Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

Translate

Cerca nel blog

lunedì 21 marzo 2011

“Non si parte!”
Il movimento di renitenza alla leva nel Regno del Sud

Gioconda Bartolotta

Il 23 novembre 1944 viene pubblicato sui quotidiani l’annuncio del bando di “Presentazione alle armi “ per i giovani delle classi dal 1914 al primo scaglione di quella del 1924, rispondente all’esigenza di completare l’organico delle forze impegnate sul campo e che avrebbe dovuto trovare realizzazione a cominciare dal Lazio e dalla Campania per concludersi in Sicilia. Si trattava in sostanza di continuare nell’azione di ricostituzione dell’esercito, intrapresa dal governo subito dopo il trasferimento a Brindisi, che si era resa necessaria in seguito allo sbandamento dei soldati dopo l’annuncio dell’armistizio .

In Sicilia, però, la reazione al provvedimento in questione non si fece attendere e, sui muri di ogni centro dell’isola, presero a comparire scritte di aperta disapprovazione per lo stesso, cui presto si accompagnò la diffusione di manifesti che sollecitavano a non rispondere al richiamo e nei quali si sottolineava il bisogno, che la Sicilia stessa aveva, di giovani di cui servirsi per ricostruire quanto era andato distrutto e per rifondare su valori nuovi e diversi lo spirito della sua popolazione martoriata dal recente conflitto. Era dunque impensabile, in una situazione del genere, che questi accettassero di buon grado di andare in guerra.

Alla necessità dello Stato di tenere fede agli impegni contratti con gli Alleati, con la quale pure si voleva giustificare il richiamo alle armi, si rispondeva che comunque la nostra era una nazione vinta e che quegli stessi Alleati che ci avrebbero potuto aiutare a ricostruirla “(...) non possono dimenticare - e a ragione - che fra loro e noi c’è un taglio più forte di loro stessi (...) aperto col sangue dei caduti loro in tre anni di guerra“ . Considerazione amara e polemica dalla quale pare trasparire una non totale fiducia a proposito del reale atteggiamento che gli Alleati potevano adottare nei nostri confronti.

Di diverso tono il contenuto di un volantino, ritrovato vicino Palermo, diffuso da un gruppo di studenti, nel quale si sottolineava che le condizioni poste con l’armistizio dell’8 settembre erano così indegne per il fiero popolo italiano che questo non avrebbe dovuto legittimarle presentandosi alle armi, essendo unica condizione valida per tornare a combattere che l’Italia venisse riconosciuta come un vero e proprio paese alleato .

Un manifesto rinvenuto ad Agrigento poneva l’accento sul fatto che l’Italia - come già era stato annunciato - avrebbe dovuto subire forti perdite territoriali, una volta terminata la guerra, e questa era una prospettiva che - al pari di tante altre - non poteva certa essere considerata come favorevole, ai fini della presentazione alle armi .

Molto forte l’attacco contenuto in un altro manifesto ritrovato, anche questo, a Palermo: “ (...) l’infame nemico di ieri e di sempre ricco di dollari e di sterline ha bisogno di carne da cannone per risparmiare i suoi preziosi soldati. Al solito i vilissimi nostrani che hanno impedito ai valorosi soldati italiani di conquistare la vittoria, vorrebbero mandare a morire per la grandezza dell’America e della Inghilterra la nostra gioventù (...)“.

La matrice politica di quest’appello è più immediatamente individuabile che nei precedenti, leggendosi ad un certo punto “ (...) I fratelli del Nord si accingono a venire a liberarvi. E’ questione di qualche mese e sarà la vera liberazione (...)“ . Nel considerare quanto accadde tra il 1944 ed il 1945 in Sicilia non si può infatti sorvolare sul ruolo svolto in proposito dai fascisti che, nel malcontento popolare, speravano di trovare terreno fertile per il progetto di una loro riorganizzazione, ora che il duce, libero e a capo della RSI sostenuta dai tedeschi, aveva ripreso fiato ed annunciava potersi ancora, sul fronte bellico, “ristabilire in un primo tempo l’equilibrio e successivamente la ripresa delle iniziative in mano germanica“ , il che avrebbe dovuto avere conseguenze facilmente intuibili sulle sorti politiche italiane .

Per diverso tempo, la contestazione mantenne un carattere non violento ma, in seguito, degenerò in atti che di pacifico avevano ben poco. Così il 14 dicembre la popolazione insorge a Catania, in risposta all’uccisione di un giovane dimostrante, colpito dal fuoco dei militari .

Il “ Tempo “ del 15 dicembre 1944 titola: “Manifestazioni di studenti contro il richiamo alle armi - Molti edifici pubblici tra i quali il Municipio, il Tribunale , e l’Ufficio Leva incendiati “.

L’insurrezione continua fino al giorno successivo, quando esercito e polizia riassumono finalmente il controllo della situazione.

Diversi quotidiani si occuparono di tale episodio sia ricostruendone la dinamica che commentandolo nel merito, seguendo, nel far ciò, una linea comune, ponendo cioè l’accento su quanto importante fosse in quel momento “la ricostruzione del paese “cui bisognava che tutti contribuissero senza lasciarsi andare a gesti istintivi ed incontrollati .

In relazione ai fatti accaduti, il 15 dicembre era intervenuto anche il C.L.N. della provincia che, nell’esprimere tutto il suo sdegno per quanto avvenuto, poneva l’accento sull’operato “(...) degli elementi separatisti in combutta con gli affini superstiti del fascismo (...)” la cui azione era certo tesa a “(...) creare imbarazzi e difficoltà ai movimenti politici ansiosi di lavorare per la ricostruzione materiale e morale del paese (...)“. Si invitava pertanto la popolazione a mantenersi estranea a tali indegni propositi .

Il punto sui disordini cittadini viene fatto anche in un articolo de “L’Unità” – sempre del 15 dicembre – in un trafiletto del quale si riporta un comunicato diramato dall’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio che “(…) deplora il tentativo di sabotare la guerra liberatrice, tanto più esecrabile ove si consideri che nel resto d’Italia l’arruolamento procede regolarmente e che nelle regioni ancora occupate i patrioti offrono spontaneamente il loro contributo di sangue e di martirio nell’impari lotta contro il nemico (…)” e che si conclude con un appello alla “(…) generosa popolazione siciliana perché, raccolta nelle sue organizzazioni politiche e sindacali, collabori con le pubbliche autorità per mantenere nell’isola le nobili tradizioni di solidarietà nazionale (…)” .

Nello stesso periodo violenti scontri si ebbero anche in altre zone dell’isola, nonostante l’Alto Commissario per la Sicilia - nel tentativo di prevenire ulteriori disordini - avesse disposto il divieto di riunione e di assembramento nei luoghi pubblici e presto la rivolta popolare si estese a ben cinque province dell’isola.

