La presenza del porto fu l’elemento fondamentale e decisivo per la scelta dell’area di sbarco. Come noto, ogni operazione anfibia ha bisogno, prima, di avere successo con la presa di terra delle forze provenienti dal mare con la creazione della testa di ponte iniziale; poi dell’allargamento a 180 gradi della testa di ponte con la progressione verso l’interno; infine la penetrazione ulteriore ed il raggiungimento dell’obiettivo strategico. Per attuare le due ultime fasi è necessario alimentare la testa di ponte con l’afflusso di uomini, mezzi e rifornimenti. L’avversario farà ogni cosa in suo possesso, più che contrastare le forze sbarcare, cercare di impedire questo l’afflusso. Una volta contrastato e bloccato le forze sbarcate si possono prima contenere, poi circondare ed aspettare che esauriscono la propria capacità operativa e quindi sferrare l’attacco di annientamento.
La dottrina che sottende alla scelta dell’area di sbarco,
con al centro un porto per la alimentazione logistica e lo sgombero, giustifica
anche il nome che si dà all’operazione, ovvero si sceglie il nome del porto
principale per denominare l’operazione. Pertanto l’azione iniziata il 22
gennaio 1944 sul litorale laziale si suole chiamare “lo sbarco di Anzio”
proprio perché il porto di Anzio era il perno essenziale di tutta l’operazione.[1]
[1]
Cadono quindi tutte le supposizioni di come chiamare questa operazione fiorite
a più riprese nel dopoguerra, come ad esempio “sbarco di Nettuno” o altre
località. Il fervore campanilistico e localistico si ferma davanti ad una
dottrina di impiego estremamente chiara,
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