Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

Translate

Cerca nel blog

mercoledì 11 novembre 2009

Quando l’Accademia Navale fu veramente grande
Dino Sesani

A Livorno, all’interno dell’Accademia Navale una lapide di marmo reca incise queste parole:
“per eventi di guerra e nel triennio agosto 1943 - giugno1946 l’Accademia Navale in continuità operosa trasmigrata a Venezia prima a Brindisi dopo, qui a Livorno risorgendo da rovine appena rimosse nell’estate del 1946 tenacemente affermava volontà e attività ricostruttrici esempio nel presente auspicio per l’avvenire della Patria”.
A Livorno i bombardamenti che ne avevano colpito e in parte distrutto gli edifici non consentivano un regolare svolgimento delle attività dell’ Istituto, e così l’Accademia Navale si era trasferita all’Hotel Excelsior, al Lido di Venezia, utilizzando anche gli splendidi locali del Casinò.
Fra la fine di luglio ed i primi di agosto arrivarono, in questa bizzarra sede, gli allievi destinati a diventare il Corso che di lì a qualche mese si sarebbe chiamato “Vedette” mentre gli “Argonauti” – gli anziani – erano in Alto Adriatico, imbarcati sulla Divisione Navi Scuola, costituita da Vespucci e Colombo. Gli anzianissimi – Le Raffiche – erano parcheggiati a Colle Isarco, in provincia di Bolzano, da dove raggiunsero Venezia poco prima della fine di agosto. I Corsi di complemento erano stati sistemati a Brioni, non lontano da Pola.
L’Excelsior era ed è, uno splendido luogo dove trascorrere romantiche vacanze, ma come Accademia Navale, aveva un sacco di inconvenienti. Molti allievi dell’epoca ricordano ancora con terrore la mostruosa quantità di scale che dovevano salire e scendere sempre di corsa più volte al giorno dal quarto piano dell’Hotel dove avevano il loro alloggio al quarto piano del Casino dove erano le aule.
Venne l’8 settembre e il Comando dell’Accademia decise, nel giro di poche ore, di imbarcare allievi, insegnanti, istruttori, famigli, marinai e tutto quanto poteva essere rapidamente trasportato, a bordo del Saturnia, noto transatlantico superstite della flotta mercantile italiana appena uscito dal bacino di carenaggio, in porto a Venezia, mentre il gemello Vulcania salpava, diretto a Brioni, per prelevare gli Allievi dei Corsi di Complemento: missione purtroppo, drammaticamente fallita con la cattura da parte dei Tedeschi dei 739 giovani ed il loro internamento in un campo di prigionia.
Essi rifiutarono tutti di collaborare con i nazisti ed i repubblichini. Per questo loro atteggiamento pagarono un altissimo prezzo in termini di vite umane, di stenti e di malattie che ne hanno segnato successivamente l’esistenza.
L’imbarco e la partenza da Venezia ebbero aspetti da “esodo biblico controllato” che varrebbe la pena di raccontare, ma è abbastanza indicativa anche la pura e semplice sequenza degli eventi.
8 settembre 1943 : si va a scuola e si svolgono le esercitazioni programmate. Poco prima delle 20 si sparge la notizia dell’armistizio;
9 settembre : a metà pomeriggio siamo tutti a bordo del Saturnia, che salpa verso le 20, a luci oscurate. Fuori del porto ci sono due motosiluranti tedesche in grado di farci la festa e così rientriamo a Venezia.
10 settembre: si salpa intorno alle 14 si dirige verso sud, zigzagando, incontro ad una limpida notte di luna piena, che mette sgradevolmente in risalto l’imponente sagoma della nave . Tutti gli Allievi passano la notte in coperta, indossando il salvagente.
11 settembre: verso le 15 siamo all’altezza di Brindisi ed emerge vicino a noi un sommergibile che alza bandiera polacca. Ci fermiamo : uno dei nostri Ufficiali va a bordo del sommergibile e rientra poco dopo. Rimettiamo in moto e, dopo alcune ore, siamo incagliati sotto costa, poco a sud di Brindisi.
12 settembre: si sbarca dal Saturnia su alcuni rimorchiatori che, nella solita atmosfera di esodo biblico controllato, ci portano al Collegio Navale di Brindisi.
Nel frattempo a due miglia circa dall’imboccatura del porto di Venezia , le motosiluranti tedesche attaccano e affondano dopo un furioso combattimento, il cacciatorpediniere “Quintino Sella” provocando la morte di oltre un centinaio di marinai.
A Brindisi non ci sono né Alleati né Tedeschi. Ci sono il Re, la Regina, il Principe Ereditario che sono alloggiati all’Ammiragliato. A loro gli Allievi forniscono un servizio di guardia armata e sicurezza. In serata il Ministro della Marina, Ammiraglio De Courten, visita l’Accademia e parla agli Allievi.
