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giovedì 31 ottobre 2024

Testo della sentenza della Corte di Cassazione. Redipuglia Vilipendio

 

Corte di Cassazione

Penale Sentenza Sezione. 3 Numero. 24271 Anno 2024

Presidente: RAMACCI LUCA Relatore: CORBETTA STEFANO

Data Udienza: 09/05/2024


SENTENZA

sui ricorsi proposti da Owusu Frimpong Emmanuel, nato a Udine il 06/11/1993 Piras Matteo Antonio, nato a Latisana il 21/07/1994 avverso la sentenza del 11/07/2023 della Corte di appello di Trieste visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Corbetta; letta la requisitoria redatta ai sensi dell'art. 23 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro Molino, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi; lette memoria e le conclusioni del difensore degli imputati, avv. Daniele Vidal del foro di Udine, che insiste per l'accoglimento dei ricorsi; lette la memoria e le conclusioni del difensore della parte civile Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valor Militare, avv. Laura Ferretti del foro di Pordenone, che chiede la conferma della sentenza impugnata, con condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali, come da nota spese allegata.”


RITENUTO IN FATTO

1. Con l'impugnata sentenza, la Corte di appello di Trieste ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Gorizia all'esito di giudizio abbreviato e appellata dagli imputati, la quale aveva condannato Emmanuel Owusu Frimpong e Mattia Antonio Piras alla pena ritenuta di giustizia, condizionalmente sospesa subordinatamente alla corresponsione del risarcimento del danno liquidato in favore della costituita parte civile, in relazione al delitto di cui agli artt. 110, 408 cod. pen., perché, in concorso tra loro, in assenza di qualsivoglia autorizzazione, realizzando ed interpretando un video musicale che li ritraeva mentre erano intenti a ballare e a cantare una canzone dal titolo "CSI - Chi sbaglia paga" all'interno dell'area del Sacrario militare di Redipuglia, ed, in particolare, sopra i gradoni ove sono sepolti i resti dei soldati caduti nella prima guerra mondale, e, in seguito, pubblicandolo on line su un canale YouTube, vilipendevano le tombe e il luogo che è destinato a mantenere viva ed onorata la memoria dei militari caduti. 2. Avverso l'indicata sentenza, gli imputati, per il ministero del comune difensore di fiducia, con il medesimo atto hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo: - con un primo motivo, la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all'art. 408 cod. pen. per errata valutazione dell'elemento soggettivo, in quanto la Corte di merito non ha affatto motivato in ordine alla sussistenza del dolo, essendosi unicamente focalizzata sulla conclamata sacralità del luogo in cui si è tenuta la condotta, e considerando la finalità di espressione artistica - e non già offensiva - che ha animato gli imputati; - con un secondo motivo, la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all'art. 408 cod. pen. per errata valutazione dell'elemento oggettivo, mancando una condotta di vilipendio, posto che i gli imputati si sono limitati a cantare una canzone, il cui contenuto, peraltro, non ha nulla di offensivo o di dispregiativo; - con un terzo motivo, la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. in relazione all'art. 408 cod. pen., avendo la Corte d'appello fondato l'affermazione della penale responsabilità su elementi inconferenti, quali il pericolo di emulazione e la mancanza di autorizzazione alle riprese; - con un quarto motivo, l'illogicità della motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, trattandosi di soggetti incensurati e non avendo la Corte di merito valutato la condotta dell'imputato Owusu, il quale, in seguito, sui canali sodali, ha manifestato le proprie scuse;


- con un quinto motivo, la mancata esclusione della parte civile Associazione del Nastro Azzurro, la quale non ha alcuna specifica finalità connessa con il sacrario di Redipuglia, né con la memoria dei caduti, e l'abnormità della quantificazione del risarcimento del danno, che non è sorretta da alcuna motivazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono, nel complesso, infondati. 2. Cominciando dal secondo e dal terzo motivo - che rivestono priorità logica essendo diretti a contestare la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato - gli stessi sono infondati. 3. Il bene tutelato dalle fattispecie delittuose racchiuse nel Capo II del Titolo IV del Libro II del codice penale - ove è collocato l'art. 408 cod. pen. - va individuato, come chiaramente emerge dalla stessa intitolazione della rubrica, nella "pietà dei defunti", da intendersi nel senso di pietas: locuzione che designa quel diffuso e sentimento, individuale e collettivo, il quale si manifesta nel rispetto tributato ai defunti ed alle cose destinate al loro culto nei cimiteri e nei luoghi di sepoltura. La pietas per i defunti, in particolare, è un sentimento che attiene all'essere umano in quanto tale anche quando ha cessato di vivere, come proiezione ultraesistenziale della persona, e ciò indipendentemente dall'adesione a un particolare credo religioso, come, del resto, lascia chiaramente intendere la suddivisione dei Capi contenuti in questo Titolo, che distingue, appunto, i "Delitti contro le confessioni religiose" - rubrica introdotta dall'art. 10, comma 2, I. 24 febbraio 2006, n. 85, che ha sostituto la precedente "Delitti contro la religione dello Stato e dei culti ammessi" - dai "Delitti contro la pietà dei defunti". Se l'intero Capo ruota attorno al medesimo bene giuridico, emerge una partizione interna tra le prime incriminazioni (artt. 407 - 409 cod. pen.), il cui oggetto materiale è legato al culto dei defunti ed al sentimento di pietà che esso suscita, e le fattispecie successive (artt. 410-413 cod. pen.), poste a salvaguardia delle spoglie mortali e, quindi, del medesimo sentimento che le stesse evocano. In particolare, la condotta di vilipendio punita dall'art. 408 cod. pen. - che deve avvenire «in cimiteri o altri luoghi di sepoltura» - ha ad oggetto «tombe, sepolcri o urne», oppure «cose destinate al culto dei defunti», quali croci, cappelle, immagini, lampade, fiori e tutti gli oggetti finalizzati alla memoria del defunto, ovvero cose destinate «a difesa o ad ornamento dei cimiteri», come muri, porte, monumenti, piante dei viali.


