 60 mila, sono morti tutti in prigionia ed in base alle fonti russe, 40 mila sono stati censiti come morti nei lager e 20 mila durante le varie fasi della cattura oppure non censiti nei primi mesi di prigionia.

La tabella II ci indica, sulla base dei dai forniti dai russi, l’andamento della mortalità dei nostri prigionieri in mano sovietica. Questa tabella è stata costruita traslitterando dal cirillico oltre 40 mila schede fornite dalle autorità di Mosca. La data del decesso presente in oltre il 90% delle schede, ha consentito di costruire la tabella stessa con sufficiente esattezza.
Il primo dato evidente è quello che tra il febbraio all’aprile del 1943 si ha oltre l’85% dei morti in prigionia. , con una punta massima nel mese di marzo, quando morirono circa 300 nostri militari al giorno.

Le cause di questa altissima mortalità si possono individuare, sommariamente, alla spossatezza dopo i combattimenti, alle condizioni climatiche pessime, alla metodica e sistematica azione russa a spogliare degli indumenti pesanti i nostri prigionieri al momento della cattura, ( elemento questo che si inserisce nella crudeltà tipica della guerra all’est) alla scarsezza di cibo, alle pesantissime marce a cui furono sottoposti i nostri soldati, alla quasi nulla assistenza che i sovietici diedero ai nostri prigionieri, al diffondersi di malattie infettive, come il tifo petecchiale ed altre, alla mancanza di cure e soccorso, al sistema di trasporto per ferrovia adottato ( in carri merci, senza riscaldamento e pigiati l’un contro l’altro) alle pessime condizioni igienico-sanitarie dei campi di smistamento ed infine alla perdurante mancanza di cibo anche nei lager definitivi.

Questo ha fatto si che la moralità fu altissima nei primi mesi del 1943, per poi rientrare nella norma da maggio 1943 fino al rimpatrio.

Su questo dato occorre ragionare.
E’ indubbio che esiste una precisa responsabilità sovietica di questo stato dato di cose. Secondo il nostro modo di pensare e di agire, chi in combattimento cattura un soldato nemico, ha l’obbligo morale di mantenere integra la sua vita, se ferito, curarlo. Una precisa convenzione era in atto dal 1929 sul trattamento dei prigionieri. Questa convenzione sfortunatamente non era stata sottoscritta dalla Unione Sovietica. Peraltro, all’inizio del conflitto, l’Unione Sovietica aveva dichiarato che, pur non essendo essa fra gli Stati che riconoscevano la Convenzione del 1929, vi si sarebbe attenuta a condizione di reciprocità, ovvero che i prigionieri sovietici in mano alla Germania avessero avuto lo stesso trattamento previsto dalla Convenzione.
Folgorati dalle loro vittorie e certi di aver vinto ed abbattuto l’Unione Sovietica, i Tedeschi, in virtù anche della loro ideologia e della volontà di sterminio dei popoli slavi espressa a più riprese da Hitler, già nel 1941 si abbandonarono ad una guerra di sterminio di rapina e di sfruttamento nei confronti delle popolazioni occupate per creare i presupposti di uno stanziamento tedesco all’est lo spazio vitale, ottenuto anche sterminando le popolazioni non tedesche.