Uno dei luoghi più “caldi” fu certamente Ragusa, dove, dopo l’arrivo delle prime cartoline di richiamo, la popolazione venne chiamata ad una riunione e si procedette ad istituire un comitato che elaborasse un piano di azione. Tra i motivi che spingevano i richiamati ragusani a non presentarsi alle armi era di non poco conto il fatto che molti di loro avevano in precedenza militato nelle fila degli armati della RSI - anzi Ragusa, per la resistenza opposta al governo, sembra essersi meritata la medaglia d’oro della Repubblica di Salò - e pertanto, ora, ritenevano di non poter rispondere ad una “(...) assurda e mostruosa chiamata, che doveva schierarli contro quegli stessi uomini con i quali avevano condiviso le ansie, le trepidazioni, i dolori e le sofferenze di una guerra che assieme avevano voluto e combattuto (...)”. Anche in questo caso l’esito era scontato, grazie all’intervento repentino ed efficace delle forze di polizia. La città fu riconsegnata all’ordine e si avviò subito il rastrellamento dei quartieri nei quali aveva avuto origine la sommossa, tra cui quello divenuto famoso de “I mastri dei carretti” che era stato “(...) il primo a sentire il grido dei Non si parte (...)” . L’operazione si concluse con l’arresto di molti dei protagonisti dei moti e con il loro invio al confino nell’isola di Ustica, che poterono abbandonare solo nel luglio 1946 in seguito all’amnistia disposta dalla Repubblica .

A dicembre anche Palermo insorge. La sommossa palermitana aveva, però, avuto un drammatico precedente nella strage del 19 ottobre 1944, quando i soldati – pure in seguito ad una aggressione di cui vennero fatti oggetto – spararono sulla folla che manifestava contro il carovita in contemporanea con lo sciopero degli impiegati comunali. Due mesi dopo, il 15 dicembre 1944, studenti universitari manifestarono contro il richiamo alle armi, contestazione che venne subito negativamente giudicata e dal C.L.N. e dalla locale sezione del Movimento Giovanile Comunista .

A leggere però il numero del “ Popolo “ del giorno successivo sembra che la sommossa di Palermo - anch’essa inevitabilmente degenerata in fatti di sangue - si sia distinta da quella di Catania per aver avuto, quest’ultima, un carattere più politico - la reazione contraria ai richiami, appunto- che non la prima, per lo scoppio della quale decisiva sarebbe stata “(...) la fame, dovuta al prezzo governativo del pane (...)” .

Lo stesso articolista afferma inoltre che di una tale situazione avrebbero approfittato tanto i fascisti quanto i separatisti, per favorire i loro reciproci e, in certi casi, convergenti interessi, sobillando la pubblica opinione e spronando il popolo alla rivolta.



Il ruolo del separatismo



Tra i separatisti c’erano delle componenti il cui primario intento era quello di non consentire lo sviluppo ulteriore dei partiti impegnati nella guerra che si facevano portatori di istanze popolari e che così grande consenso erano già riusciti a conseguire tra le masse.

Nel movimento separatista – che sembra, però, fosse riuscito a trovare sostenitori anche fra gli studenti, “(…) per un malinteso spirito di orgoglio regionale” - militavano infatti per lo più elementi della grande borghesia agraria, la cui preoccupazione principale era la difesa del diritto di proprietà il che, evidentemente, li rendeva “nemici naturali“ del partito comunista che tanta parte ricopriva nella guerra di liberazione - e che in Sicilia era il più grande partito di massa - lasciando così supporre che , una volta che il governo dell’Italia liberata fosse riuscito ad estendere la sua giurisdizione sul resto del paese, questo si sarebbe visto riconosciuto il contributo a ciò fornito con “ricompense “ di natura politica .

Col nuovo Alto Commissario per la Sicilia, Aldisio - che sostituiva l’ex Prefetto di Palermo, Francesco Musotto, che della stessa carica era stato in precedenza investito su decisione degli Alleati e che si distingueva dal primo per le sue simpatie socialiste - era giunta al potere la Democrazia Cristiana il che si ritenne potesse aprire delle strade ad un’azione anticomunista svolta, come dice La Morsa, “dall’interno attraverso azioni più o meno indirette“ . In tal modo, offrendo ai grandi proprietari una garanzia al mantenimento del proprio status economico - il che aveva una valenza politica rilevantissima, dato chepermetteva di incanalare e di controllare le tendenze eversive che questi, con la loro presenza nel movimento separatista, sembravano sostenere - si rendeva possibile adottare, ora, nei confronti del separatismo una politica di opposizione più decisa e severa rispetto a quanto non si fosse potuto fare con Musotto il quale - per ovvie ragioni politiche - non poteva che mostrarsi disponibile ad una azione cauta e di compromesso . Sul tema del separatismo interviene in quei giorni la “Voce Repubblicana“ che nel precisare come “(...) il nome stesso del movimento separatista è un errore, tanto più grave perchè per molti è un equivoco (...)“, ridimensiona - o almeno tenta di farlo - il carattere di estremismo per cui il movimento si era distinto.

L’autore dell’articolo in proposito sostiene che il sentimento diffuso nell’isola è quello repubblicano, non volendo più la Sicilia sentire parlare di Savoia e di monarchia, chè le ricordano una gestione accentratrice e “coloniale “, un regime ed una guerra che le ha portato solo lutti.

Era da questa istituzione, deludente e poco responsabile, che ci si doveva allontanare e non dall’Italia.

E’ certo, comunque, che il Governo dell’Italia liberata prese atto dell’insofferenza che cresceva nell’isola a riguardo e dell’esigenza, che andava facendosi sempre più sentita, di affidarne l’amministrazione non più ad autorità a tale scopo inviate in Sicilia in rappresentanza dello Stato centrale ma a personale del luogo che, della propria terra, conoscesse tutte le ricchezze, i problemi e le potenzialità . Per quanto riguarda nello specifico il movimento separatista propriamente inteso, è certo che i suoi membri agirono da protagonisti nelle vicende successive al richiamo alle armi, addirittura traendo dalle sollevazioni popolari tanto di quel vigore che si impegnarono nella loro causa fino ad arrivare al punto di poter da lì a poco - queste le voci che circolavano - giungere a proclamare l’indipendenza dell’isola .



Le repubbliche del 1944 – 45. La Repubblica di Comiso



Così a Comiso, dove sembrava che i tempi fossero ormai maturi perchè si potesse realizzare il progetto - preparato già da tempo - dell’on. La Rosa che aveva cercato e trovato l’appoggio dei separatisti del luogo per far partire, non appena ci fosse stato il richiamo alle armi, una rivolta che si sarebbe poi dovuta estendere al resto della Sicilia.

E così nel dicembre del 1944, gli studenti del paese, ricevuta la cartolina di richiamo, iniziarono una protesta nella quale subito coinvolsero il resto della popolazione che prese a guardare ad essi come a dei “benemeriti “.

Vennero organizzati comizi e dimostrazioni in cui i giovani intervenivano facendosi portatori del sentimento di delusione che tanti aveva assalito al momento dell’annuncio, da parte del Governo, del cambiamento di fronte. Ed ora finalmente, anche per quanti ritenevano che i morti amaramente pianti, la fame e gli stenti giustificassero la protesta molto più di qualunque scelta politica - per quanto non condivisibile essa fosse - era arrivato il tempo di ergersi contro chi a quelle durissime condizioni di vita li voleva ulteriormente costringere, piuttosto che agire concretamente per porvi rimedio.

Fu anzi addirittura necessario che gli studenti, ritenendo che non fosse ancora il momento giusto, placassero gli animi di tutti quelli che, esasperati, avrebbero voluto subito ricorrere alla forza.

Niente fu lasciato al caso. Si procedette a rifornire gli uomini di tutte le armi, di ogni specie, che fu possibile rastrellare, “(...) la città fu divisa in zone e gli uomini inquadrati nelle squadre cittadine che dovevano controllare tutta l’attività e costituire l’esercito permanente della Repubblica di Comiso (...)“ .