13 – 14 settembre: sono i giorni del “facchinaggio”. Tutti concorrono al trasferimento al Collegio Navale del materiale salvato da Venezia.
Il 14 arrivano a Brindisi il Vespucci ed il Colombo con a bordo il secondo corso , dopo una drammatica rischiosissima navigazione attraverso l’Adriatico.
15 settembre: alle 8,30 “colpo” (il segnale di tromba per l’inizio o la fine delle lezioni) . Si torna a scuola nelle aule del Collegio e gli insegnanti sono in grado di esordire affermando: “Come si diceva la settimana scorsa a Venezia…”
Incomincia così la vera trasferta dell’Accademia Navale che durerà fino al giugno del 1946.
Nei giorni e mesi che seguirono successe di tutto, sia pure con un trend abbastanza rapido verso una relativa normalizzazione, peraltro sempre lontanissima dagli standard livornesi.
Nei primissimi giorni mancava l’acqua potabile e si facevano lunghe file per averne un bicchiere. In mancanza d’altro veniva distribuita una scatoletta di carne e si sperimentò quanto fosse difficile utilizzarla senza un apriscatole, ma solo con l’aiuto della baionetta.
Gli Allievi, per tutta la durata della guerra di liberazione, su pressante loro richiesta, accolta senza difficoltà dal Comando, imbarcavano a turno sul naviglio di superficie impegnato in missioni di guerra per la scorta ai convogli alleati, nei sommergibili e sulle motosiluranti che operavano sbarchi di sabotatori ed informatori nelle zone occupate dai tedeschi.
Quattro di essi del terzo corso, Miele, Del Soldato, Maritati e Rossini non sono più tornati.
In questo contesto così lontano dal consueto, ciò che non subì la minima variazione, il più piccolo cedimento; ciò che, come si dice, “non fece una piega” furono le regole della vita d’Accademia.
Quel “colpo di tromba” del 15 settembre del 1943, ripristinò stabilmente tutte le norme in vigore. L’orario, la ginnastica mattinale, il rapporto , l’assemblea, le punizioni, lo studio, gli esercizi militari, il compito di nautica del sabato pomeriggio. Ma, soprattutto, la disciplina, il rispetto reciproco, la lealtà come requisito primario, il dovere dell’impegno: in una parola tutto il patrimonio educativo e formativo di sempre.
Grande davvero questa Accademia Navale in trasferta: alle prese con decisioni ad altissimo rischio, con responsabilità enormi e problemi assolutamente nuovi come, ad esempio, quello di assistere molti che avevano rinunciato ad andare avanti o non avevano superato gli esami, ma non potevano rientrare nelle loro famiglie, al di là del fronte.
Un’Accademia forte soltanto della sua tradizione e della qualità e dedizione degli uomini che la incarnavano in quei giorni difficili.
Essi vanno ricordati tutti con un rispetto ed una gratitudine che sono diventati più forti e motivati col passare del tempo.; l’Ammiraglio Comandante che decise, in poche ore, di trasferirci, assumendosi le responsabilità delle nostre vite e naturalmente, anche tutti gli altri, nei loro diversi ruoli: gli Ufficiali, i Sottufficiali, gli Insegnanti, i famigli.
Non vi fu in alcuno di loro e di noi allievi nessuna esitazione, alcun ripensamento circa il dovere da compiere, vale a dire l’obbedienza all’ordine impartito alla Marina di raggiungere con qualsiasi mezzo il territorio occupato dagli Alleati, reagendo con la forza, laddove i mezzi a disposizione lo consentissero, ad ogni attacco, da qualsiasi provenienza.
Di quel periodo sono anche da ricordare le particolari condizioni psicologiche in cui vivevano tutti, almeno fino al 1945: la gran parte non aveva notizie della famiglia, mentre aveva quotidiane notizie dei bombardamenti che colpivano le nostre città un po’ dappertutto.
Il mondo, al di fuori della miracolosa cittadella dell’Accademia, era contraddittorio, violento, totalmente diverso dagli schemi secondo cui eravamo cresciuti.
Non si possono chiudere queste note senza ricordare il contributo di sangue dei nostri compagni di corso, arruolatisi volontari nei reparti del 1° raggruppamento motorizzato dell’Esercito, che ebbero il battesimo del fuoco a Montelungo l’8 Dicembre 1943 sul fronte tenuto dalla 5° Armata americana.
Cinque di essi caddero combattendo e riposano ora nel sacrario di Montelungo: Giovanni Battista Bornaghi, Roberto Morelli, Dario Sibilia, Ludovico Luraschi.
A loro va il nostro commosso ricordo.