Di conseguenza, oggetto specifico della tutela apprestata dall'art. 408 cod. pen. è quel profilo della pietà dei defunti, che si declina attraverso il rispetto della sacralità del luogo di sepoltura e delle cose mortuarie destinate al ricordo dei defunti. 4. L'elemento oggettivo del reato consiste in un'azione di "vilipendio", termine che compare in diverse disposizioni codicistiche di parte speciale - specie tra i delitti contro la personalità interna dello Stato (artt. 290, 291, 292), oltre che, appunto, tra i delitti raggruppati nel Titolo IV (oltre all'art. 402, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 508 del 2000, gli artt. 403, 404 e 410)- , di cui però la legge non offre, in nessuna disposizione, la nozione. Come suggerito dalla Corte costituzionale con riferimento alla fattispecie prevista dall'art. 290 cod. pen., il termine "vilipendio" va inteso "secondo la comune accezione del termine", e "consiste nel tenere a vile", il che significa, con riferimento al delitto di vilipendio della Repubblica, "ricusare qualsiasi valore etico o sociale o politico all'entità contro cui la manifestazione è diretta sì da negarle ogni prestigio, rispetto, fiducia, in modo idoneo a indurre i destinatari della manifestazione (sent. n. 20 del 1974). Se, dunque, il vilipendio deve essere inteso nel suo significato letterale, le fattispecie che lo prevedono come elemento costitutivo del fatto sono delineate come reati a forma libera, stante la molteplicità di condotte attraverso cui può manifestarsi il sentimento di disprezzo, scherno o dileggio, cambiando unicamente, a seconda delle diverse disposizioni incriminatrici, l'oggetto su cui deve incidere la condotta di vilipendio.


5. Con specifico riguardo al delitto qui al vaglio, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare, rientra certamente nell'ambito di operatività della fattispecie di cui all'art. 408 cod. pen. il compimento di atti di disprezzo su cose deposte nei luoghi destinati a dimora dei defunti ed aventi la funzione di evocare il sentimento di pietà nei loro confronti che rechino danno alle stesse, le lordino o vi imprimano segni grafici vilipendiosi ovvero ne comportino la rimozione, anche parziale, con eventuale sostituzione con altre diverse per significato, origine e rilevanza sociale (Sez. 3, n. 43093 del 30/09/2021, Albertario, Rv. 282298-01; Sez. 3 n. 4038, del 29/03/1985, Moraschi, Rv. 168901). Inoltre, come si desume dalla locuzione impiegata nell'art. 408 cod. pen. - la quale incrimina il vilipendio "di", e non "su", tombe, sepolcri o urne, cose destinate al culto dei defunti, ovvero a difesa o ad ornamento dei cimiteri - assumono penale rilevanza anche semplici espressioni verbali o comportamenti che non ricadano sulla cosa in modo tale da produrne una modificazione esteriore visibile, purché,ovviamente, meritino l'appellativo di "vilipendio", ossia esprimano disprezzo o profanazione verso le cose poste nei luoghi di sepoltura indicate dalla norma.


6. Va doverosamente precisato che spetta al giudice il compito di uniformare la previsione astratta di reato al principio di offensività: esigenza tanto più avvertita quanto più la condotta punibile sia individuata dal legislatore mediante l'impiego di termini aventi un'ampia latitudine semantica, quale certamente è il "vilipendio". Come costantemente predicato dalla Corte costituzionale, il principio di offensività - la cui matrice costituzionale è ricavabile dall'art. 25, secondo comma, Cost. (sentenza n. 211 del 2022), in una lettura sistematica cui fa da sfondo l'«insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenze n. 225 del 2008 e n. 263 del 2000) - opera su due piani distinti: da un lato (offensività "in astratto"), come precetto rivolto al legislatore, il quale non può sottoporre a pena fatti che, nella loro configurazione astratta, non esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione; dall'altro (offensività "in concreto"), come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, deve escludere dall'area del penalmente rilevante quei fatti che, sebbene formalmente conformi al tipo legale, in concreto si rilevino inidonei a ledere o a mettere in pericolo il bene tutelato (cfr., ex multis, sentenze n. 139 del 2023, n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 265 del 2005, n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Di conseguenza, come affermato la Corte costituzionale, «il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività "in concreto"). Esso - rimanendo impegnato ad una lettura "teleologicamente orientata" degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense - dovrà segnatamente evitare che l'area di operatività dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialità lesiva» (sentenza n. 225 del 2008). Nella ricognizione, nel singolo caso, del "vilipendio" penalmente rilevante ai sensi dell'art. 408 cod. pen., il giudice deve perciò valutare la condotta con riferimento al bene giuridico tutelato dalla norma, come sopra definito, e accertare che i gesti o le espressioni, anche se non diretti immediatamente contro le res contemplate dalla norma, producano, in concreto, la lesione del rispetto del luogo di sepoltura e delle cose mortuarie, e, quindi, del senso di pietà ispirato dal ricordo del defunto che necessariamente ad esso consegue.


7. Venendo al caso in esame, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, avendo ravvisato il "vilipendio" di tombe nel fatto — insindacabilmente accertato nel giudizio di merito - che due imputati aveva posto in essere un ballo a ritmo di rap sopra le tombe di centomila caduti di guerra, che trovano la loro collocazione funeraria nel sacrario di Redipuglia. Si tratta, all'evidenza, di una condotta che, anche in relazione alla specificità del luogo, avente natura di monumento nazionale della Grande Guerra, appare chiaramente e inequivocabilmente espressiva di un sentimento di disprezzo di quel luogo di sepoltura, concretamente lesivo del senso di pietà ispirato dal ricordo delle migliaia di soldati caduti in guerra, le cui spoglie ivi riposano.


8. In conclusione, deve perciò ritenersi che integra il delitto di cui all'art. 408 cod. pen. lacondotta di chi, all'interno di un sacrario militare monumentale, pone in essere un ballo a ritmo di rap sopra le tombe dei caduti cantando una canzone al fine di realizzare ed interpretare un video musicale poi diffuso attraverso Internet.