Coerentemente, i prigionieri sovietici caduti nelle mani tedesche, e nei primi mesi di guerra furono centinaia di migliaia furono considerati solo un peso, elementi da eliminare, poco sopra, nella gerarchia dello sterminio delle razze cosiddette inferiori, agli ebrei.
L’Unione Sovietica, appreso ciò, si attenne a quanto dichiarato, ovvero si sentì svincolata dalla Convenzione di Ginevra del 1929, perché non attuata la dichiarata reciprocità. Nel 1941 questa dichiarazione sovietica fu appresa con superficialità dagli esponenti tedeschi, convinti ormai di avere la vittoria in pugno. Ma la guerra all’est, di giorno in giorno sempre più crudele, divenne per i prigionieri ancora più crudele. Nel terzo anno di guerra, con la battaglia di Stalingrado che infuriava, ormai era noto che chi cadeva prigioniero in mano al nemico aveva poche possibilità di scampo. La crudeltà e le efferatezze dei combattimenti era nota fra l’altro, sul nostro fronte.
Questo si manifestò, al momento primario della cattura, ovvero al termine dei combattimenti. Era regola, dura, ma applicata sempre, che le forze motorizzate e corazzate sovietiche non facevano prigionieri. E non potevano farli: operando 30, 40 km ed anche di più dalle loro basi, non avevano ne i mezzi ne la possibilità di raggruppare e scortare all’indietro gruppi di prigionieri, anche in drappello.
Da qui la regola di fucilare tutti i sopravvissuti sani ed abbandonare al loro destino i feriti. Era una delle tante crudeltà di quella guerra crudele. Le truppe di fanteria che seguivano le truppe corazzate e motorizzate, al termine del combattimento si abbandonassero ad eccessi sui prigionieri per sfogare la loro rabbia per le perdite subite. Di episodi di questo tipo la memorialistica è piena. Di norma si fucilavano sul posto i tedeschi e non di rado gli ungheresi ed i rumeni; si salvavano solo gli italiani, il comportamento di occupazione benevolo era noto ai soldati Russi.
Una volta superato questo momento, i prigionieri dovevano passare attraverso momenti difficili: primo fra tutti la spoliazione a cui erano sottoposti dai soldati russi. Questi, sebbene equipaggiati, requisivano tutto quello che aveva un valore per alimentare il loro piccolo mercato; ed incominciavano sempre dalle calzature, dai cappotti, dalle pellicce dai maglioni, lasciando il prigioniero alle merce del clima. E questo fu per molti soldati italiani, fatale.
Poi non vi era una vera e propria organizzazione prevista per i prigionieri. La Logistica sovietica era molto rozza, spesso inesistente anche per le proprie truppe. In pratica i sovietici, concettualmente, una volta che i prigionieri erano inoffensivi, si disinteressavano di loro, affidandoli a scorte di vecchi e di ragazzi, che dovevano solo condurli, come non importa, alle stazioni ferroviarie lontane centinaia di chilometri dal fronte. Sono quelle che i reduci chiamarono “le marce del Davaj”.
Sono in queste spiegazioni le motivazioni di una mortalità in prigionia così alta. Impegnati in una lotta per la sopravvivenza, e adottando il principio che la vita non aveva valore di fronte al bene supremo della salvezza della Patria, i sovietici non pensavano minimamente di prendersi cura dei loro nemici fatti prigionieri. Da qui le disastrose conseguenze per i nostri soldati.
Se vi fosse stata la volontà di sterminare tutti i prigionieri, sarebbe stato molto facile eliminare tutti gli italiani, compresi i 10.000 che poi ritornarono.
E’ anche vero che un campo di prigionia russo, se paragonato ad un campo di prigionia inglese o italiano il paragone è nettamente sfavorevole al primo; un campo di prigionia americano è inconcepibile per la mentalità sovietica.
Sulla base di queste considerazioni occorre quindi dividere la prigionia sovietica in due parti: la prima, che possiamo definire della “cattura”, con tutti i suoi componenti; e la seconda, che fu una prigionia dura, crudele, difficile, ma che può rientrare nella norma.

La prima prigionia è eccezionale, come eccezionale era la guerra all’est. Noi italiani con essa pagammo il prezzo della ideologia che bene o male avevamo adottato, della nostra impreparazione militare e della tragicità della avventura che con qualche superficialità andammo a cercare; La seconda prigionia è normale per quanto può essere una prigionia, tanto da essere posta sul piano delle altre prigionie; ovvero non meno dura e difficile di quella tedesca, ma sicuramente meno crudele ed efferata di quella francese del 1943-1946
Non la volontà sovietica di sterminare gli italiani in quanto tali, ma le dure e crudeli circostanze della guerra all’est imposero e determinarono la cifra altissima di morti, sia prima che dopo la fine dei combattimenti.
Occorre però riflettere sul perché di questa cifra così alta di prigionieri, che poi diverranno dispersi e caduti. Perché lasciammo in mano dal 12 dicembre 1942 al 31 marzo 1943 oltre 70 mila soldati, di cui l’86% cioè 60 mila non riusciranno a spravvivere?
Una domanda che può contribuire a vedere più che nel nemico di ieri, ma in altre cause, che analizzeremo in una prossima nota, la responsabilità di una tragedia che non ha eguali nella storia del nostro Esercito.
[1] La cattura, ovvero il momento in cui un combattente depone le armi e, quindi, su di lui cessa di poter essere esercita la violenza bellica, si articola in varie fasi che abbiamo individuato: nella cessazione dei combattimenti, nella raccolta, nello sgombro nelle immediate retrovie, nel trasferimento alle stazioni di carico, nell’avvio ai campi di smistamento, nell’arrivo nei campi di prigionia.

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