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domenica 1 novembre 2009

Spunti sulla Prigionia di Guerra al Femminile

Massimo Coltrinari


Nella recente esperienza della missione in Irak, si affacciano all’orizzonte del nostro impegno militare, oltre a tutto quello che può essere operare in un teatro fuori area Nato e su un terreno diverso da quello nazionale, due novità: l’impiego in zona d’operazioni, ancorché a fini di pace, di personale femminile e quindi possibilità che questo personale possa subire una delle conseguenze dell’impiego in un conflitto, ovvero cadere in potere dell’avversario, cioè cadere prigioniero.
Le avvisaglie di queste novità le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: personale non militare femminile sono state prigioniere per un perizio relativamente breve di “avversari”. Si fa riferimento alla vicenda delle due Serene e della giornalista Giuliana Sgrena. Da queste esperienze si ha la base per affrontare, almeno teoricamente, un argomento che spesso è ignorato e non affrontato per gli uomini, mentre per le donne non è nemmeno ipotizzato. La prigionia militare femminile è un argomento nuovo, non affrontato e soprattutto non pertinente, in “re ipsa”, come tutto quello che attiene alla prigionia di guerra stessa.
Il reclutamento del personale femminile nelle forze Armate ri recente nel nostro paese, dopo decenni di opposizione è stato accolto come una grande conquista, un raggiungimento di livelli “come altre altre nazioni all’avanguardia”, ad altre attestazioni di autoesaltazione in molti casi fuori luogo. In realtà l’Italia ha avuto sempre scarsissime risorse da destinare allo strumento militare, l’unica risorsa che ha avuto in modo largo è stato il personale: il tasso di nascita in Italia è stato sempre altro e gli “uomini” sono sono mai amcati. Il problema è sempre stato come vestirli, armarli e nutririli nelle froze armatae in modo adeguato e in relazione alle necessità operative. E in presenza di scarse risorse, vestire e mantenere un uomo costa di meno che vestire emanate un uomo e una donna. Ma mai vi è stata una carenza di “materia prima” sotto il profilo del perronale. Con i tassi di natalità da “nazione civilizzata” ovvero bassi e piatti, questa risorsa è venuta meno; in più si è scatenato un movimento di “equiata” di cui propri non si sentiva il bisogno. Quindi queste deu componeti,anche in presenza di una riduzione di personale, ha fatto si che oggi, ritenendoci nazione “civile”, per dare pari opportunità alla donna, eccoci ad avere nelle Forze Armate uomini e donne, con il relativo aggravio di costi.
Ma non è solo questo. Sotto la divisa non si fanno distinzioni un soldato è un soldato, non vi è il soldato e la “soldata”: quando la bomba cade non fa distinzioni. E si deve ragionare in teremini di soldato, sia esso di sesso maschile sia di sesso femminile. Questo occorre sempre ricordarlo a chi, donna, indossa una divisa, qualunque essa sia. Non vi sono trattamente speciali e le conseguenze, se impreparti,possono essere devastanti. Oggi,in Italia, vedendo tante giovani che si pavoneggio nelle loro uniformi, che civettano con questi aspetti militarizzanti, un richiamo a quello che c’è dietro l’angolo, il rovescio della medaglia può essere utile per evitare traumi e tragedie future.
Quindi un soldato, disesso femminile, in linea anche in missioni di pace, può cadere in potere dell’”avversario” ovvero prigioniero. E qui occorre affrontare il tema e preparsvisi.
Non vi sono precedenti nel nostro paesi di prigionia militare femminile, ne tantomeno studi e riferimenti affinché questo tema sia sviscerato come dovrebbe. Ma vi sono esperienze analoghe, di Internamento in guerra e di Internamento di pace. Tralasciando l’Internamento di pace un buon riferimento può rappresentare l’Internamento di guerra, ovvero quella compoente dell’Inetrnamento in genrmania che ha interessato, per motivi raziali, politici ed etnici un buon numero di donne. Inoltre vi è una esperienza similare alla prigionia femminile in quella delle donne entrate nella resistenza, entrate nella formazioni combattenti partigiane cadute prigioniere dei nazifascisti ed avviate nei lager in Germania.
Da queste esperienze si possono avere delle indicazioni e degli approfondimenti per il presente; nel contempo si affronta un tema della guerra di liberazione, quello dell’Internamento femminile, che tra l’oblio generale dell’Internamento in genere è il più dimenticato e il più incompreso.
In articolo per “Rassegna”, la rivista della Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia
(ANRP) ho fatto cenni all’Internamento Femminile, un internamento, quello in Germania, dopo l’8 settembre 1943 nel nostro Paese ancora incide nella nostra coscienza nazionale, anche se la percezione di questa tragedia è solo sotto l’ottica maschile. Questo si verifica sia riguardo agli oppressori ( stato hitleriano , singoli nazisti) sia riguardo alle azioni ed alle reazioni delle vittime dell’internamento.
Queste dinamiche sono state sempre presentate e studiate come se l’internamento interessasse solo gli uomini, relegando l’internamento a cui furono soggette le donne a profili marginali, quasi insignificanti, in una visione subalterna, nel substrato, forse anche inconscio, che la guerra e le sue conseguenze sono “cose da uomini”. In una proiezione abbastanza reale, questo approccio si ha per le situazioni di impiego del nostro personale femminile. Tutto è pensato in un ottica maschile, quasi che chi non è maschio non è ammesso. Ora difficile fare degli scenari in cui nostro personale femminile sia caduto prigioniero in mano “avversaria” e questa non è la rivista più indicata per affrondire questi argomenti. Andiamo quindi in parafrasi su quanto scritto per l’ANRP e vediamo a che cosa sono andati incontro le donne, quelle che sono entrate nelle formazioni combattenti, per avere un punto di riferimento e avere quindi degli orientamenti. Nel contempo, come detto, portiamo all’attenzione un apsetto della nostra storia caduto nell’oblio

Nello stato nazista, si scriveva nella’articilo della ANRP, la concezione ideologia era stata approntata primariamente e forse esclusivamente da uomini, facendo appello alla durezza, alla spietatezza, alla mortificazione e negazione di tutto quello che poteva anche apparire dolce, tenero e comprensivo. L’ideologia nazista quindi portava una profonda avversione per il sesso femminile, dividendo le donne in due parti: quelle appartenente ad una categoria superiore, e perciò in chiave di purezza della razza, di “alto valore riproduttivo” e quelle di categoria inferiore, a cui assegnavano in quanto tali, un “valore riproduttivo nullo”, ricorrendo in modo sistematico alla sterilizzazione, all’aborto, e poi anche alla loro soppressione.
Appartenenti alla seconda categoria, coloro che erano internate, per motivi politici, religiosi, etnici ecc., in un lager avevano già contro tutto un apparato ideologico, a prescindere se ebrea, resistente, oppositrice, o ogni altra categoria, che infieriva contro la sua identità femminile.

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