9. Il primo motivo è parimenti infondato.


9.1. Si rammenta che, come condivisibilmente affermato da questa Sezione, il reato di vilipendio delle tombe di cui all'art. 408 cod. pen. è punito a titolo di dolo generico, sicché basta la coscienza e volontà del vilipendio stesso insieme con la consapevolezza del particolare carattere del luogo richiesto dalla norma, quale cimitero o altro luogo di sepoltura, essendo pertanto irrilevante il movente dell'azione, né essendo necessaria l'intenzione di offendere la memoria di un determinato defunto (Sez. 3, n. 43093 del 30/09/2021, Albertario, Rv. 282298-02), e la circostanza che la condotta sia avvenuta non per arrecare offesa al defunto, ma alla persona che aveva fatto sistemare la tomba per onorarlo e ricordarlo (Sez. 3 n. 4038, del 29/03/1985, Moraschi, cit.). Invero, nella descrizione del fatto oggetto di incriminazione non compaiono segni linguistici che denotano il dolo specifico ("al fine di", "allo scopo di"), di talché la finalità perseguita dall'agente risulta del tutto ininfluente ai fini della sussistenza del reato, così come irrilevante è il movente dell'azione, che rimane confinato nella sfera interiore dell'agente e che può rilevare ex art. 133, comma 2, n. 1 cod. pen. Oltre a ciò, l'agente deve rappresentarsi che l'azione di vilipendio sulle res indicate dalla norma avviene «in cimiteri o altri luoghi di sepoltura», come espressamente prevede il testo dell'art. 408 cod. pen.

9.2. Facendo corretta applicazione del principio ora richiamato, la Corte di merito, con una motivazione che certamente non può dirsi manifestamente illogica, ha ravvisato il dolo, evidenziando che il contesto di particolare solennità del monumento, ricco di riferimenti storici ai fatti per i quali è stato istituito, non consente di ipotizzare che i due imputati potessero ignorare che ivi riposano migliaia di salme, alla cui memoria, appunto, è stato edificato il sacrario, e, dunque, che non avessero consapevolezza di trovarsi in un luogo di sepoltura, e del fatto che l'azione dagli stessi compiuta - ossia il ballare a ritmo di rap - era posta in essere sulle tombe dei soldati, a nulla rilevando l'asserita finalità di espressione artistica che avrebbe animato gli imputati. 10. Il quarto motivo è inammissibile. La Corte di merito ha motivatamente escluso i presupposti integranti i presupposti delle circostanze attenuanti ex art. 62-bis cod. pen., non ravvisando, nel caso concreto, alcun elemento tale da giustificare una mitigazione della pena, in ciò facendo corretta applicazione del principio, qui da confermare, secondo cui l'applicazione delle circostanze in esame non costituisce un diritto conseguente all'assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle stesse (Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, De Crescenzo, Rv. 281590). Sul punto, il motivo è, oltretutto, generico, in quanto, per un verso, l'incensuratezza, per espresso dettato normativo, non può da sola giustificare l'applicazione delle attenuanti in esame, e, per altro verso, la circostanza che l'imputato avrebbe manifestato delle scuse tramite i canali social è smentito da quanto emerge dalla sentenza (cfr. p. 7), secondo cui, invece, gli imputati non hanno mostrato alcun segno di resipiscenza per l'accaduto, esprimendo, in più occasioni, la scarsa consapevolezza delle loro azioni.


Il quinto motivo (ricorso contro la costituzione dell’Istituto del Nastro azzurro a costituirsi parte civile) è inammissibile. Invero, premesso che non risulta - né i ricorrenti l'hanno anche solo allegato - che, con l'atto di appello, era stata impugnata l'ordinanza di ammissione di costituzione di parte civile, in ogni caso la Corte di merito ha evidenziato che lo statuto dell'Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valor Militare, eretto in Ente Morale con R.D. 31 maggio 1928, n. 1308, riporta, tra le finalità proprie dell'ente, la tutela delle virtù militari italiane, dell'amore per la Patria e la sensibilizzazione della coscienza dei doveri verso la Patria delle giovani generazioni, e, nell'ambito di tali scopi, rientra certamente la tutela del ricordo dei caduti per la Patria, oltre che il rispetto dei luoghi in cui sono sepolti i militari caduti per la Patria stessa.”


Quanto, infine, alla contestazione del quantum del danno, la Corte di merito, con una valutazione di fatto certamente non illogica, né arbitraria, ha ribadito la congruità dell'importo liquidato dal Tribunale sulla base sia dei connotati di grave offensività della condotta, realizzata all'interno di un momento storico nazionale, sia del fatto che il video, ritraente l'azione vilipendiosa, è stato poi diffuso sul web e così proposto a un numero illimitato di persone, con il rischio di condotte di emulazione. In ogni caso, i ricorrenti deducono censure di contenuto fattuale e, comunque, generiche, che, quindi, non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità 12.

Al rigetto dei ricorsi consegue, come per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento, nonché delle spese in favore della parte civile, che liquida in complessivi 3.686,00 euro, oltre oneri di legge.


P.Q.M.


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese in favore della parte civile, che liquida in complessivi 3.686,00 euro, oltre oneri di legge. Così deciso il 09/05/2024.


lunedì 21 ottobre 2024

Rivista QUADERNI N. 3 del 2024 Luglio Settembre 2024

 


info: quaderni.cesvam@istitutonastroazzurro.org

Numero dedicato nella sua apertura alla Sentenza della Corte di Cassazione, terzo grado di giudizio, in merito alla vicenda di Redipuglia. Grazie a Laura Ferretti, avvocato e socia della Federazione Provinciale di Pordenone, è stato messo un punto fermo su andazzi che cozzano contro lo spirito statutario dell’Istituto. Come sottolineato nell’editoriale del Presidente, si invitano tutti i Soci dell’Istituto ad una riflessione su “che cosa fa e deve fare” l’Istituto del Nastro Azzurro”, anche con una lettura attenta della Sentenza della massima Corte di giudizio.

Approfondimenti dedica spazio alla vicende della Divisione “Emilia” ed ad un episodio della “battaglia in porto” della guerra marittima della Prima guerra mondiale con la ricostruzione dell’affondamento, da parte di sabotatori italiani al soldo degli austriaci, della corazzata “Leonardo da Vinci”. Dibattiti porta due contributi di “alumni” dei Master, uno dedicato alla triste vicenda della dittatura militare in Argentina degli anni ‘80 del secolo scorso, vicenda quando mai emblematica in tema di libertà e cultura e l’altro alle vicende a Polcenico (Pordenone) della formazione partigiana “Ciro Menotti”, così come Archivio porta il contributo della neolaureata Elda Franchi su un tema veramente originale: potere e violenza di Stato, con approfondimenti sui Laogai cinesi e la loro funzione. Nonostante la linea che questa rivista ha sempre adottato di non pubblicare articoli già pubblicati, si fa un eccezione, in Musei, Archivi e Biblioteche, con la pubblicazione di un contributo di Alessandro Gentili dedicato alla figura del Maggiore Infelisi ed al recupero della sua memoria. Nel centenario della morte di Giacomo Matteotti, due contributi, uno di ricostruzione della nota vicenda dell’assassinio politico, eccezione nella storia parlamentare italiana, di Alessia Biasiolo, mentre Stefano Bodini ci pone alla attenzione l’ultimo scritto edito di Giacomo Matteotti, che si spera pubblicare nei CESVAM Papers nella sua integrità, che riporta in diverse pagine le violenze che si perpetuarono nel 1924 nell’ambito del confronto politico del tempo, preludio alla dittatura.