Dino Sesani del Corso Vedette


Questo scritto è la sintesi di un articolo pubblicato dalla Rivista “Marinai d’Italia” qualche tempo fa redatto e firmato dall’Ammiraglio Giorgio Porciani recentemente scomparso.

domenica 1 novembre 2009

Spunti sulla Prigionia di Guerra al Femminile

Massimo Coltrinari


Nella recente esperienza della missione in Irak, si affacciano all’orizzonte del nostro impegno militare, oltre a tutto quello che può essere operare in un teatro fuori area Nato e su un terreno diverso da quello nazionale, due novità: l’impiego in zona d’operazioni, ancorché a fini di pace, di personale femminile e quindi possibilità che questo personale possa subire una delle conseguenze dell’impiego in un conflitto, ovvero cadere in potere dell’avversario, cioè cadere prigioniero.
Le avvisaglie di queste novità le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: personale non militare femminile sono state prigioniere per un perizio relativamente breve di “avversari”. Si fa riferimento alla vicenda delle due Serene e della giornalista Giuliana Sgrena. Da queste esperienze si ha la base per affrontare, almeno teoricamente, un argomento che spesso è ignorato e non affrontato per gli uomini, mentre per le donne non è nemmeno ipotizzato. La prigionia militare femminile è un argomento nuovo, non affrontato e soprattutto non pertinente, in “re ipsa”, come tutto quello che attiene alla prigionia di guerra stessa.
Il reclutamento del personale femminile nelle forze Armate ri recente nel nostro paese, dopo decenni di opposizione è stato accolto come una grande conquista, un raggiungimento di livelli “come altre altre nazioni all’avanguardia”, ad altre attestazioni di autoesaltazione in molti casi fuori luogo. In realtà l’Italia ha avuto sempre scarsissime risorse da destinare allo strumento militare, l’unica risorsa che ha avuto in modo largo è stato il personale: il tasso di nascita in Italia è stato sempre altro e gli “uomini” sono sono mai amcati. Il problema è sempre stato come vestirli, armarli e nutririli nelle froze armatae in modo adeguato e in relazione alle necessità operative. E in presenza di scarse risorse, vestire e mantenere un uomo costa di meno che vestire emanate un uomo e una donna. Ma mai vi è stata una carenza di “materia prima” sotto il profilo del perronale. Con i tassi di natalità da “nazione civilizzata” ovvero bassi e piatti, questa risorsa è venuta meno; in più si è scatenato un movimento di “equiata” di cui propri non si sentiva il bisogno. Quindi queste deu componeti,anche in presenza di una riduzione di personale, ha fatto si che oggi, ritenendoci nazione “civile”, per dare pari opportunità alla donna, eccoci ad avere nelle Forze Armate uomini e donne, con il relativo aggravio di costi.
Ma non è solo questo. Sotto la divisa non si fanno distinzioni un soldato è un soldato, non vi è il soldato e la “soldata”: quando la bomba cade non fa distinzioni. E si deve ragionare in teremini di soldato, sia esso di sesso maschile sia di sesso femminile. Questo occorre sempre ricordarlo a chi, donna, indossa una divisa, qualunque essa sia. Non vi sono trattamente speciali e le conseguenze, se impreparti,possono essere devastanti. Oggi,in Italia, vedendo tante giovani che si pavoneggio nelle loro uniformi, che civettano con questi aspetti militarizzanti, un richiamo a quello che c’è dietro l’angolo, il rovescio della medaglia può essere utile per evitare traumi e tragedie future.
Quindi un soldato, disesso femminile, in linea anche in missioni di pace, può cadere in potere dell’”avversario” ovvero prigioniero. E qui occorre affrontare il tema e preparsvisi.
