FRA il maggio e l'ottobre 1942 maturarono i piani della
grande offensiva delle Nazioni Unite. L'opinione pubblica in Gran Bretagna
reclamava a gran voce un'azione energica che avvicinasse il conseguimento della
vittoria finale. I governi di Londra e di Washington tacevano, come era
necessario. E questo silenzio ingannava il governo di Berlino il quale interpretava
l'azione di Dieppe come l'esponente di tutto ciò che le Nazioni Unite potevano,
o meglio non potevano, fare. Fra gli italiani, assopiti insieme ed assordati
dalla propaganda fascista, una temporanea euforia si destava per i temporanei
successi di Rommel in Africa. Sulla entità e sulla portata di tali successi si
sbagliava Mussolini, recatosi segretamente in Libia nella speranza di
partecipare ad un ingresso trionfale nella valle del Nilo. E si sbagliava Hitler
il quale continuava tranquillamente, in Italia come nel resto d'Europa, l'opera
di asservimento economico e politico dei suoi vassalli, come se la vittoria
fosse veramente immancabile. La cecità e la disonestà del partito fascista
servivano mirabilmente ai suoi scopi, accelerando il ritmo degli atti di subordinazione
italiana all'egemonia tedesca. Ma l'innato buonsenso italiano vedeva chiaro,
più della vantata prescienza del Duce. Lo scetticismo e la passività delle
masse rendevano possibile ogni atto di malgoverno, cui non si opponeva alcuna
violenta reazione. Ma le speranze inespresse puntavano sempre più intensamente
verso le Nazioni Unite e specialmente verso Londra che continuava a prodigare,
anche con linguaggio severo, parole amiche. Sembrava che gli eventi fulminei
del novembre nel Mediterraneo balenassero già nel confuso presagio degli
italiani.
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