Nella seconda parte della Rivista, Una Finestra sul mondo ci apre alla questione dei BRICS, mentre Geografia delle Prossime Sfide cii porta nel mondo latino-americano e e sue dinamiche di caoslandia e colpi di stato, nel caso in ispecie, la Bolivia; infine una scheda su le sanzioni che la UE ha imposto alla Russia in conseguenza alla aggressione alla Ucraina.


Nelle consuete rubriche, segnalato l’inizio dell’anno accademico universitario e l’attività che si programma per la maggiore diffusione, oltre l’approccio associativo ludico-rievocativo, dei Master con i risvolti non solo di diffusione culturale ma anche economico-finanziari; altra attività posto in evidenza, la ricerche, già inizia un anno fa, della individuazione di materiale materico afferente la Storia dell’Istituto del Nastro Azzurro. Infine il rinvio alle filiere attivate nella rete, che ampliano la capacità di diffusione del CESVAM, che vede in nuce lo studio di nuove iniziative.


Infine da segnalare la edizione del N.2 del 2024, (N. 32 della Rivista Aprile Giugno 2024) di QUADERNI in versione “elettronica” completa che è in corso a titolo gratuito nell’ambito della campagna di abbonamento 2024 - 2025





I Copertina: Fotografia del Sacrario Militare di Redipuglia

IV Copertina: Locandina Master in Politica Militare Comparata. Dal 1960 ad oggi


giovedì 10 ottobre 2024

Alessia Biasiolo Polizia Africa Italiana. e la sua origine.

 (nota sui corpi di polizia)

Polizia regia e Polizia dell’Africa Italiana

L’istituzione della Regia Guardia per la Pubblica Sicurezza, nel 1920, per volontà di Francesco Saverio Nitti (erede delle scelte del predecessore Vittorio Emanuele Orlando, che già aveva assegnato a Camillo Corradini il compito di insediare una Commissione in grado di modificare la Pubblica Sicurezza), aveva obbedito alla necessità di creare una forza armata non rispondente al Ministero della Guerra, ma al Ministero dell’Interno, in modo che fosse una polizia ampia e moderna, al passo con i tempi, dipendente dall’autorità civile1. L’organizzazione era di tipo militare, con un organico quattro volte più ampio rispetto al precedente e possibilità di accesso all’arruolamento facilitate, con avanzamenti di carriera più rapidi, stipendi più alti rispetto agli altri corpi armati e la difesa dello Stato liberale più attiva, in un momento di profonda crisi sociale come quello dell’immediato primo dopoguerra, già sfociato nel tristemente famoso biennio rosso.

La Regia Guardia verrà subito sciolta, dopo soli tre anni di attività, dal governo Mussolini non appena insediatosi; sarebbe stata sostituita dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.

L’istituzione di una nuova Polizia si era resa necessaria perché l’uso di adoperare i soldati per controlli di ordine pubblico era diventato difficile: le sorti della guerra, pur vinta dall’Italia, avevano minato la fiducia nello Stato, e quindi nei suoi rappresentanti, tanto che spesso, date le manifestazioni e le proteste dei sudditi, si vedevano i militari solidarizzare con loro, rendendo vana quindi la stessa azione di controllo. Il governo, inoltre, non riponeva più molta fiducia nei militari, in quanto tra i ranghi ufficiali c’erano molti rivoluzionari, e il timore di colpi di Stato erano sempre in primo piano nelle preoccupazioni dell’Interno.

Per quanto riguarda l’altra Forza Armata deputata all’attività di polizia militare, svolta dall’Arma dei Carabinieri, risultava priva della fiducia degli italiani, in quanto era stata vista come un’accolita di militari imboscati che, durante la guerra non aveva svolto altro che attività di polizia di controllo e caccia degli imboscati e dei disertori, rendendo invisa ai più la divisa stessa. Prova ne sia che i bandi di arruolamento del dopoguerra andavano praticamente deserti.

Era necessario non solo ritornare alla fiducia nell’attività dello Stato, ma anche arginare i fenomeni sempre meno controllabili di rivolte, scioperi e disturbi dell’ordine pubblico da parte di persone di fiducia e non, pronte a connivenze con i facinorosi.

Questo aspetto divenne quanto mai importante con gli squadristi, proprio quelle squadre formate prevalentemente da ex militari da poco tornati dal fronte, e altri desiderosi di disturbo che avevano preso a scorazzare per le campagne e le città, alla ricerca di quell’ordine e di quel menar le mani che non sembrava ricostituito dopo il conflitto appena trascorso e che non aveva, con le risoluzioni prese in favore dell’Italia, soddisfatto giovani che si ritrovavano deprecati, quasi fossero stati la causa del disfacimento sociale generale.

Peraltro la Pubblica Sicurezza era già garantita dalle Guardie di Città che, come per i carabinieri, non godevano del rispetto generale, né della popolazione, né degli esponenti del Regno.

Pericolosamente, poi, anche le forze già esistenti di Pubblica Sicurezza si stavano orientando verso quella sinistra che sembrava avere il vero controllo politico del Regno, con divulgazione di giornali e di proclami socialisteggianti, incitazione alla lotta e alla rivoluzione, organizzazione di scioperi per ottenere aumenti di stipendi, l’assegnazione delle terre (annoso problema che dovrà aspettare un’altra guerra mondiale per essere risolto) e miglioramenti di trattamento e di carriera. Anche la polizia esistente, pertanto, non poteva considerarsi affidabile nell’intento di arginare quella deriva socialista che guardava ai fatti che si andavano aggravando in Russia, dove la guerra civile dimostrava come la mancanza di controllo poteva diventare ancora guerra e sovvertimento di tutta la vita com’era costituita.