Venne istituito un “ Comitato del Popolo” che dichiarò decaduta l’autorità dello Stato e costituita, di contro, la Repubblica di Comiso alla quale sembra che Mussolini avrebbe conferito la medaglia d’argento della RSI .

Per diversi giorni i comisani riuscirono a respingere tutti i tentativi fatti dai militari di riconquistare le loro posizioni e ripristinare l’ordine pubblico nel paese. Tutto questo sarebbe costato ai ribelli morti e feriti ma ciò non li fece desistere dall’intento di impedire il rientro ai “(...) soldati di un Governo che aveva prostituito il Paese allo Straniero (...)“ tanto più che si sperava, sempre stando alla ricostruzione fornita da Cilia, in un repentino intervento delle forze del Nord .

Arrivò tuttavia il momento della resa. La prospettiva di vedere il paese raso al suolo, come era stato minacciato, costrinse i comisani a considerare più oculatamente il da farsi. Venne costituito pertanto un comitato parlamentare che avrebbe dovuto “(...) trattare un armistizio dignitoso e giusto (...)“. Non fu tuttavia possibile realizzare tale proposito ponendo la controparte, come unica condizione alla rinuncia a rappresaglia nei confronti della popolazione, l’accettazione della resa incondizionata.

Nel pomeriggio del 10 gennaio le forze governative rientrarono a Comiso , senza peraltro che agli abitanti venisse risparmiata - come pure era stato promesso - una violenta persecuzione che portò in carcere la gran parte di quanti avevano partecipato ai moti e costrinse molti giovani a presentarsi alle armi .



La Repubblica Popolare di Piana degli Albanesi



Anche a Piana degli Albanesi, il 31 dicembre del 1944, era stata proclamata la “Repubblica Popolare” ad opera di Giacomino Petrotta che, nella neo-proclamata repubblica, si avvalse anche dell’ accondiscendenza del Sindaco - che conservò la sua carica perchè favorevole al nuovo assetto istituzionale che era venuto configurandosi - per il compimento di alcuni atti di chiara ingerenza nella pubblica amministrazione e che si sostanziarono, ad esempio, nell’impedire oltre l’espletamento delle proprie funzioni a quanti non erano graditi specie per la loro precedente militanza fascista.

Tutto ciò fino alla fine di febbraio del 1945 quando, con l’arrivo in forza dei militari, l’ordine pubblico venne ristabilito e la repubblica soppressa . Pure, in quei cinquanta giorni l’esperienza repubblicana venne compiutamente realizzata perchè “(…) le masse sono armate, il medio ceto è legato più o meno di propria volontà agli obiettivi egemonici del popolo, perché è impedita la leva militare e resa realmente obbligatoria per gli agrari la consegna del grano ai magazzini popolari a favore delle masse più povere ed affamate (…)” .



Le conseguenze della mancata risposta al richiamo e i problemi posti nel caso di presentazione alle armi.



Questa dunque la situazione in Sicilia, fra il 1944 ed il 1945.

Ma l’ondata di contestazione al provvedimento di richiamo investì tutte le zone della penisola che da esso furono interessate e, di ciò, dovettero prendere atto le autorità competenti investite del compito di presiedere alla presentazione alle armi.

Nei rapporti inviati dalle Regie Prefetture al governo si documenta con precisione questo stato di cose sottolineando anche che la mancata risposta all’appello ben si comprendeva, ”(...) essendo facilmente intuibili gli ulteriori sacrifici cui andrebbe incontro il popolo con una più larga partecipazione alla guerra, mentre assai deboli sono le illusioni di effettivi benefici, basate solo su promesse rimaste aleatorie, non essendo ancora stato assunto dagli Alleati nessun preciso impegno al riguardo (...)” . E’ da sottolineare inoltre che la resistenza opposta al richiamo alle armi poteva finire coll’arrecare un danno all’immagine dell’Italia, già duramente penalizzata nella partecipazione alle operazioni di guerra, “(…) nella considerazione degli Alleati” .

La mancata affluenza di grandissima parte dei richiamati rappresentava, tuttavia, un enorme perdita , in termini di potenziale, per l’esercito tanto che il Ministero della Guerra si vide costretto, ai primi di gennaio del 1945, a ripresentare il bando, stabilire nuovi termini per la presentazione e promettere che non si sarebbe dato corso ad alcun procedimento penale per quanti non avevano ancora risposto al richiamo purchè, ovviamente, decidessero di farlo allora .

La nuova chiamata del gennaio 1945 riguardò anche il secondo scaglione della classe 1924 ed il primo di quella 1925 - ultima classe utile per la leva- nel tentativo di rimediare alla scarsa affluenza in precedenza registrata.

Ma ancora una volta non si ottennero i risultati sperati tanto che, nel febbraio dello stesso anno, un generale dello Stato Maggiore auspicava, per porre finalmente riparo a questa situazione, il ricorso a soluzioni drastiche che avrebbero dovuto colpire direttamente la massa dei richiamati distogliendoli dal proposito, eventualmente maturato, di opporre resistenza al provvedimento prospettando loro, come conseguenze di tale malaugurata decisione, la cancellazione dalle liste politiche o l’eliminazione dagli studi.

C’erano però anche problemi di altro genere da affrontare, che riguardavano quanti, invece, ai bandi di richiamo decidevano di rispondere, presentandosi così ai distretti.

Da alcuni telegrammi, inviati nel febbraio 1945 alle autorità competenti dall’Alto Commissario Aldisio, si desume che il trattamento ad essi riservato nei campi di raccolta non era certo tale da confermarli nella scelta fatta né, tantomeno, tale da poter incentivare altri richiamati a partire, in tal modo ponendo, evidentemente, nel nulla gli sforzi operati dalle autorità civili e militari in questa direzione.

Così, ad esempio, il 27 gennaio 1945 “(...) disertarono dal campo affluenza Afragola - nel quale i volontari si trovavano in pessime condizioni: il campo era allagato e loro non erano neanche stati forniti dei necessari “indumenti militari”- circa mille richiamati siciliani su milleduecento colà affluiti dal 15 gennaio detto (...)” .

Era naturale, dunque, che Aldisio avvertisse la necessità - testimoniata dalla qualifica di “precedenza assoluta su tutte le precedenze assolute” al telegramma da lui in proposito inviato - di informare chi di dovere su quanto stava accadendo, chiedendo un intervento immediato perché “(...) incidenti simili siano evitati curando affettuosamente i richiamati (...)” .







Conclusioni





Il quadro che emerge dall’analisi delle vicende registratesi in Sicilia tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, non sembra essere minimamente rispondente all’idea, che generalmente si è abituati a condividere, di un movimento resistenziale che ha visto impegnati sul fronte della lotta contro il nazifascismo tutte le forze “vive e sane” del nostro paese e a cui sarebbe stato dato un sostanziale apporto dalle masse popolari, spontaneamente impegnatesi nella lotta contro il tedesco invasore e nell’estirpazione della “mala pianta” del fascismo. L’Italia dell’ultimo anno di guerra fu, invece, anche il Paese dei renitenti alla leva, delle donne pronte a sfidare le autorità per impedire la partenza per il fronte dei loro figli e dei loro compagni, di quanti vivevano la frustrazione conseguente alle misere condizioni di vita cui erano costretti, di quanti si mantennero estranei all’attivismo politico, perché ormai convinti dell’inutilità di continuare a riporre fiducia in coloro che si proponevano per l’amministrazione della cosa pubblica, ogni volta promettendo risposta alle istanze più urgenti dell’isola che restavano però sistematicamente irrisolte, di quanti, invece, alla vita politica parteciparono in prima persona, tentando però la via delle Repubbliche popolari in polemica – e a volte violenta – replica all’immobilismo delle autorità competenti. Tutto ciò a riprova dell’esistenza di una situazione diversa da quella largamente propagandata e che però, non per questo, sembra essere meno attendibile pur essendo meno eroica e meno adatta alla costruzione del mito della partecipazione di massa per la rinascita del Paese alla vita democratica.