Non vi sono precedenti nel nostro paesi di prigionia militare femminile, ne tantomeno studi e riferimenti affinché questo tema sia sviscerato come dovrebbe. Ma vi sono esperienze analoghe, di Internamento in guerra e di Internamento di pace. Tralasciando l’Internamento di pace un buon riferimento può rappresentare l’Internamento di guerra, ovvero quella compoente dell’Inetrnamento in genrmania che ha interessato, per motivi raziali, politici ed etnici un buon numero di donne. Inoltre vi è una esperienza similare alla prigionia femminile in quella delle donne entrate nella resistenza, entrate nella formazioni combattenti partigiane cadute prigioniere dei nazifascisti ed avviate nei lager in Germania.
Da queste esperienze si possono avere delle indicazioni e degli approfondimenti per il presente; nel contempo si affronta un tema della guerra di liberazione, quello dell’Internamento femminile, che tra l’oblio generale dell’Internamento in genere è il più dimenticato e il più incompreso.
In articolo per “Rassegna”, la rivista della Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia
(ANRP) ho fatto cenni all’Internamento Femminile, un internamento, quello in Germania, dopo l’8 settembre 1943 nel nostro Paese ancora incide nella nostra coscienza nazionale, anche se la percezione di questa tragedia è solo sotto l’ottica maschile. Questo si verifica sia riguardo agli oppressori ( stato hitleriano , singoli nazisti) sia riguardo alle azioni ed alle reazioni delle vittime dell’internamento.
Queste dinamiche sono state sempre presentate e studiate come se l’internamento interessasse solo gli uomini, relegando l’internamento a cui furono soggette le donne a profili marginali, quasi insignificanti, in una visione subalterna, nel substrato, forse anche inconscio, che la guerra e le sue conseguenze sono “cose da uomini”. In una proiezione abbastanza reale, questo approccio si ha per le situazioni di impiego del nostro personale femminile. Tutto è pensato in un ottica maschile, quasi che chi non è maschio non è ammesso. Ora difficile fare degli scenari in cui nostro personale femminile sia caduto prigioniero in mano “avversaria” e questa non è la rivista più indicata per affrondire questi argomenti. Andiamo quindi in parafrasi su quanto scritto per l’ANRP e vediamo a che cosa sono andati incontro le donne, quelle che sono entrate nelle formazioni combattenti, per avere un punto di riferimento e avere quindi degli orientamenti. Nel contempo, come detto, portiamo all’attenzione un apsetto della nostra storia caduto nell’oblio

Nello stato nazista, si scriveva nella’articilo della ANRP, la concezione ideologia era stata approntata primariamente e forse esclusivamente da uomini, facendo appello alla durezza, alla spietatezza, alla mortificazione e negazione di tutto quello che poteva anche apparire dolce, tenero e comprensivo. L’ideologia nazista quindi portava una profonda avversione per il sesso femminile, dividendo le donne in due parti: quelle appartenente ad una categoria superiore, e perciò in chiave di purezza della razza, di “alto valore riproduttivo” e quelle di categoria inferiore, a cui assegnavano in quanto tali, un “valore riproduttivo nullo”, ricorrendo in modo sistematico alla sterilizzazione, all’aborto, e poi anche alla loro soppressione.
Appartenenti alla seconda categoria, coloro che erano internate, per motivi politici, religiosi, etnici ecc., in un lager avevano già contro tutto un apparato ideologico, a prescindere se ebrea, resistente, oppositrice, o ogni altra categoria, che infieriva contro la sua identità femminile.