A quel punto della situazione, non restava al governo liberale che chiedere, com’era d’uso, aiuto alla “parte sana” della popolazione, aiuto volontario per il controllo della protesta. Ma quale poteva essere, in quei momenti, la parte sana della popolazione, rimasta liberale? E come si poteva scegliere tra i volontari ex combattenti, i volontari futuristi, i volontari dei Fasci di Combattimento che si erano costituiti nel marzo 1919, in un 1919 denso di fenomeni rivoltosi, in un’Italia scontenta?

Diventava difficile, perché ogni ardito poteva scontrarsi con le forze dell’ordine non rispettandone la divisa, mentre i regi poliziotti non volevano compiti di normale amministrazione, ma incarichi di tipo militare, come ci si era abituati durante la guerra a preferire la militarizzazione e l’uso della violenza. Questa era dilagata in ogni ambito civile e per lo Stato liberale fidarsi di qualcuno era sempre più difficile, a difesa della liberalità stessa. L’impiego divenne pertanto soprattutto in chiave anticomunista, antibolscevico come si diceva citando sempre la paurosa rivoluzione russa, che costituiva uno spauracchio non tanto millantato quanto tangibile per tutti coloro che temevano di perdere i proprio averi e, allo stesso tempo, era un miraggio per coloro che auspicavano la collettivizzazione, un benessere diffuso, un miglioramento della vita miserabile che i più spesso conducevano. Inoltre, alla novella Polizia veniva data un’autonomia impensabile in altri casi, come per i commissariati, per ogni aspetto dell’attività organizzativa.

Il comando veniva affidato ad un comandante di Corpo d’Armata che agiva in modo altrettanto autonomo rispetto al potere centrale, generando anche nella singola guardia la certezza di poter agire secondo un ampio potere di discrezionalità, in linea con lo stesso criterio di arruolamento che dava ampi spazi di libertà rispetto a quello degli altri Corpi.

Interessante però sottolineare che, dato che molti militari erano stati smobilitati, con il dilagare della disoccupazione durante il biennio rosso, molti ex militari erano stati portati ad arruolarsi nella Regia Guardia, ottenendo migliori condizioni di trattamento, più possibilità di carriera ma, soprattutto, assicurando il governo sull’affidabilità del personale arruolato, già fedele alla Patria e all’obbedienza (veniva riconosciuto anche l’uso delle stellette a cinque punte sul colletto delle uniformi, sottolineando l’appartenenza e la disciplina militare).

In alcuni casi, tuttavia, non venne attuata un’adeguata selezione (sia fisica che di capacità oggettive e di preparazione al lavoro da svolgere)2 e spesso c’era discrezionalità di arruolamento da parte del superiore, con scarso controllo della disciplina, più votata allo sparare che ad intervenire diversamente.

Gli incarichi non venivano dati per forza nella propria regione, creando dei pregiudizi da parte dei cittadini nei confronti delle guardie provenienti da altre parti del Regno, e diffondendo l’idea di personaggi che si comportavano, o si dovevano comportare, soltanto come degli odiati sbirri di antica memoria.

Il Corpo aveva la propria bandiera e la propria banda, reparti armati e a cavallo. Si componeva del Comando e di sette Legioni dislocate a Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia a loro volta divise in divisioni, battaglioni, compagnie, squadroni, tenenze, plotoni e stazioni. Le divisioni erano presenti a Brescia e ad Ancona, ad esempio.

Il 13 giugno 1921 vennero ribaditi gli ambiti di intervento della Regia Guardia che prevedevano, oltre alla tutela dell’ordine pubblico, lavoro di polizia giudiziaria, amministrativa e di pubblica sicurezza; l’arresto di renitenti alla leva o disertori; l’arresto di criminali comuni e la sorveglianza del territorio, comprese le fabbriche e i depositi d’armi; il pattugliamento di porti e zone marittime; la sorveglianza sui teatri e sui locali pubblici anche dove si svolgevano spettacoli.

Rimaneva espressamente adoperata in chiave antirivoluzionaria e, pertanto, antisommossa; in caso di guerra, era prevista la partecipazione alla difesa dello Stato. Appositi agenti si sarebbero occupati delle attività d’investigazione. La struttura rimaneva di stampo militare.

Il caso dell’impiego come antisommossa fu evidente ad Ancona, il 26 giugno 1920, quando l’11° Reggimento Bersaglieri era in partenza per l’Albania. Un reparto si ribellò3 riuscendo ad asserragliarsi nella Caserma Villarej, appropriandosi di corazzati con i quali uscì ottenendo l’appoggio di rivoltosi cittadini. Gli scontri a fuoco con le guardie regie e i carabinieri presenti in città durarono tre giorni, mentre arrivavano rinforzi da Roma, costretti ad asserragliarsi in stazione, in mano ai rivoltosi protetti anche da mitragliatrici.

A quel punto, fu possibile organizzare il contrattacco, con la copertura di una torpediniera della Marina Militare e l’ausilio delle linee telefoniche che permisero l’organizzazione migliore. Era indispensabile riprendere il controllo della stazione ferroviaria e dei quartieri popolari, come brillantemente avvenne.

Per i fatti di Ancona vennero assegnate alle guardie regie una Medaglia d’Argento al Valor Militare al tenente Umberto Rolli e di Bronzo al tenente Ernesto Paglione; una Medaglia di Bronzo al Valor Militare anche ad Antonino Bellitto, Giacomo Dominici, Ciro Falcone, Salvatore Gerbino, Antonio Sgroi, Gavino Fiori, Calogero Lo Giudice, guardie regie; al brigadiere Sante Fargione che rimase ucciso in azione; al vice brigadiere Fedele Foglietti.

Altri casi di ribellione e insurrezione si ripeterono in altre zone d’Italia.

Nello stesso anno, a dicembre, dalla vigilia di Natale, il Battaglione Roma della Regia Guardia venne impiegato nell’espugnazione della città di Fiume in mano ai Legionari dannunziani.

Un po’ più difficile era il mantenimento dell’ordine pubblico contro le rivolte o le violenze fasciste perché, se a Sarzana e a Modena si riuscì nell’intento, si era anche riusciti a non capire bene se e come intervenire, anche per le connivenze di cui abbiamo scritto, ma senza chiarezza politica, tanto che anche quelle operazioni aumentarono la rabbia nei confronti delle guardie regie fino al loro scioglimento4.