Le motivazioni con cui si giustificava la renitenza alla leva erano principalmente di carattere pratico, mentre ruolo minore sembrano aver avuto quelle di carattere essenzialmente politico ed ideologico. In tali condizioni non sembra possibile considerare disonorevole la decisione di anteporre le preoccupazioni quotidiane, gli affetti e gli interessi personali al dovere di continuare a combattere. Quella in cui fino ad allora ci si era impegnati era stata una guerra che aveva arrecato solo lutti e miserie, e sul prosieguo della quale non si era autorizzati a nutrire speranze di positivi esiti.

La volontà di proporre, come alternativa alla continuazione della guerra stessa, l’impegno per la ricostruzione civile ed economica della propria terra era lì a testimoniare il dinamismo e non l’inerzia, la determinazione e non la mancanza di volontà di quanti ritenevano fosse giunta l’ora di offrirle, finalmente, nuove opportunità.

giovedì 10 marzo 2011

Raffaele Cadorna

1889 -1973

Gli Inizi. La Carriera fino a Colonnello

Il Comando de della Divisione “Ariete” – Settembre 1943 e gli avvenimenti conseguenti la crisi armistiziali

La Guerra Clandestina a Roma settembre 1943 – Giugno 1944

Il Comando del Corpo Volontari della Libertà Giugno 1944 – Aprile 1945

Raffaele Cadorna Capo di Stato Maggiore dell’Esercito

Raffaele Cadorna, uomo politico

Gli anni del raccoglimento


Gli Inizi. La Carriera Militare fino a Colonnello

Raffaele Cadorna nacque a Pallanza il 12 settembre 1889 e dal padre, Luigi, che al tempo rivestiva il grado di tenente colonnello, ebbe il nome dell’illustre nonno che appena 19 anni prima fu alla testa delle truppe del regio esercito Italiano che liberava Roma e permetteva l’unione della città Eterna al regno d’Italia.
Dopo gli studi liceali, il giovane Raffaele intraprese la carriera militare. Frequentò Modena, nei corsi di cavalleria e nelle medie finali risultò il primo, ovvero il Capo corso, su 209 Allevi. La nomina a sottotenente è del 1909 e l’assegnazione al reggimento 2lancieri di Firenze”. Il reggimento partecipa alla campagna di Libia, ove alla testa del 2 Squadrone si guadagnò una medaglia di bronzo. Ufficiale d’ordinanza del padre, capo di Stato Maggiore dell’Esercito nel maggio del 1915, durante il primo conflitto mondiale assolse numerosi e rischiosi compiti di stato maggiore ed informativi. Il suo valore fu tale che conseguì la prima medaglia d’argento. Nel secondo anno di guerra, sempre per aver assolto compiti informativi e pericolosi si meritò una seconda medaglia d’argento., mentre ottava la promozione a Capitano. Peraltro, Cadorna prese in considerazione l’idea di passare in fanteria, in quanto non vi era impiego di combattimento di prima linea per la cavalleria nel corso della Guerra di posizione.

Durante i giorni di Capretto Cadorna fu molto vicino al padre; ebbe modo anche di distinguersi. Il 17 novembre al Mulino della sega si conquistò la sua terza medaglia d’argento.

Nel dopoguerra fu nella commissione Militare Interalleata di Controllo a Berlino. Questo lavoro gli permise di trarre osservazioni e commenti su tutta la situazione tedesca, con previsioni che alla prova della realtà risultarono esatte . Rientrato in Italia nel 1924 assume il Comando di uno squadrone di “Savoia Cavalleria” . Vi rimase per due anni e nel 1926 promosso maggiore passo all’Ispettorato di cavalleria. Nel 1929 fu promosso Tenente Colonnello ed inviato a Praga come Addetto Militare, ove fu accolto con entusiasmo perché il suo nome rievocava la fraternità d’armo italo cecoslovacca durante la prima guerra mondiale. . Nel 1934 rientro in Italia e venne assegnato al reggimento Lancieri di Firenze che aveva stanza a Ferrara.

Sono anni che videro Cadorna attento analista della situazione. Lo scoppio della guerra d’Etiopia, per Cadorna significò che quel conflitto avrebbe avviato una serie di reazioni che si sarebbero concluse con una guerra generale.. Sono questi gli anni che permettono a Cadorna di avvicinare esponenti di quella cultura che non era favorevole al “regime”, esponenti che Luigi Alberini, allontanato dalla direzione del Corriere della Sera per il suo inflessibile antifascismo e Tommaso Gallarati-Scotti, esponente del liberalismo lombardo che non aveva ceduto alle suggestioni autoritarie.

Nel 1937, Cadorna, promosso Colonnello. Ha il Comando del Reggimento “Savoia Cavalleria “ A Milano. ‘ una attività che Cadorna prevalentemente verso l’interno della organizzazione militare. Nelle carte di archivio per questo periodo, emerge, leggendole, come Cadorna ponga in luce tutte le manchevolezze e deficienze del regime nella preparazione dello strumento militare. Interventi sconclusionati che irretiscono il personale, non danno una visione omogenea della dottrina di impiego, incertezze e pressappochismo, che poi, al momento dell’impiego si rileveranno in tutta la loro erroneità

Fu un periodo, per Padrona, veramente impegnativo, tutto rivolto a formare in senso vero e non apparente i quadri. Questa sua attività darà i suoi frutti.

Come noto il reggimento "Savoia Cavalleria” oltre a partecipare lodevolmente alle varie campagne, l’8 settembre 1943 rimarrà unito. Passerà intatto il confine svizzero, pur di non farsi disarmare dai tedeschi prefrendo l’internamento in Svizzera che lo scioglimento. Il 25 aprile 1945, di nuovo intatto rientrerà a Milano e sarà a disposizione proprio del suo antico comandante per le necessità di ordine pubblico e polizia.

Nel febbraio del 1941 Con suo grande rammarico, Raffaele Cadorna deve lasciare il Comando del reggimento per assumere quello della Scuola di Applicazione di Cavalleria a Pinerolo; poco dopo fu promosso generale di Brigata.

Durante il suo Comando la scuola di Pinerolo di cavalleria vide accentuare il processo di motorizzazione della cavalleria, reso improcrastinabile dalle esigenze belliche riscontrate nei primi mesi di guerra. Cadorna non esita a impegnarsi nella diatriba della trasformazione della Cavalleria e della destinazione dottrinale di quest’arma, che molti ritenevano e ritengono, con il tramonto dell’impiego del cavallo, ormai non più necessaria ed utilizzabile per scopi di guerra. Cadorna era per una trasformazione dell’Arma di cavalleria con altri messi rispetto al cavallo, ma con gli stessi compiti e soprattutto con le sue tradizione, le sue motivazioni la sua disciplina il suo stile, retaggio di secoli di storia, che non possono essere mai trascurati in un organismo militare, pena l’inefficienza.