Sul piano politico ci fu acceso dibattito tra chi non era d’accordo che anche il Ministero dell’Interno avesse un proprio Corpo armato, come già esisteva la Guardia di Finanza; chi pensava che il governo volesse distruggere l’Arma dei Regi Carabinieri; chi temeva l’eccessivo potere che il governo poteva prendere avendo ai suoi ordini diretti poco più di 25mila uomini, quasi il doppio rispetto alle Guardie di città preesistenti.

Nitti, dal canto suo, era convinto di dover avere a disposizione un Corpo che mettesse il governo liberale al riparo dal temuto colpo di Stato che poteva soltanto essere condotto dai militari, riequilibrando quindi le forze.

Era imperante, a quel punto, che la Polizia fosse apolitica e apartitica, come venne ripetutamente dichiarato e come si voleva garantire, anche se i detrattori la dichiaravano forza di Nitti, suo creatore, e quindi di un ben determinato indirizzo politico.

Spentosi il biennio rosso, e quindi la paura del dilagare comunista della rivoluzione, anche le regie guardie presero atteggiamenti di connivenza con il fascismo in auge, rifornendo armi e chiudendo uno, o talvolta due occhi, sugli atteggiamenti violenti, tanto da essere o appartenente al partito, o comunque filofascista.

Sarà la mancanza di ordini e direttive precisi, in una sorta di vuoto di potere, a dare meno forza alle regie guardie e più spazio per lo squadrismo che non voleva soltanto agire in modo sovversivo, ma agire come garante dell’ordine. Spesso le guardie erano impotenti dinanzi alla violenza squadrista e alla capacità di porsi al centro della scena anche politica. Quindi il posto delle guardie veniva preso dagli squadristi, spesso con l’aiuto delle guardie stesse. Siamo nel 1921 e l’anno dopo si avrà la netta abdicazione del controllo sociale da parte delle forze dell’ordine in favore di uno squadrismo fascista sempre più impudente, sempre più protetto: addirittura vennero agevolate le fughe dal carcere di fascisti arrestati per azioni violente.

Colonne di camicie nere si concentravano in alcune città e devastavano le sedi sindacali o partitiche o dei giornali non conniventi. Si parlava di oltre sessantamila persone a Ferrara, ad esempio: sarebbe stato impossibile per le guardie regie agire in difesa delle istituzioni e dell’ordine pubblico.

Le indicazioni che arrivavano al Viminale rispetto alla presa di potere capillare che stavano conducendo i fascisti, di punti nevralgici delle città e delle campagne, non venne ascoltata e così, tra impossibilità di far fronte alla forza fascista e connivenze di vario grado, il fascismo aveva mano a mano preso il potere del Paese, senza che una forza gli si opponesse in modo serio e, soprattutto, adeguatamente organizzato.

Per quel motivo, alla marcia su Roma della camicie nere, fu dato il potere ai militari per preparare lo stato d’assedio, ma le camicie nere il potere territoriale l’avevano già, oppure facilmente lo ottennero.

I comandanti generali dell’Arma dei Carabinieri e della Regia Guardia, il 4 novembre 1922, ricevettero una circolare con la quale Aldo Finzi, sottosegretario all’Interno, dispose di non dare luogo a procedere contro quegli uomini che, durante la marcia, vi avessero partecipato in vario modo.

La Regia Guardia venne sciolta il 31 dicembre 1922, dopo adeguata opera di verifica dei comportamenti, generando non pochi momenti di tensione e ribellioni da parte delle guardie stesse.

Il prefetto di Brescia Arturo Bocchini, che diventerà capo della Polizia, segnalò che le guardie volevano scendere in piazza per protestare e così accadde in molti altri posti, dove vennero anche assaltate le sedi dei sindacati fascisti o del partito, tra numerosi atti di insubordinazione.

Naturalmente la scelta di sciogliere le Regie Guardie era dettata dalla volontà di togliersi di torno coloro che potevano non rispondere al Ministero della Guerra, favorendo i fascisti e i nazionalisti di destra, accontentando chi non voleva più vedere la famosa polizia di Nitti e dimostrando di voler primariamente controllare il territorio con una milizia gestibile.

Riuscire però a rendere la Milizia parte dell’Esercito avrebbe comportato un onere troppo alto, mentre lo stesso Mussolini voleva risolvere quel problema per poter controllare gli squadristi. Lo stesso 31 dicembre venne creato un reparto specializzato dei carabinieri, nel quale però confluirono pochi uomini delle guardie e, alla fine, ci si rese conto del fallimento dell’operazione, dato che sul territorio non c’erano persone adatte a gestire l’ordine pubblico, tanto che fu necessario creare il Corpo degli Agenti di Pubblica Sicurezza.

Esistevano commissari volanti accanto a quelli di carriera ed esisteva anche una non ben precisata CECA, polizia rivoluzionaria come quella sovietica, che ebbe come massimo atto il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti nel 1924, episodio che dimostrò a Mussolini come affidare la polizia speciale a volontari di quel genere, disorganizzati e violenti, non poteva essere accettato. Doveva essere addestrata e fascistizzata una polizia che fosse preparata ad affrontare le situazioni di pericolo per lo Stato.

Il 1925 sarà un anno cruciale per l’Italia, dal momento che si passerà da un governo autoritario, ma ancora parlamentare, ad una dittatura in cui le libertà erano fortemente limitate; venne reintrodotta la pena di morte; i sindacati furono sciolti in favore delle corporazioni, eccetera.

Nel 1926 venne varato il Testo Unico sulla Pubblica Sicurezza, con il confino come metodo per liberarsi degli antifascisti o sospetti tali; comunque dell’opposizione. In quell’anno vennero presi anche altri provvedimenti per la difesa dello Stato, con l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, ad esempio, e la creazione della polizia segreta OVRA, sigla che ha varie spiegazioni, sia di repressione degli antifascisti, sia di repressione di coloro che erano contrari allo Stato, ma forse anche acronimo voluto da Mussolini togliendo le prime lettere alla parola piovra. Alcuni ne hanno negato l’esistenza, dal momento che essendo un elemento segreto non tutti erano al corrente delle sue specificità, ma altri ne attestarono l’azione.

Con la riforma della polizia nasce quindi la polizia politica, OVRA, ai cui incarichi si aggiunge anche il controllo del fascismo stesso e dei suoi gerarchi. Era un organismo indispensabile, perché urgeva uno strumento specializzato nel controllo dei comunisti che, avendo scelto di non sciogliere le proprie file, potevano portare la lotta all’interno dello Stato dove continuavano in segreto ad operare, cercando di evitare l’arresto.

L’azione repressiva si rivolgerà quindi contro socialisti, comunisti (Camilla Ravera, ad esempio, una delle fondatrici del Partito Comunista e membro del gruppo interno, riuscì a sfuggire alla cattura quando il partito venne dichiarato illegale nel 1926 e poi dovette lasciare il Paese per motivi di salute, rientrando nel 1928 per ricostituite il centro clandestino interno; verrà arrestata nel 1930 e condannata a 15 anni e mezzo di reclusione) e Giustizia e Libertà, della quale vennero arrestati i capi Ferruccio Parri, Ernesto Rossi e Riccardo Bauer. Giustizia e Libertà era abbastanza scoperto come gruppo clandestino, perché poco propenso alla cospirazione e alla difesa, e questo lo rese molto vulnerabile.

L’attività dell’OVRA si avvalse di funzionari di polizia, di spie, di persone corrotte che, a fronte di un forte stipendio mensile, si occupavano di infiltrarsi, sia in Italia che all’estero, nei gruppi e nella società in genere, per avere informazioni sulla fedeltà al regime, anche da parte di fascisti stessi.

Molti documenti scomparvero o furono distrutti prima della fine della guerra sull’operatività dell’organismo, ma gli operatori dell’OVRA furono capaci di costruirsi anche una difesa per il futuro mentre lavoravano per il regime.

La decurtazione dei nomi di oltre seicento elementi della polizia politica che furono pubblicati sul giornale Gazzetta Ufficiale, fu attuata da Nenni (forse timoroso che nei documenti ci fosse qualche chiacchiera di Mussolini del quale era amico in gioventù) e Sforza, quando pare che ci si interessasse dei nomi dei collaboratori dei vari gruppi clandestini per evitare che comparissero. La vicenda è ancora avvolta nel mistero per molti aspetti, dal momento proprio che interessò molte persone e sempre in modo segreto. Inoltre, alcune persone, come Ugo Modesti (il vero nome era Luca Osteria), fecero il doppio gioco quando si resero conto che non c’era futuro per il nazifascismo. Ugo in modo particolare era in contatto con Ferruccio Parri, tradendo i tedeschi ai quali propose di creare un servizio di spionaggio in Svizzera, dove portò Indro Montanelli, arrestato nel 1944 e liberato proprio grazie al suo intervento. Il ruolo di doppiogiochisti, in contatto con gli Alleati e con il Comitato di Liberazione Nazionale, li fece spesso salvare anche dall’epurazione, fondamentalmente perché si professarono servitori dello Stato, quindi scevri di parte politica, durante il loro lavoro.

Nel 1931 venne adottato il Codice Rocco che apportò la riforma del Codice Penale.

Nel Regno d’Italia, tra le varie forze dell’ordine, è esistita anche la Polizia dell’Africa Italiana, con il fascio littorio come simbolo, istituita infatti in periodo fascista, nel 1936, e operante fino alla fine della seconda guerra mondiale, prima nelle colonie, quindi in servizio anche in Italia dopo l’8 settembre.

Si trattava di un corpo di polizia coloniale con compiti di ordine pubblico, di polizia amministrativa, giudiziaria e di frontiera a difesa delle colonie italiane, l’Etiopia e l’Africa Orientale Italiana.

Inizialmente il riferimento era il Ministero delle Colonie, poi rinominato Ministero dell’Africa Italiana, istituzione civile che aveva al suo comando una forza armata. Infatti, il decreto n. 1211 del 10 giugno 1937 istituiva il regolamento della polizia coloniale come corpo civile militarmente organizzato e parte delle Forze Armate del Regno.

La PAI era composta da ufficiali, sottoufficiali, agenti e ascari locali; erano riuniti in battaglioni intitolati agli esploratori italiani dell’Africa come Duca degli Abruzzi, Bottego, Ruspoli.

Le questure si trovavano nelle città coloniali più grandi come Tripoli, Bengasi, Asmara, Addis Abeba, Mogadiscio, Gondar.

Contraddistinti da un’apposita divisa, i membri della PAI avevano in dotazione il moschetto Carcano Mod. 91 e la pistola semiautomatica Beretta Mod. 34, oltre ad un’arma bianca corta ad imitazione dei pugnali somali chiamata billao.

Per la PAI il billao venne prodotto a livello industriale e non più artigianale com’era l’uso locale, in forma di foglia asimmetrica lunga 193 mm, mentre l’arma complessivamente era lunga 310 mm compresa l’impugnatura con guancette di corno di bufalo fissate con due rivetti; l’elsa era una crociera ovale in lamiera di ferro. L’arma era riposta in un fodero di cuoio, fermata da una molla interna e da una piccola cinghia con bottone.

La PAI rientrava nel concetto di sicurezza pubblica e, soprattutto, controllo del Regno.

Apparteneva alla Polizia dell’Africa Italiana anche lo squadrone dei Lancieri della guardia, preposti alla difesa del governatore della Somalia Francesco Saverio Caroselli, comprendente sia agenti italiani che somali; e un’unità a cavallo di cavalieri eritrei, comandata da ufficiali italiani e composta da 137 ascari eritrei. Ascari erano anche libici, che parteciparono ad azioni belliche durante la seconda guerra mondiale in Tripolitania.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la Polizia dell’Africa Italiana venne impiegata per la difesa di Roma dichiarata città aperta (dall’8 settembre 1943 al marzo 1944 il comando lo ebbe il generale Umberto Presti).

Nei pressi della capitale avvennero scontri con i tedeschi, sia a Mezzocamino che lungo la via Tiburtina, anche di scorta all’uscita dalla città del Re, verso Brindisi. Nello scontro con le forze tedesche alla Magliana vennero ottenuti alcuni risultati, fino al ripiegamento al Forte Ostiense. I nazisti riuscirono ad arrestare il primo comandante della PAI, il generale Riccardo Maraffa, che venne deportato nel campo di concentramento di Dachau dove morì.