Il Comando de della Divisione “Ariete” – Settembre 1943 e gli avvenimenti conseguenti la crisi armistiziale

Nella primavera del 1943 lo Stato Maggiore dell’Esercitò ordinò la ricostruzione della Divisione corazzata “Ariete” che si era immolata nell’autunno precedente ad El Alamein. Nel marzo del 1943 Cadorna fu nominato Comandante della costituenda divisione. Essa comprendeva reparti che poi saranno protagonisti degli eventi armistiziali. Il Raggruppamento Esplorante Corazzato “Lancieri di Montebello”, il Reggimento corazzato “lancieri Vittorio Emanuele II”, Il reggimento motorizzato “Cavalleggeri di Lucca” il 135° Reggimento di artiglieria divisionale. Il 235° reggimento artiglieria controcarro e semoventi il CXXXV battaglione controcarro.

Per Cadorna questo ordinamento delle forze per la divisione era più adatto ad un impiego su terreno pianeggiante e senza ostacoli che su un terreno mosso e rotto come quello italiano; quindi suggeriva la costituzione di un reggimento di fanteria che avrebbe dovuto dare sostegno ai carri. Queste osservazioni di Cadorna dimostrano come egli sia stato attento a tutte le novità che la guerra poneva in evidenza e che, nonostante attaccato alle tradizioni in modo esemplare, era all’avanguardia nei criteri di impiego tattici della sua arma. In pratica Cadorna, anche per i, nome che portava, non era schiacciato o ingessato nelle tradizioni; anzi queste gli permettevano di esaltarsi verso il nuovo e verso soluzioni aderenti alla realtà

In questi periodo, tarda privare del 43, non tralascia i suoi contatti con il mondo esterno. Accentua legami esistenti con l’avv. Colangrade, sostituto Procuratore del re a Ferrara e vicino al partito d’azione, con Ciro Macelli repubblicano e con Concetto Marchesi, comunista.

Secondo le memorie di Marcello Soleri, tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 anche tra gli avversari della monarchia si fece strada la convinzione che solo un intervento del Sovrano avrebbe potuto portare fuori dalla guerra l’Italia con il minor danno possibile. Secondo De Felice, è estremamente significativo, in questo approccio, cioè di opposizione alla guerra e come uscire dalla medesima, “l’atteggiamento di un generale, indubbiamente contrario al regime fascista ed alla continuazione della guerra, come Raffaele Cadorna, di fronte alle esortazioni, nell’aprile maggio 1943, di vari esponenti antifascisti a sostenere con le sue truppe un’azione popolare: anche se avversi al regime ed alla continuazione della guerra, rispose loro, i comandi militari avrebbero preso iniziative concrete solo dietro ordini del Re.

La risposta più dettagliata che rileva la posizione di Cadorna in questa fase è chiara. Nella ipotesi che si sia creato un movimento inteso a provocare la caduta del fascismo e le sue conseguente, quale sarebbe stato il comportamento dell’Esercito. La risposta di Cadorna anticipa poi i suoi comportamenti nella guerra di liberazione. La caduta del fascismo significava che l’ordinamento delle Forze Armate doveva rimanere integro e un eventuale impiego delle predette contro la Germania doveva essere guidato dalla Corona, possibilmente dal principe ereditario.

In questi incontro, Cadorna fece presente a Concetto Marchesi, quanto fosse deleteria la propaganda comunista fra le truppe, che non avrebbe ottenuto, se continuata, che minare la disciplina e rendere quindi inefficiente l’Esercito per qualunque impiego, anche quello di essere utilizzato per combattere i tedeschi.

All’atto dell’annuncio della caduta del Fascismo Cadorna non nascondeva la sua delusione per la dichiarazione di continuazione della guerra, con tutti i pericoli che tale ambigua situazione comportava.

INCONTRANDOSI CON MONTEZEMOLO, COSÌ APPUNTA IL CONTENUTO DEL COLLOQUIO

“MI VIENE A TROVARE IL COL. MONTEZEMOLO, ATTUALE C.TE GENIO DEL C.A., E GIÀ ADDETTO PER TRE ANNI AL COMANDO SUPREMO. LO FACCIO PARLARE. CONSENTE CHE LA STRATEGIA DELLA GUERRA È STATA CONDOTTA DA CAPI INCAPACI MA SOPRATTUTTO DISONESTI E CIOÈ PORTATI A COMPAICERE IL DUCE E A TRARRE VANTAGGI PERSONALI. EMMETTE CHE IL 25 LUGLIO POTEVANO CON UN ATTO DI AUDACIA, SGANCIARE IL PAESE DALLA GERMANIA. COSÌ NON FU FATTO PERCHÉ BADOGLIO SI ILLUSE CHE GLI INGLESI, LIETI DEL MUTATO REGIME INTERNO NON CI AVREBBERO BOMBARDATO. QUESTO APPUNTO È DATATO 26 AGOSTO 1943, REDATTO A CAMPAGNANO.

Sono affermazioni che molto difficilmente potranno essere provate, ma rilevano come nei quadri medio alti dell’esercito vi erano uomini che erano in contrasto con le alte gerarchie; saranno questi uomini che diventeranno le strutture portanti della guerra di Liberazione. In quei giorni Cadorna ebbe modo di incontrare Emilio Lussu Di lui scrive 2Ottima impressione. Uomo deciso, diritto, asciutto. Ideologicamente concordiamo su ogni punto”.

Si rileva in questi frangenti le idee di Cadorna sul futuro assetto politico del Paese, che saranno nel 1945 alla base della sua azione come Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, idee chiare, a fondamento delle quali poneva sempre i concetti di onestà e moralità che egli riteneva indispensabili per il ristabilimento di una vita politica in Italia.

Con la proclamazione dell’armistizio, Cadorna si trova nell’occhi del ciclone. Ha una divisione che seppur in via di formazione può giocare un ruolo determinate se ben condotta con ordini ed obbiettivi chiari. Ha di fronte la 3 Divisione Granatieri Corazzati che ha al suo servizio oltre 35.000 uomini. Dipende dal Gen. Carboni, comandante del Corpo d’Armata Motocorazzato.

Sotto il profilo di comando in questi frangenti, Cadorna mostra il pieno tutto il suo valore. Ha alla mano gli ufficiali e gli uomini e la divisione fino al 15 settembre, cioè fino al momento dell’armistizio con i tedeschi a Roma rimane in armi. Non vi sono sbandamenti fra il personale o diserzioni di sorta.

Sotto il profilo dell’impiego, la Divisone Ariete poteva essere una pedina fondamentale nella difesa di Roma. Impegnata come massa di manovra poteva, una volta fermati i tedeschi a Monterosi e nell’area Bracciano- Manziana, attestarsi compiutamente su Tivoli e qui sul rovescio attaccare i tedeschi che stavano impiegando i Granatieri.

E’ un concetto d’azione che ha come cardine il valore di Roma come obbiettivo tattico renumerativo. Ovvero fino a quando il Re, il vertice politico militare rimane a Roma, Roma deve essere difesa ad ogni costo e tutte le forze . Una volta che il Governo e il re si sposta in altra parte del paese, non vi è più questa esigenza, e quindi ci si deve comportare di conseguenza.

L’atteggiamento e la condotta di Cadorna si ispira a questo principio. Quindi l’Ariete segue gli avvenimenti e quindi rimane passiva fino alla conclusione dell’armistizio tra tedeschi ed italiani e la proclamazione di Roma Città Aperta.