Il suo successore Quirino Armellini, già Medaglia di Bronzo al Valor Militare “Per bella prova di accortezza e di ardimento data operando isolatamente con la sua centuria sul fianco della colonna che ripiegava in ritirata, e per fermezza d’animo dimostrata dopo di essere rimasto ferito” a Kuscia il 13 marzo 1915; combattente durante la Grande Guerra e insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare per il suo impegno sul fronte macedone nel 1918 (“Nelle funzioni di ufficiale di stato maggiore addetto al comando di una colonna speciale incaricata di marciare celermente da Kruscevo su Sop per sbarrare al nemico la strada Monastir-Kicevo, dava prova di singolare ardimento e coraggio, portandosi nei vari punti della linea, impegnata in vivace combattimento, incitandoli con la voce e con l’esempio, per fornire al comandante precisi ragguagli sulla situazione”), quindi promosso tenente colonnello, venne impiegato nella riconquista della Libia tra il 1926 e il 1927 (ancora Medaglia di Bronzo al Valor Militare perché Comandante di un gruppo di manovra durante un lungo ciclo di operazioni ha saputo guidarli in numerosi combattimenti in modo da conseguire i maggiori successi, dimostrando sempre belle doti militari” ad Abiar bu Sfeia il 2 gennaio 1927 e nello Gebel Centrale (Cirenaica), tra l’ottobre 1926 e il maggio 1927).

Nel 1935 divenne uno stretto collaboratore di Pietro Badoglio durante la guerra d’Etiopia, le cui memorie sono nel suo libro “Con Badoglio in Etiopia”. Promosso generale di Brigata, assunse vari incarichi fino alla promozione a generale di Divisione. Destituito Mussolini, Badoglio lo volle comandante della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che sciolse.

Con l’8 settembre, il suo ruolo doveva essere quello di comandante di Roma, mentre era uno degli uomini più ricercati dai nazisti in quelle tragiche ore, tanto che, non avendo ricevuto l’incarico, cercò di seguire il Re in partenza per Brindisi. Non riuscendo nell’intento, tornò nella capitale dove assunse il ruolo di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, arrestato dai nazisti, come capo del Fronte Militare Clandestino, quindi della resistenza romana. Per questo ricevette un’altra Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Durante un difficile periodo organizzava e dirigeva in Roma, con fede ed entusiasmo inesauribili, la rete informativa ed il movimento patriota della zona. Con operosa sagace attività, eludendo la vigilanza avversaria, forniva per più mesi preziose informazioni operative al Comando Supremo Italiano e Alleato. Con il suo esempio animatore manteneva viva nei patrioti la volontà di resistere e la fede nella rinascita della Patria”.

Nel corso del 1944, la PAI venne assorbita dal Corpo di Polizia Repubblicana della Repubblica Sociale Italiana e poi dalla Guardia Nazionale Repubblicana (guardie regie vennero impiegate anche nelle stragi e fucilazioni di Forte Bravetta, nell’ambito dell’attività antipartigiana, avvenute il 31 gennaio, il 7 marzo e il 3 giugno 1944), mentre nell’Italia del Sud la Polizia dell’Africa Italiana affiancò altre unità operanti in zona, fino a quando non venne sciolta il 9 marzo 1945, con il personale trasferito nella Pubblica Sicurezza, prevalentemente nei ruoli amministrativi. Quindi le vicende per quella branca di polizia furono diverse a seconda della zona italiana dove i suoi uomini si trovavano ad operare.


Alessia Biasiolo, CESVAM, vicepresidente della Federazione di Ancona

1 L’attività di Amministrazione di Pubblica Sicurezza entrò in vigore nel Regno di Sardegna nel 1848, per volontà del re Carlo Alberto, subentrando alla Direzione di Polizia. Lo stesso nome “Pubblica Sicurezza” rispondeva all’esigenza di togliere dall’immaginario collettivo il termine “Polizia”, al quale era sempre più inviso, mentre il termine “Amministrazione” serviva a sottolineare i nobili compiti che ai poliziotti sarebbero stati affidati. I sindaci mantenevano compiti di sicurezza pubblica, la cui esecuzione degli ordini rimaneva ai Reali Carabinieri, istituiti da re Vittorio Emanuele I il 13 luglio 1814. Come decreto attuativo dello Statuto Albertino venne istituita la Guardia Nazionale, mentre il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, militarizzato e dipendente dal Ministero dell’Interno, avvenne nel 1852. Altre riforme si susseguirono per rispondere alle esigenze nate dagli esiti delle guerre d’Indipendenza e dalla nascita del Regno.

2 Il candidato doveva avere compiuto i 18 anni e non averne più di 30, essere celibe o vedovo senza figli; doveva essere alto almeno 1,60 metri o 1,65 se a cavallo; doveva sapere leggere e scrivere, avere sempre avuto buona condotta e non avere pertanto condanne a carico. Un’apposita Commissione era deputata al controllo dei requisiti, chiedendo la ferma di tre anni che dava diritto ad un premio di mille lire immediatamente esigibile. Il corso seguente durava sei mesi.


3 Le scelte politiche volevano il ridimensionamento dell’esercito e l’11° Bersaglieri era destinato allo scioglimento.

I soldati erano felici, dopo più di trenta mesi di ferma, e non vedevano l’ora di tornare a casa, sani e salvi dalla guerra da poco conclusa. Invece, date le ribellioni in Albania contro il presidio italiano comandato da Settimio Piacentini dopo il trasferimento a Tirana della capitale, vennero chiesti rinforzi, e arrivò ai bersaglieri l’immediato ordine di partire. Alcuni ufficiali erano contenti di poter dimostrare le loro capacità e di poter aspirare alla carriera, che sembrava altrimenti impossibile, date le notizie di scioglimento dei reparti. Quindi si creò un forte malcontento che si risolse nella rivolta, anche sentite le locali organizzazioni sindacali e politiche socialiste e anarchiche. Questa non era comunque inaspettata, visto che si stavano propagando idee antimilitariste che continuavano a premere per togliere la presenza italiana a Valona, per quell’idea imperialista che aveva fatto sperare di annettere il Paese e di mantenerlo, anche dopo l’umiliazione del Trattato di Versailles, che invece si manteneva in molti circoli.


4 All’indomani della marcia su Roma, una guardia regia venne assassinata a Bologna durante i festeggiamenti fascisti, ad esempio.