La Divisione dopo questo atto si scoglie. A tutti i militari man mano che venivano posti in libertà, fu rilasciato un documento attestante che fino all’ultimo avevano servito con onore e che venivano posti in licenza per ordini superiori.

Scrive Marziano Brignoli. “L’Ariete costituiva un notevole strumento di guerra. Fu quindi una sventura per le armi italiane che essa non avesse avuto modo di esplicare tutte le sue possibilità in un impiego a massa secondo un criterio ispirato a decisione. Se ciò fosse avvenuto la Divisione avrebbe certamente reso molto di più . Alla Divisone di Cadorna va riconosciuto di aver compiuto il suo dovere in un momento in cui la parola dovere sembrava aver perso ogni significato. Non un reparto della divisione disarmò perché sopraffatto dai tedeschi, ma tutti e soltanto quanto ne ricevettero l’ordine.

Questo sta a significare come il generale Cadorna sia sta un ottimo comandante nelle vicende armistiziali.

La Guerra Clandestina a Roma settembre 1943 – Giugno 1944

Con il disarmo volontario e lo scioglimento della Divisione, Cadorna dovette affrontare come tutti il momento delle scelte. Che fare? Accettare il predomino tedesco, rimanere passivi in attesa degli eventi, oppure prendere una qualsiasi iniziativa volta ad avviare una qualche forma di resistenza?. Il dilemma fu risolto da Cadorna in modo reattivo. Era ovvio che non vi erano i mezzi per una pronta resistenza militare. Quindi occorreva accordarsi con una qualche forma di resistenza politica.

Nel novembre del 1943 Cadorna prese contatto con Manlio Brusio del partito liberale, Riccardo Bauer della Giunta Militare del C.L.N. che a loro volta erano in contatto con il col. Montezemolo. Alla fine del 1943 sotto falso nome intraprende un viaggio al Nord dove prese contatto con Alfredo Pizzoni, Ferruccio Parri e Giuseppe Dozza. Fu un viaggio molto proficuo in quanto riuscì ad avere un quadro quasi completo dell’attività del CLNAI e quindi di tutto il movimento di resistenza partigiano. Intraprese il viaggio, non facile di ritorno a Roma, per collegare il CLNAI con il movimento militare di resistenza a Roma.

Purtroppo questo movimento aveva ricevuto un duro colpo con gli arresti che si susseguirono dal 30 gennaio in poi. Lo sbarco di Anzio e Nettuno aveva illuso molti esponenti della clandestinità e si erano allentare le precauzioni e quindi il lavoro degli informatori e delle spie fu fortemente agevolato. Furono arrestati numerosi esponenti del fronte clandestino, tra cui il col. Montezemolo ed il gen. Fenulli, già vicecomandante dell’Ariete. Molti di loro cadranno alla Fosse Ardeatine nel marzo successivo. Cadorna era attivamente ricercato dalla polizia e tedesca e fascista. Nel maggio del 1944, alla vigilia della liberazione di Roma, il gen. Bencivenga offre a Cadorna l’incarico di Comandante delle Forze Partigiane al Nord, senza specificare su che base e a quali condizioni questo incarico debba essere esplicato. Soprattutto non si chiariscono i punti relativi agli accordi con le formazioni politiche operanti al nord. E’ un atteggiamento molto superficiale da parte del gen. Bencivenga, e Cadorna lascia cadere la proposta nel vuoto.



Con la liberazione di Roma, si aprono delle nuove prospettive. Il nodo da sciogliere è la nomina di un nuovo Governo. Cadorna, nelle discussioni che si succedono fra vari esponenti, tra cui Camillo Casati, Alessandro Casati, Nenni, Bonomi ed altri, Cadorna è fermo nel non voler entrare in un governo presieduto dal m.llo Badoglio, nella convinzione che era necessario dare un taglio netto con il passato.

E’ una posizione chiara, che permette di delineare per lui una offerta quale sottosegretario alla guerra, con Casati Ministro. Ma di questa proposta non se ne fece nulla.

Un incarico più importante però era alle viste: quello di ritornare al Nord e prendere il Comando militare di tutto il movimento partigiano.


Il Comando del Corpo Volontari della Libertà Giugno 1944 – Aprile 1945


Rievocare la figura del gen. Raffaele Cadorna impone una attenta esposizione dell’incarico che svolse come Comandante del Corpo Volontari della Libertà, ovvero a dire il Comando militare esercitato nel Nord Italia tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945 su tutto il movimento partigiano italiano.

L’incarico di Comandante del Corpo Volontari della Libertà venne offerto al gen. Raffaele Cadorna dal Governo Italiano, appena insediatosi dopo la liberazione di Roma,tramite il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito gen. Messe, con il consenso degli Alleati, su designazione del C.L.N.A.I., che ne chiedeva esplicita assegnazione in veste di consigliere militare.

Come si vede la missione al Nord trovava concordi tutte le componenti che nella metà del 1944 stavano conducendo con ogni mezzo la Guerra di Liberazione. La componente Politica, con Bonomi e Casati in testa e quindi anche i partiti che si erano ormai ben organizzati per dare vita ad un governo non solo di militari, il vertice militare uscito dall’armistizio, rappresentato dal gen. Messe , gli Alleati, che attraverso il Q.G. di Caserta volevano un uomo anche di loro fiducia per regolare i rifornimenti alle formazioni partigiane, ed gli uomini che al nord erano saliti in montagna, cioè il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia in tutte le loro espressioni politiche ( comunisti, socialisti, giellisti, moderati, autonomi, liberali, cattolici, monarchici).

Questa precisazione non è fatta per un mero esercizio dialettico ma per sottolineare che nella figura del gen. Raffaele Cadorna si concentra e coagula e riunisce tutte quelle componenti resistenziali italiane, di varie e difforme estrazione che combattono il tedesco invasore ed occupatore, dando nel contempo quella unitarietà al movimento resistenziale che sarà uno ei vanti italiani e che rappresenta la matrice, all’indomani elle vittoria, del nuovo tessuto sociale e politico su cui sorgerà la nuova forma istituzionale.

Non è una semplice constatazione. Basti pensare che altri movimenti di resistenza hanno avuto al loro interni forti contrasti: in Jugoslavia quello fra le forze titine e quelle monarchiche, in Polonia tra quelle nazionali e comuniste, in Albania tra i “ballisti” e le forze comuniste e soprattutto in Grecia, tra i monarchici i comunisti che addirittura sfociò in una prolungata guerra civile.

Cadorna accettò l’incarico dopo che Riccardo Baur, uno dei massimi esponenti del partito d’azione, gli assicurò che tutto il CLNAI aveva votato alla sua andata in modo unitario.

Assistito dalla Special Force n. 1, il reparto inglese che addestrava il personale per la guerra dietro le linee, Cadorna raggiunse la Puglia per un corso intensivo. L’11 agosto fu paracadutato in Val Cavallina, una zona controllata da formazioni delle “Fiammi Verdi”, per poi raggiungere Milano il 17 agosto. Il primo incontro tra Cadorna e il CLNAI riunito al completo, che intanto si era in Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà, avvenne il 26 agosto 1944.

In due successive riunioni del CLNAI il 3 e 4 settembre 1944 la posizione di Cadorna venne ufficialmente definita in quella di consigliere militare poiché i partiti comunista, socialista e d’azione si dichiararono contrari a nominarlo Comandante del Corpo Volontari della Libertà. La questione era solo rinviata. Il 27 settembre una ulteriore riunione si concluse con un nulla di fatto. La vicenda si concluse ai primi di novembre, quando ormai tutti si resero conto che la funzione di Cadorna era basilare per avere l’assistenza degli Alleati, che non avrebbero permesso una condotta della guerra partigiana in modo politico e non in armonia con lo sforzo bellico contro la coalizione nazista. Ai primi di novembre la questione del Comando del Corpo Volontari della Libertà fu risolta nel senso di nominare Cadorna Comandate del C.V.L., assistito da due vice-comandanti che sarebbero stati Ferruccio Parri e Luigi Longo.. Cadorna accettò questa soluzione, dopo che il CLNAI lo comunicasse in forma scritta e con la precisa descrizione delle sue funzioni.

Cadorna in questi mesi si era intanto creato un suo piccolo Stato Maggiore, raggruppato attorno al ten. Col. Palombo ed altri ufficiali. Ma la esplicazione della sua attività era molto difficile per ovvi motivi. Da una parte era difficile mantenere il contatto con le formazioni operanti sul terreno, dall’altra era ancora più difficile trasmettere ordini ed indicazioni. In ogni caso riuscì a tenere costantemente informati gli Alleati dell’andamento e dello sviluppo del movimento partigiano, cosa questa che una delle chiavi di vittoria della Resistenza al Nord.

E’ difficile qui descrivere i mesi in cui Cadorna svolse il suo ruolo di comandante nei minuti particolari. La guerra partigiana era dura e completamente diversa da quella classica.

Nel rievocare la figura del generale, qui preme ricordare come la presenza di Cadorna fu un fattore di successo della guerriglia al Nord. Cadorna era stato nominato da Roma e dagli Alleati, e con questa nomina accreditava tutto quello che la resistenza attuava sul campo di battaglia, perché si era battuto contro i tedeschi nella crisi armistiziali, senza esitazioni, perché durante la lotta clandestina aveva mostrato di comprendere con chiarezza di idee come ci si doveva muovere e resistere, come l’azione militare e l’azione politica dovevano necessariamente integrarsi, perchè aveva doti di carattere, di intelletto e di cultura che lo designavano particlarment adatto a questo ruolo di Comandante. E’ una spetto che occorre sottolineare. Un Generale di vecchia famiglia militare che nella guerra di liberazione stava rinverdendo la sua tradizionel secolare di valore e patriottismo, dava credibilità ad un movimento poplare, insurrezionale di variegate forme ed estrazioni politiche ed ideologice, e che permetteva di inserire il valore ed i sacrificidei aprtigiani nell’alveo della lotta generale contro il tedesco. Un ruolo di legittimità che la Resistenza riceveva dall’azione e dall’opera di un uomo che anteponeva ogni interesse di aprte o personali a quelli della Nazione. E per quei tempi era veramente un approccio di eccellenza estremamente necessario, di fronte agli Alleati, per noi Italiani.

Raffaele Cadorna Capo di Stato Maggiore dell’Esercito

La nomimina a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, avvenuta il 5 maggio 1945, non trova entusiasta il nostro protagonista. Nel suoi appunti si legge “Mi cominicano la mia nomina a Capo di S.M. Ricevo un mondo di felicitazioni. Non sono entusiasta. Capisco subito che mi prendono come copertura alla paccottiglia romana. Parlo chiaramente con Chatrian: occorre sciogliere l’Esercito della base.”

Secondo Cadorna occorreva prendere provvedimenti radicali: si doveva a prire una pagina nuova, respingendo ogni compromissione con il passato.

In molti ambienti la nomina era stata interpretata come il tentativo di legare attraverso una persna di prestigio, il vecchio Esercito, o quella parte che si poteva salvare di esso, con le forze uscite dalla esperienza esaltante della guerra partigiana per costruire un nuovo organismo militare sul quale l’Italia potesse avviarsi a costruire le sue nuove Forze Armate.

In altri ambienti, questi all’interno dei partiti politici, qualcuno credeva che la nomina fosse il frutto della volontà di allontanare una figura altamente prestigiosa dal Nord Italia, in modo tale da eliminare un personaggio che sicuramente avrebbe avuto molto spicco sul piano politico, quasi una figura alla “de Gaulle”. Una figura, che però era molto lontana dallo spirito e dalle convinzioni di Cadorna che non accettava la figura del militare politicante e che mai avrebbe utilizzato la carica di Comandante del C.V.L. come trampolino di lancio per una carriera politica che indubbiamente avrebbe riservato qualche successo.

Al di la delle interpretazioni sulla nomia di padrona a Capo dell’Esercito, rimane il fatto che l’Esercito stesso doveaveva avere a capo un uomo a cui tutti facessero riferimento.

L’Esercito che doveva guidare era l’esercito dells confitta. Inutile nascondersi. Salvo il valore dimostrato dalle truppe e dai quadri sul piano personale, l’Esercito Italiano, in quanto organismo predisposto alla guerra, sul piano strettamente operativo non aveva fatto una bella figura nei 39 mesi di guerra. Si possono dare tutte le colpe a Mussolini ed al regime, ma sul piano strettamente tecnico vi furono delle sconfitte inaccettabili. La annosa questione della obsolescenza dei materiali la carenza dei medesimi nasconde una incapacità dei Comandi e dei quadri di utilizzare, nel rapporto costo/efficacia, al meglio le risorse disponibili. La stessa dottrina di impiego non era al pari delle esigenze, e la cosa ancor più grave è stata la capacita di acquisire nuovi elementi dalle lezioni apprese. La campagna di Polonia e la Campagna di Francia dovevano insegnare qualche cosa nel campo tattico ed ordinativo; am poco o nulla si fece per adeguarsi alle esigenze. La tessa difesa del territorio metropolitano appare più una resa morale e motivazionale che una carenza di armi e mezzi. La Marina e la Aeronautica alla prva della guerra hanno fortemente deluso. L’impiego dell’arma subacquea non fu alla alteza delle aspettative, così come l’impiego delle navi di superfice fu mediocre e non tutto può essere addebitato alla mancanza del radar, come la notte di taranto insegna. L’aeronaitic aveva conquistato tutti i records possibili, ma alla prova dei fatti si rilevò alquanto incapace di agire a vasto raggio, a cooperare con le altre armi ad agire, cone si direbbe oggi, con spirito interforze. Il risultato fu che i cieli sopra le nostre navi e le teste dei nostri soldati fu sempre o quasi sempre dominio dell’avversario; inutle poi parlare delle offensive strategiche in profondità teorizzate da Douhet, che non furono nemmeno concepite.

Questa analisi spietata è una “summa” delle idee di Cadorna, che aveva vissuto in prima persona il processo di disfacimento, rispetto al primo conflitto mondiale, delle nostre Forze Armate. La crisi armistiziale aveva praticamente dissolto l’Esercito. Se noi oggi parliamo di Montelungo, come primo atto dell’Esercito Italiano, come rinascita del medesimo, indirettamente ammettiamo che nei tre mesi dall’8 settembre alll’8 dicembre 1943 l’Esercito Italiano non esisteva. E la sua rinascita si deve individuare in quei 5000 uomini che andarono all’assalto a Mignano.

Cadorna reputa che questa situazione è dovuta al cedimento morale e spirituale della classe militare italiana davanti al fascismo. Questo cedimento ha fatto si che ognu anteponesse gli interesi personali, di carriera e di prebente per se e per la sua famiglia, a scapito degli interessi della Forza Armata. Ne discende che le scelte operate non sono adeguare alla realtà ed alla necessita e che la sommatoria di queste ha portato alla serie paurosa di sconfitte nella guerra e poi alla disfatta dell’8 settembrre.

Ne è prova, al contrario, di come le unità al Comando di cdorna, che aveva impostato la sua azione di comando con criteri diametralment opposti, si sono comportati in guerra e nelle vicende del’armistizio. IL 2Savoia Cavalleria”, la Scuola di Pinerolo, la Divisione “Ariete” hanno un atteggiamento degno di lode e gli uomini che furono agli ordini di Cadorna, cresciuti alla sua scuola, ebbero comportamenti d’onore.

L’ordine del giorno che Cadorna indirizza all’Eserecito è estremamente significativo al riguardo. La rigenerazione spirituale e il rigore morale sono i cardini che devono determinare la fermezza del carattere e la onesta, sorpatutto intellettuale oltre che quella materiale, della compagine dell’esercito. Oggi queste parole sembrano retoricoe e danno fastidio. Anche allora davano fastidio e daranno sempre fastigio in quanto contrastano a quel pressappochismo morale ed intelluttale che è la matrice di ogni sconfitta e di ogni tragedia.

Un documento di grande rilevanza, per illuminare la figura di Cadorna in questa chiave è in documento di un discorso, mai pronunciato, in cui si analizza con estrema severità la situazione dell’esercito, nonche le cause remote e prossime della sconfitta. E’ un documento molto severo, che in pratica ho riassunto precdentemente, che nulla concede a commiserazioni o ad indulgenze, nel quale sono chiaramente poste in evidenza le lacune che attanagliano la nostra compagine militare e ove si palesa una forte volontà di rinnovamento attraverso un serio lavoro ed onesto, ispirato ad un alta concezione morale del mestiere delle armi.

Questo è il profilo di Cadorna come capo di quell’Esercito di transizione che prima degli equipaggiamenti e delle armi aveva bisogno di un bagno purificatore, di essere liberato dalla cialtroneria di stampo staraciano che il fascismo gli aveva inculcato.

Sul piano operativo, occorre sottolineare come il lealismo di Cadorna alle istituzioni fu essenziale per un corretto svolgimento del Referendum istituzionale, che vide l’Esercito al servizio della Nazione ed agli ordini del Governo. Soprattutto cadorna ebbe un ruolo non marginale sul conflitto tra la Corona ed il Governo sulla proclamazione dei risultati del “referendum” fatta dalla Cassazione. La partenza per l’esilio di Umberto di Savoia pose fine alle incertezze drammatiche di quei giorni.

Il rigore cadorniano sulle questioni militari fatalmente lo portò alle dimissioni. Nel 1947 molte questioni non erano state risoote, prima fra tutte la questione delle competenze e repasonabilità dei Vertici Militari che si protrarrà fin al 1966. Ma quello che cadorna non accettava era la marea montante di fare un esercito di quantità più che di qualità, un esercito che senza le necessarie risorse finanziarie avrebbe di nuovo fatto non una compagine efficiente ma una accozzaglia, anche ben ordinata e disciplinarmente accettabile, di uomini male istruiti e dotati di pochi mezzi. Si ritornava all’antico.

Non volendo prolungare una situazione di non chiarezza e di incertezz atra poltere politco e potere militareCadorna rassegnò le dimissioni ne febbraio 1947.

Raffaele Cadorna, uomo politico

L’aver lasciato l’esercito non significò per cadorna il termine dell’impegno nella vita pubblica. Si presentò alle elezioni in un seggio senatoriale alle elezioni del 1948. I risultati furono eccellenti: nel collegio Cusio-Ossola ebbe 52810 voti. In Senato, fu componente della Commissione Difesa e questo è facilemtne intuibile. Il suo apporto ai lavori parlamentari fu efficace e qualificato: fu relatore e numeros eleggi che diedero una impostazione programmatica alle Forze armate, come la legge sui sottufficiali ed altre. Curò molto il suo Collegio elettorale, ma la sua mentalità era aliena qualsiasi cosa che fosse “apparto di partito” e quindi si allontanò da coloro che ritengono che i seggi in parlamento sono di pertinenza partitica. La trasformazione in senso sempre più livellatorio, intese come macchine epr raccogliere voti, fecero si che Cadorna uscisse dalla compagine parlamentare e quindi dalla vita pubblica. Non accettò nemmeno la proposta di un seggio senatoriale a vita, come non accettò una decorazione per la sua opera come comandante del Corpo Volontari della Libertà.


Gli anni del raccoglimento

A metà degli anni sessanta si ritirò nella casa di pallanza, attivo sempre negli studi, nella presenza culturale e nella corrispondenza.Nel 1967 curò il volumte “Lettere Familiari”, raccolte delle lettere del Padre. Partecipò alla vita culturale di Milano, vicino alle attività delle associazioni combattentistiche e d’arma, in particllare quella di Cavalleria e fu sempre vicino al suo reggimento “Il Savoia” di cui andò sempre fiero.

Si spense a Pallanza il 20 dicembre 1973. Sulla bara volle i fazzoletti delle Brigate Partigiane e la drappella del 3° Squadrone di 2Savoia Cavalleria” lo squadrone che aveva comandanto da capitano e la tromba che a Isbuscenskji aveva suonato la carica.Erano i simboli di quei valori di Patria e di Libertà cui Raffaele Cadorna si era sempre ispirato per nobilmente servile l’Italia

Meglio di ogni altra parola sono le righe del suo testamento:

“Nel lasciare questo mondo nel quale ho servito con fedeltà ed onore ma soprattutto col massimo disinteresse il mio paese, rivolgo un pensiero grto ai colleghi e dipendenti che condivisero le mie sorti in pace e in guerra. Un pensiero particolarmente affettuoso ai superstiti cavalieri di “Savoia”.

Ai miei figli lascio intatta a tradizione lasciatami dai miei maggiori: quella di vivere con dignità, in piena indipendenza da qualsiasi servitù morale, con la stessa fermezza d’animo nei lieti come nei tristi eventi”
Un testamento degno di nota, che tratteggia l’uomo.
Sulle opere e sui fatti di Cadorna come generale e come uomo politico si sono innestate molte versioni e polemiche. Non è questa la sede per approfondire questi aspetti. Visto da destra, è una sorta di “Traditore” che per varie ragioni non ha dato tutto prima al Governo e poi alla Corona. Sulle vicende armistiziale molte sono le versioni contrastanti, soprattutto nel ruolo che ebbe al comando della divisoni Ariete: Ed anche qui le polemiche non mancano. Visto da Sinistra, era il generale che voleva imbrigliare, per conto delle forze della reazione e del conservatorismo, la idealità partigiana e la spinta progressita e riformista della Resistenza. In pratica una sorta di ostacolo per la realizzazione della sovranità del popolo nelle decisioni fondamentali della nuova Italia.
Una figura di equilibrio, di punto di incontro fra opposti, che ebbe il merntio di far uscire l’Italua dagli estremisti, che sono sempre la matrice di ogni tragedia sociale. Una figura che qui è stata tratteggiata ma che merita ulteriori approfondimenti, cosa che faremo nel corso della nostra attività collaborativa nell’ambito della Associazione